sabato 29 ottobre 2011

"La Partenza" di Ernst Stadler

Ripescaggi #3












----
Quella che segue è una recensione mai uscita su riviste cartacee, non propriamente un ripescaggio quindi, un testo che avevo scritto per il mensile "Poesia" di Crocetti. Circa un anno fa avevo iniziato a collaborare recensendo il bel saggio di Federico Italiano Tra miele e pietra. Aspetti di geopoetica in Montale e Celan uscito per Mimesis. Per qualche motivo mi risulta che questa recensione a La partenza di Ernst Stadler (:duepunti edizioni, pp. 176, euro 10), preparata come secondo contributo per quella rivista, non sia mai uscita. Rimedio qui.
----


Il secondo volume della collana ex libris di questa piccola grande casa editrice colma un vuoto e costituisce a tutti gli effetti una risposta alla disattenzione nella quale l’editoria di casa nostra aveva seppellito la breve parabola di Ernst Stadler. Il merito, in questo caso, va condiviso con il curatore, Maurizio Pirro, già distintosi per uno studio sulla narrativa tedesca del secondo dopoguerra dall’inequivocabile titolo Costruir su macerie, libro dall’approccio innovativo ma purtroppo penalizzato da un’edizione a circolazione limitata.

Ernst Stadler nacque a Colmar, in Alsazia, nel 1883. Germanista e filologo, studiò nelle università di Strasburgo, Monaco e Oxford. A Bruxelles ottenne la prima e unica cattedra; avrebbe dovuto insegnare anche a Toronto ma non partì mai per il Canada a causa dello scoppio della guerra. Si distinse per la collaborazione alla rivista “Der Stürmer” del coetaneo e instancabile animatore René Schickele e per le traduzioni da Balzac, Peguy e dal poeta Francis Jammes, le cui liriche furono pubblicate nella celebre collana “Der Jüngste Tag” di Kurt Wolff. Ufficiale di riserva, fu chiamato alle armi nell’agosto del 1914. Troverà la morte il 30 ottobre 1914, nei pressi di Ypres.

Oggi Stadler è annoverato assieme a Trakl e Heym tra i più grandi poeti del primo espressionismo in lingua tedesca (la precoce morte li accomuna, tra l’altro). Del 1905 è la raccolta dal titolo impressionistico di Präludien mentre questo Der Aufbruch è stato pubblicato qualche mese prima della partenza per il fronte. Una partenza senza ritorno, come già ricordato. Eppure le liriche del poco più che trentenne Stadler lasceranno un profondo segnale di cambiamento e rinnovamento di linguaggio nella letteratura di lingua tedesca. Ed è forse inevitabile che sia così, se pensiamo all’eccezionale formazione linguistico-filologica e all’importante operato di traduttore dal francese già ricordato.

La poesia di Stadler è stata spesso accostata a quella di Walt Whitman. Non fa eccezione la presentazione della casa editrice di Palermo. E non è solo l’utilizzo del verso libero combinato ad un’inedita sintassi slegata a imporre il nome di Whitman. Queste poesie, pubblicate appena prima dello scoppio del conflitto (durante i giorni di guerra Stadler si limiterà infatti a tenere un diario), sono forse impensabili se non frapponiamo tra i suoi due libri di poesia la figura di Nietzsche. Come il filosofo, Stadler era consapevole di vivere un periodo di transizione al moderno e la sua lirica rispecchia tale consapevolezza (il tema dell’autoconsapevolezza del moderno è tuttora molto dibattuto). Le influenze e la perfezione della forma ereditate da Stefan George e da Hugo von Hofmannsthal lasciano il posto ad una poesia più energica, piena sostenitrice della superiorità della vita sull’arte (un dilemma ricorrente in quegli anni). Il verso si fa più lungo e carico, più denso e anche dinamico. I temi e le visioni che popolano i versi sono percorsi da un sentire e da uno sguardo pienamente rinnovato, che sa posarsi anche su scene di disagio umano e che fa entrare di diritto l'autore tra i grandi del Ventesimo secolo.

(Riporto sotto la poesia Irrenhaus, ottimo esempio di quanto scrivevo nella chiusura della recensione.)

Manicomio
(Le Fort Jaco, Uccle)

Qui c'è vita che nulla più sa di se stessa -
Coscienza sprofondata per mille e mille braccia nell'abissso.
Qui risuona per sale disadorne il corale del nulla.
Qui è sopore, rifugio, ritorno a casa, stanza dei balocchi.
Qui nulla di umano minaccia. Lo sguardo fisso,
Che confuso e turbato pencola nel vuoto,
Sussulta per orrori ormai remoti.
A certi corpi torti tuttavia s'apprende uno spirito terreno.
Non vogliono staccarsi dalla luce che dispare.
Tra strida e convulsioni si gettano per terra dentro i bagni
E frignando sopraffatti si accucciano in un angolo.
Però a molti si dischiude un paradiso.
Odono le voci morte di ogni cosa circondarli
E del tutto la musica sinuosa.
A volte dicono parole strane e incomprensibili.
Sorridono miti e gentili come bambini.
Negli occhi rapiti al commercio con il corpo
           balena la felicità.

(Irrenhaus di Ernst Stadler, traduzione di Maurizio Pirro)

giovedì 27 ottobre 2011

“Pedemontana Veneta. Il divino del paesaggio: per un’economia della forma”, un volume a cura di Renato Rizzi

Ripescaggi #2









----
Ripesco qui una recensione scritta nel 2009 per il Notiziario Bibliografico della Regione Veneto. Probabilmente (se leggete l’introduzione della recensione capite perché scrivo “probabilmente”) nel mese di novembre 2011 inizieranno i lavori per la costruzione della superstrada a pagamento Pedemontana Veneta. Il libro largamente illustrato (e quindi tutto sommato... breve) di cui parlo di seguito è stato curato da Renato Rizzi per Marsilio ed uscì nel 2007.
----

Quasi sicuramente nel 2010 inizieranno i lavori di costruzione della superstrada a pedaggio Pedemontana Veneta. Ci sono ancora alcune questioni sospese, ma con ogni probabilità il prossimo anno vedremo prendere forma un cantiere lungo circa 100 chilometri, da Spresiano a Montecchio Maggiore, che collegherà le autostrade A27 e A4. L’opera interessa 32 comuni, 12 dei quali in provincia di Treviso e 20 in quella di Vicenza.

Questo volume dell’architetto Renato Rizzi raccoglie 15 plastici, presentati tra l’altro anche in una recente mostra al MART di Rovereto, e accompagna la presentazione di questi modelli, rappresentativi di alcuni angoli visuali del territorio interessato dall’infrastruttura, con contributi teorici di grande interesse. La domanda di fondo che muove il libro, alla quale viene data una risposta affermativa, appare quantomeno inconsueta anche se, in realtà, profondamente radicata nello stesso oggetto a cui guarda: possono le motivazioni funzionali e pratiche essere legate a temi metafisici? La risposta è, come detto, affermativa, dal momento che qui si parla dei luoghi e della loro sacralità. Rizzi sostiene che “ormai guardiamo il mondo con l'occhio del nichilismo, che prevede solo una visione tecnico-scientifica. Ma il paesaggio ha un carattere di divinità che è oggettivo, che sta nelle cose. Studiandolo, ci rendiamo conto che la nostra cultura è inadeguata a comprendere questa ricchezza formale”. In un altro contributo del volume, Paolo Portoghesi sostiene che il paesaggistico e il figurativo della Pedemontana Veneta rovescia la prassi, candidandosi come motivo di rigenerazione del paesaggio stesso. Per Rizzi l’architetto deve “dare senso alle opere dell'uomo nel territorio, nelle città, nei luoghi dove vive”. Nel suo pensiero si individuano importanti echi rosminiani, soprattutto con riferimento ad un pensiero che partendo dalla persona arriva al senso (non tanto al significato) delle cose. Forma, divinità, qualità, metafisica: nel discorso di Rizzi tutti questi termini riconducono ad una matrice di pensiero comune che è teologica senza essere religiosa. Per certi aspetti una traduzione architettonica-urbanistica del Deus sive natura spinoziano.

Il libro cerca di strappare il problema della costruzione di nuovi assi viari (o “corridoi”, come vengono spesso definiti oggi) alla sola competenza tecnico-ingegneristica e parallelamente mette in discussione l’utilità di un metodo come quello del V.I.A. (Valutazione d’impatto ambientale) che sta già mostrando i propri limiti. Molto più opportuno parlare di assenza di qualità nella forma progettuale, di mancanza di “sapere” della forma e provare a riportare il dibattito all’antico sapere metafisico-simbolico, qualcosa che era forse ben chiaro già ai romani quando, con la tessitura viaria dell’Italia antica, offrirono una lettura funzionale e simbolica del paesaggio e della divinità in esso contenuta (pensiamo ad esempio alla Via Emilia e alla sua funzione di confine tra la catena appenninica e la Pianura padana).

Intersecando sguardi di provenienza diversa (da quello della letteratura a quello dell’iconografia storica, da quello della pittura veneta a quello della storia del territorio) il volume in questione riesce a far percepire la concretezza del problema delle infrastrutture in Veneto: non si tratta semplicemente di tracciare un percorso, espropriare quanto è d’intralcio e mettere in funzione il nuovo asse viario. Si tratta, ogni volta che si affronta un progetto di viabilità determinante per il futuro di questa regione chiave d’Europa, di comprendere come il pratico e il funzionale debbano essere intimamente legati al metafisico e al simbolico. Sembra pura astrazione, eppure non c’è nulla di più concreto di un assunto del genere. Lo scopriremo presto.

mercoledì 26 ottobre 2011

La libreria Mondadori di Mirano (Venezia)

Librobreve in libreria #6




Una nuova libreria collabora con Librobreve ed esporrà quindi, su base quasi mensile, in uno spazio riservato, i 15 titoli suggeriti dal blog. Si tratta di un caso incoraggiante per me, perché mai avrei pensato di approcciare una realtà "di catena", non certo per motivi ideologici (devo ancora trovare una libreria che scalzi la Feltrinelli di Padova dalle mie preferite), ma semplicemente perché credevo di non poter ricevere attenzione da queste. Mi ha smentito la libreria Mondadori di Mirano, in provincia di Venezia. Ringrazio Alessandro per l'interesse e l'attivazione in questa piccola idea di collaborazione e anche Laura Favero per avermela segnalata.


Torneremo più diffusamente a parlare di questa libreria, magari in un post futuro. Per ora solo poche informazioni di servizio relative a questo spazio assai attivo anche dal punto di vista degli appuntamenti:

- la libreria Mondadori di Mirano si trova in Piazza Martiri della Libertà, 12, tel. 041 4355707;

- la libreria è su Facebook qui.


Diventano quindi quattro le librerie che collaborano con il blog: Becco Giallo di Oderzo, Lovat di Villorba, Marco Polo di Venezia e Mondadori di Mirano. 


Per finire, ecco la lista di questo mese:


1. Daniele Giglioli, Senza trauma, Quodlibet
2. Emanuela Tonon, La Luce Prima, Isbn Edizioni
3. Miguel de Unamuno, Cultura e nazione, Medusa edizioni
4. Maria Zambrano, Due frammenti sull'amore, Mimesis
5. William Langewiesche, Esecuzioni a distanza, Adelphi
6. Bonomi-Borgna, Elogio della depressione, Einaudi
7. Sherwood Anderson, Il romanzo perduto, Mattioli 1885
8. Henry James, Autobiografia degli anni di mezzo, Mattioli 1885
9. Julio Llamazares, Poesie complete, Amos Edizioni
10. Patrick McGuinness, L'età della sedia vuota, Il ponte del sale
11. Giorgio Falco, La compagnia del corpo, :duepunti
12. Matteo B. Bianchi, Gatta gatta, :duepunti
13. Carlo D'Amicis, Il grande cacciatore, :duepunti
14. Jean-Claude Izzo, Aglio, menta e basilico, e/o
15. Francesco M. Cataluccio, Chernobyl, Sellerio

lunedì 24 ottobre 2011

"Interpreti di vite". Nel laboratorio di Javier Marías

Il tuo volto domani è il bellissimo titolo della recente trilogia di Javier Marías. Sottolineo bellissimo perché trovo uno più bello dell'altro i titoli che Marías ha riservato ai propri romanzi. Lo shakespeariano Domani nella battaglia pensa a me, Un cuore così bianco, Nera schiena del tempo o Quand'ero mortale possono bastare a suggerire una certa facilità-felicità dello scrittore spagnolo nel dare i titoli. Non vi pare? Magari è soltanto una mia debolezza, eppure sono convinto che, in epoca di sovrabbondante offerta, a partire da titolazioni felici si possa provare persino a scommettere sull'opportunità di investire tempo nella lettura di un libro. Un metodo come un altro, fortemente pregiudiziale ed estremo - ne sono consapevole - ma che può trovare un legame con l'idea di partenza di questo blog, cioè il "trovare il tempo per la lettura". Con l'edizione tascabile spagnola del terzo episodio, in italiano Veleno e ombra e addio (eccone un altro!), uscì anche un'appendice, la quale è ora proposta separatamente nel minuscolo volume Interpreti di vite (Einaudi, pp. 28, euro 8) nella traduzione del solito Glauco Felici. 


Chi ha letto Il tuo volto domani sa che l'attività dei servizi segreti è in primo piano. (Detto per inciso non guasterebbe ricordare, in ottica di riproposizioni editoriali, quanto lo stesso Marías ha dichiarato in occasione del recente Premio Nonino, cioè l'importanza della lettura di Agenti segreti di Venezia 1705-1797 di Giovanni Comisso, un libro quasi irreperibile in Italia oggi.) I tre "ritratti da servizi segreti" che trovano spazio in queste trenta pagine scarse sono di estrazione "mista": Silvio Berlusconi, Michael Caine e Lady Diana. Potrete leggere il libricino sia come un'appendice alla trilogia ma anche come un invito alla stessa. I servizi segreti che abbiamo conosciuto ne Il tuo volto domani sanno leggere e interpretare le vite dei soggetti che scrutano. Qualcosa di analogo accade nelle pagine qui dedicate all'imprenditore-politico di casa nostra, all'attore hollywoodiano e all'erede al trono del Regno Unito.  


"È possibile sapere come sono le persone e come cambieranno nel futuro? Fino a che punto possiamo fidarci dei nostri amici e dei nostri conoscenti e dei nostri soci in affari, dei nostri amati, dei nostri genitori e dei nostri figli? Quali sono le loro tentazioni e le loro debolezze, o il loro grado di lealtà e la loro fermezza?" queste le parole che Marías impiega per introdurci nel vivo di questi ritratti.

In copertina un interessante taglio dall'Allegoria della simulazione di Lorenzo Lippi che enigmaticamente sottrae il volto, elemento centrale della titolazione della trilogia nonché oggetto di studio dei servizi segreti, i cui compiti s'assommano in una missione che consiste nel sapere oggi come saranno domani i volti delle persone che scrutano (di qui il collegamento con le parole dell'introduzione di Marías). Il pensiero allora può correre al Seicento, il secolo di Lippi ma anche di Torquato Accetto e della sua "dissimulazione onesta". I paratesti di un libro, quando ben giocati, potrebbero servire proprio ad aprire nuove frontiere di lettura.




Lorenzo Lippi, Allegoria della simulazione, olio su tela, 1640. Angers, Musée des Beaux-Arts.

venerdì 21 ottobre 2011

Andrea Zanzotto, nessun consuntivo


Nessun consuntivo (200 pagine di cui buona parte occupate da foto in bianco e nero, Antiga Edizioni, euro 25) è il titolo di un libro uscito per i novant'anni di Andrea Zanzotto per la cura di Carlo Ossola. La componente occasionale del volume ha cambiato segno nel giro di pochissimo tempo. Ma oggi, a pochi giorni dalla morte del poeta, è un titolo che suona più che mai corretto e accorto. La notizia della morte del poeta ctonio (la definizione è di Gianfranco Contini, in chiusura della prefazione al suo libro forse più riuscito, Il Galateo in bosco del 1978) ha fatto un po' tremare la terra. Lui, poeta del megatempo della geologia, l'uomo che invitava a non scordare i paleosismi registrati nella zona del Quartier del Piave, lui che aveva intitolato splendidamente un suo libro di interventi critici Fantasie di avvicinamento era distantissimo da un'idea di consuntivo, così come la sua poesia, espressione migliore di quelle fantasie di avvicinamento.

E quindi men che mai ha senso che provi io, qui, a tracciare una specie di consuntivo, sullo spunto offertomi da questo volume arricchito dalle foto di Nicola Giuseppe Smerilli, dai testi di Carlo Ossola, dal ricordo di Giuseppe Zaccaria, rettore dell'università di Padova, e dalla bella lettera inviata a Zanzotto da Giorgio Napolitano in data 5 ottobre 2011 e riportata nella parte introduttiva. Non ha davvero senso tentare consuntivi sulla scia delle notizie di segno opposto che si sono rincorse in pochi giorni: sarebbe il modo peggiore per ricordare la tensione amorosa della sua poesia. Una tensione positiva, poesia che sgorga da un "tradire per amore", come titola un fondamentale contributo che Stefano Dal Bianco dedicò all'aspetto metrico della poesia dei suoi esordi. Eppure non mancano nei suoi versi la catastrofe, le catastrofi e le cose intollerabili della Storia e dell'uomo o altre terribilità introiettate dalla sua anima-psiche (fu Montale a parlare in questi termini, di anima e psiche). Di Zanzotto è la migliore poesia del secondo Novecento, un secondo Novecento che alla fine aveva contribuito ad inaugurare con Dietro il paesaggio che data eloquentemente 1951. Un'impressione: forse negli ultimi tempi si è registrato un deficit di attenzione verso la sua poesia. Azzardo un'ipotesi magari balorda, che probabilmente non ha senso dato che la vita è finita nel senso letterale dell'aggettivo "finita": negli ultimi anni è come se il poeta si stesse ricaricando, quasi una nuova infanzia. Chissà cosa avrebbe scritto Zanzotto tra venti e trent'anni. Certo, chiunque può obiettare che simili discorsi dell'impossibilità, simili adynata, lasciano il tempo che trovano, che si potrebbero applicare a qualsiasi poeta, per giunta ai poeti che non hanno avuto la sorte di arrivare a novant'anni. Ma l'ingenuità di questo paradosso vorrebbe servire a riportare l'attenzione necessaria sul suo lavoro, proprio oggi quando viene talvolta "liquidato" come troppo complesso e arduo (è una preoccupazione alla quale dà seguito lo stesso Stefano Dal Bianco in un suo contributo recente, giustamente rivolgendosi alle future generazioni di lettori). Zanzotto stesso aveva risposto ad una domanda di un'intervista che "non basterebbero novecento anni per capire qualcosa della vita". Aveva semplicemente aggiunto uno zero a una domanda che riguardava i suoi novant'anni. Nessun consuntivo, nessun traguardo. Aveva anche dichiarato che è molto più importante quanto sta accadendo attorno al neutrino rispetto al compleanno, con quella consueta apertura nei confronti dell'attualità scientifica.

Sono fiducioso che il deficit di attenzione, se deficit è stato, non rientrerà "banalmente" per effetto della notizia della scomparsa. Ci vorranno degli anni, decenni forse. La sua poesia non si imbriglia, lui stesso non è mai stato imbrigliato in gruppi o correnti, e proprio per questo ha costruito negli anni delle relazioni fondamentali, non soltanto con i grandi della letteratura, in Italia o all'estero. Il deficit di attenzione rientrerà perché la sua poesia si pone in un dialogo incessante con la terribile complessità degli accadimenti della Storia, del "Mondo" della sua poesia più antologizzata. Gian Mario Villalta, nel suo ricordo apparso su Il Corriere del Veneto del 19 ottobre, ha fatto benissimo a scrivere del suo dolore quando sente definire Zanzotto come "poeta che canta i Palù e schifa i capannoni". Villalta, che è stato tra gli studiosi più assidui della sua opera, giustamente scrive che sarebbe all'incirca come "sentir dire che Dante canta le virtù cristiane e ripudia i peccati". E il nome di Dante non è speso a caso, tra i molti riferimenti possibili ai grandi poeti. Evitiamo, oggi più che mai, semplificazioni, banalizzazioni o prese per la giacchetta. Fanno davvero del male a noi e al suo ricordo, al futuro della sua poesia. Anche sfogliando e leggendo questo volume curato da Carlo Ossola rimbalza un pensiero: la sua poesia ha un futuro, è un motivo per essere contenti nonostante il vuoto lasciato dalla sua scomparsa.

Nautica celeste

Vorrei renderti visita
nei tuoi regni longinqui
o tu che sempre
fida ritorni alla mia stanza
dai cieli, luna,
e, siccom'io, sai splendere
unicamente dell'altrui speranza.


da IX Ecloghe, 1962

martedì 18 ottobre 2011

"Cerca di ascoltare anche chi tace." Le lettere di Paul Celan a Diet Kloos-Barendregt

Ripescaggi #1












- - - -
Un po' per mancanza di tempo per scriverne sempre di nuove, un po' perché mi dispiace vadano disperse, un po' perché non so se siano più deperibili le vecchie riviste di carta con cui ho collaborato in passato o questi archivi digitali chiamati blog. Inizio allora a (ri)pubblicare alcune recensioni che ho dedicato a dei libri brevi negli ultimi anni. Lo trovo un modo per rimescolare le carte, per tornare a proporre libri non vecchissimi, al di fuori di una logica stretta di novità. La seguente recensione al volume contenente le lettere di Paul Celan a Diet Kloos-Barendregt intitolato Cerca di ascoltare anche chi tace (Archinto, 2005, pp. 110, euro 15) era uscita per "daemon - libri e culture artistiche".
- - - -

Ancora una volta sono alcune lettere a far luce sulla parabola esistenziale di Paul Celan. Dal luglio del 1948 Paul Celan è a Parigi dove inizia una stagione di importanti incontri reali e intellettuali. A Parigi prende contatto col poeta ebreo-alsaziano Yvan Goll, qui inizia il suo studio determinato di Heidegger, e sempre qui, nel 1950, conosce la disegnatrice grafica Gisèle de Lestrange che sposerà nel dicembre del 1952. Da Parigi - e a Parigi - Celan cerca di ripartire, nel senso autentico e profondo del verbo, dopo il disastro materiale e morale della guerra. Ed è proprio nella capitale francese che nasce quasi per caso un'amicizia breve e intensa con una futura cantante di musica sacra, la giovanissima vedova Diet Kloos-Barendregt, ebrea olandese. Il libro che Carlo Mainoldi ha tradotto per Archinto raccoglie le dodici lettere che il poeta inviò a Diet Kloos tra l'agosto del 1949 e il luglio del 1950.

Il numero esiguo delle lettere e i vistosi silenzi tra l'una e l'altra non devono far pensare a uno scarso 'investimento' di Celan in questa corrispondenza: ogni lettera è un accento di un discorso modulato su intervalli di silenzio (di qui la frase felicemente prelevata per intitolare il libro). Questa dozzina di lettere a Diet Kloos e i silenzi tra l'una e l'altra lasciano intravedere la necessità fisiologica (nell'accezione più concretamente corporea della parola) e l'intenso sforzo nel ristabilire le relazioni tra persone dopo lo spappolamento della guerra e la rovina dell'Olocausto. Sullo sfondo sta l'ossessiva ricerca di un Tu al quale rivolgersi.

Tra i vari riferimenti alla vita parigina che nelle lettere trovano spazio, spicca l'incontro fortuito tra Celan e un collaborazionista norvegese: il poeta comprende in quest'occasione, in modo drammaticamente definitivo, che il tempo passato e il suo carico di orrori continueranno a perseguitarlo, nonostante il desiderio di 'ripartire' e nonostante la volontà di 'rifondare' i propri sensi devastati dagli eventi bellici: "Ti rendi conto che il tempo di cui credevo di essermi liberato è più maligno di quel che pensassi? Rieccolo qua, e non da solo, è tornato con i suoi individui, con tutto il canagliume, del quale si pone al servizio! No, non è qui di nuovo, era già qui, quando i miei pensieri scivolavano all'imperfetto […]". Detto con altre parole, poco più in là, nella stessa lettera, affidandosi a quel potere comunicativo che solo i paradossi hanno: "Tutto è troppo pesante, perché tutto è troppo leggero". Questo all'altezza del 1949; il modo in cui si interruppe la parabola di Celan, sempre a Parigi, nel 1970, è cosa nota ai frequentatori delle cronache di letteratura.

domenica 16 ottobre 2011

"Il soldato Cola" di Mario Puccini. Un libro e un autore dimenticati

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #4













----
Immagino che ognuno di voi abbia degli autori dei quali non sa spiegarsi la totale assenza dal catalogo dei libri in commercio o l'assenza di traduzioni in lingua italiana. Con questa quarta occorrenza di "Riletture", uno spazio dentro lo spazio dove mi allontano momentaneamente dal chiasso versicolore delle novità librarie, vado a riprendere un autore ormai completamente dimenticato. L'ho scoperto per caso, perché in un suo libro, Una donna sul Cengio (Ceschina, 1940), descrive un villaggio in riva al Piave che altro non è che Salettuol, la località di Maserada sul Piave dove abito. Mi riferisco allo scrittore marchigiano di area vociana Mario Puccini (1887 - 1957). Verrà il momento in cui qualcuno, da una posizione più autorevole di quella di un lettore qualsiasi che scrive in un blog di libri (brevi, per giunta), riprenderà per mano il lascito di questo grande scrittore, che tra le altre cose fu un importante ispanista. In parte qualcosa si sta muovendo grazie alla fondazione Rosellini di Senigallia, sua città natale. Ma, pur meritorio, questo tipo di operazioni non è probabilmente sufficiente e non è quel che ci si aspetterebbe per un rilancio d'attenzione su più ampia scala.
----

L'occasione per rileggere Mario Puccini è il suo libro più celebre, un libro quasi "fuori quota" se pensiamo alle dimensioni dei libri che trovano spazio in queste pagine dedicate a libri di corto respiro. L'ultima edizione de Il soldato Cola mi risulta essere quella di Bompiani del 1978 (pag. 180, con 19 pagine di introduzione di un altro semidimenticato che ho scoperto grazie a Puccini, Ruggero Jacobbi). Ebbe varie edizioni nel ventennio, la prima nel 1927. Si tratta di un libro sulla Prima guerra mondiale e tutti sanno quello che il conflitto simboleggiava nella retorica del neonato regime.

Il romanzo è fatto di pause. Addestramento, calma, azione (non molta), amori, promozioni, marce, visite mediche. Lo spettro della trincea e del suo fango, veri protagonisti nella mente dei fanti della Grande guerra, è lontano per buona parte del romanzo. Si noti la non irrelavante rititolazione che l'opera subì nel 1935, quando comparve un'edizione riveduta con una dedica al duce, probabilmente unico stratagemma utile per passare il setaccio della censura: da Cola o ritratto dell'italiano a Il soldato Cola. Se nel primo c'è la fame di simboli del primo regime, nel secondo prevale l'essere "comune soldato". Viene da pensare a quel caso editoriale (caso non nel senso di successo come è ormai in uso nell'ambiente, bensì nel senso di pubblicazione singolare, del tutto eccezionale) che fu cinque anni fa circa Terra matta di Vincenzo Rabito, ma non per intenti o esiti stilistici (siderale è la distanza tra Puccini e Rabito) ma più che altro per i temi, per una certa geografia del racconto della loro Prima guerra mondiale, le voci che vi trovano spazio. Certo, molto più ampia, amplissima, è la parabola che quell'insospettabile narratore di Rabito ci ha lasciato.

Il soldato Cola ha grandi motivi d'interesse perché offre voce a molti soldati (non soltanto al protagonista) e sembra presagire a quello che Monicelli farà con le battute di Sordi e Gassman. Colui che scende nelle trincee del Carso, del Montello, del Piave è considerato l'uomo-massa, eppure con Il soldato Cola avviene una sorta di beffarda rivincita della persona comune, del fante contadino, proprio nel momento in cui questa viene confusa nella massa, quella massa che si dovrebbe eccitare allo stimolo, come in un quadro pavloviano e di psicologia comportamentista. In fin dei conti il 1930, il momento di questo libro in sostanza, è la data spartiacque della pubblicazione di un libro fondamentale come La rebelión de las masas di Ortega y Gasset.

Ma torniamo al nostro. Thomas Mann apprezzò proprio questo suo romanzo sulla Prima guerra mondiale come uno degli episodi migliori del Verismo italiano. Vasco Pratolini, suo amico, sostenne che Puccini è uno degli autori ai quali la letteratura italiana dovrà rendere prima o poi giustizia. A volte uno sguardo anche rapido alla corrispondenza di un autore ci dice molto di quel grande dialogo attivo tra scrittori nel mondo, molto prima dell'avvento della rete. Se prendiamo la catalogazione del fondo Mario Puccini, reperibile nel sito Gabinetto Vieusseux e curato da Gloria Manghetti e Aurora Savelli, intuiamo quale ampiezza di dialogo internazionale avesse ormai raggiunto questo scrittore. Tra i suoi corrispondenti, solo per citare quelli (almeno a me) più noti, troviamo i nomi di Corrado Alvaro, Louis Aragon, Riccardo Bacchelli, Massimo Bontempelli, Emilio Cecchi, Grazia Deledda, Francesco Flora, André Gide, Piero Gobetti, Corrado Govoni, Franz Hellens, Piero Jahier, Valery Larbaud, Thomas Mann, Giovanni Papini, Enrico Pea, Ezra Pound, Vasco Pratolini, Alfredo Panzini, Miguel de Unamuno, Giuseppe Ungaretti e tantissimi altri. Questo a riprova che Puccini fu uno scrittore ampiamente immerso nel dibattito del proprio tempo. Non credo che la ragione della pesante disattenzione editoriale che grava nei suoi confronti sia da imputare alla sua prolifica attività durante il ventennio o a quella dedica al duce. Forse così come esistono i personaggi in cerca d'autore, ci sono anche degli autori del passato che cercano il proprio editore. Da questi spazi possiamo soltanto limitarci a rilanciare una sfida che riguarda l'attenzione.

giovedì 13 ottobre 2011

Registro di poesia #4 a cura di Giancarlo Alfano

(Una volta tanto mi limito a parlare di un libro breve così, copiando un comunicato della casa editrice d'if di Napoli. Si tratta di un libro che in piccolissima parte riguarda anche me.)

Premio di Letteratura «i miosotìs»
intitolato a Giancarlo Mazzacurati e a Vittorio Russo
Quinta Edizione 2010/11
Registro di poesia #4 a cura di Giancarlo Alfano
collana: i fuoricollana / n°9 cm. 13x26 – pp. 100 in brossura
disegno in copertina: dono degli artisti CYOP & CAF
interventi grafici: Francesco Ermanno Guida
copyright: Edizioni d’if – ottobre 2011
ISBN 9878888413976 euro 16,00 – distribuzione NdA
Giuria del premio: Nietta Caridei, editrice (presidente); Giancarlo Alfano, critico letterario; Gabriele Frasca, scrittore traduttore e poeta.

Nel formato di un’antologia si registra l’andamento della quarta edizione del premio letterario «i miosotìs», i cui quattro testi vincitori (con un ex-aequo) sono pubblicati in volume autonomo. Il particolare allestimento grafico-tipografico, le caratteristiche della giuria e dei partecipanti al premio residenti in varie parti d’Italia, la qualità dei testi, la forma libro vincolante ne fanno una pubblicazione speciale, diversa dalle tante che seguono ai ricorrenti concorsi, caratterizzati spesso da un’obsoleta effusione sentimentale.

La grande stagione della “tradizione del Novecento” sembra davvero terminata, per l’apertura della gamma dei modelli, delle matrici, delle tradizioni: coloro che si avvicinano alla scrittura poetica in Italia – e questo registro mi pare ne è controprova – lo fanno sempre più partendo da posizioni molteplici, da origini diffratte, spesso imprevedibili, talvolta idiosincratiche. India, Giappone e Sud America si sommano alla Francia, all’Inghilterra, agli USA; e talvolta fanno capolino, ancora, il sommo tedesco e qualche lingua slava, mentre della nostra tradizione autoctona resistono Dante, la poesia religiosa e certi toni tra elegia e umorismo in sordina. (Giancarlo Alfano)

I fuoricollana di diverso formato e con caratteristiche tipografiche funzionali a ciascun volume, sono opere per lettori «informati». Nati per accogliere libri estravaganti rispetto alle collane della d’if, sono diventati ormai la collana del Registro di poesia, collegata al premio «i miosotìs». La veste editoriale è accuratissima, a volte preziosa per progetto grafico e immagini d’artista.

I 26 selezionati inclusi nel Registro di Poesia #4
Giuseppe Armani (Fiorenzuola D’Adda - PC) – Cristina Babino (Ancona) – Giorgio Bonacini (Correggio - RE) – Alessandro Broggi (Milano) – Giovanni Campi (Casoria - NA) – Alberto Cellotto (Treviso) – Massimiliano Chiamenti (Bologna) – Anna Elisa De Gregorio (Ancona) – Enrico De Lea (Legnano - MI) – Arnold De Vos (Trento) – Giulia Del Fabro (Belluno) – Paolo Gentiluomo (Genova) – Mariangela Guatteri (Montericco-Albinea - RE) – Gaia Gubbini (Roma) – Letizia Leone (Roma) – Giulio Maffii (Tirrenia - PI) – Renata Morresi (Macerata) – Angelo Petrella (Arezzo) – Alfonso Maria Petrosino (Pavia) – Michele Porsia (Termoli - CB) – Raoul Precht (Lussemburgo) – Alessandro Raveggi (Firenze) – Marilena Renda (Roma) – Federico Romagnoli (Siena) – Stefano Salvi (Varese) – Daniele Ventre (Napoli).

Qui il sito delle edizioni d'if.

martedì 11 ottobre 2011

Instant Book di Chiarelettere

Storie di collane micro #4






Affiancate le copertine dei volumi di Étienne de La Boétie e Don Lorenzo Milani. Si noti il progetto grafico dal curioso aspetto retro, apparentemente cozzante con una collana denominata Instant Book




A oggi i libri pubblicati da Chiarelettere nella collana Instant Book sono tutti ascrivibili al "genere" breve. La collana presenta un concept interessante: strappa dal passato vicino e lontano testi di autori noti e li ripropone alla luce della volontà attualizzante che è propria del brand Chiarelettere, sin dalla sua comparsa pochi anni fa.

Anche dal punto di vista grafico l'editore ha introdotto un elemento innovativo, giocando tipograficamente con stilemi retro. La volontà attualizzante è poi depositata nel nome di collana, Instant Book, quasi a sostenere che si pubblicano classici del passato che sembrerebbero scritti per la più scottante attualità, per una veloce rotazione sui banconi più in vista della libreria. Un esempio su tutti? Il volume di Luigi Einaudi contenente lo scritto del 1946  intitolato L'imposta patrimoniale, proposto con la prefazione di Francesco Giavazzi. L'argomento è stato a lungo sulla bocca di tutti nelle ultime settimane. Quando si dice tempestività.

Prima di questo avevamo visto in libreria Odio gli indifferenti di Antonio Gramsci, presentato da David Bidussa. Anche quella pubblicazione voleva essere un atto di riflessione dovuto dedicato all'Italia attuale. Operazione meritoria, se pensiamo al tesoro nascosto negli scritti gramsciani i quali, per la loro appartenenza ad un corpus massiccio e pieno, faticano a trovare opportune sistemazioni antologiche che ne illumino questo o quell'aspetto. Ben vengano quindi anche delle microantologie gramsciane, proprio come questa, che prendano a cuore un nucleo specifico della sua scrittura. Sarebbe interessante leggerne una nuova sul Gramsci linguista, ad esempio.

Altra scelta editoriale all'insegna di un intento attualizzante è stata la proposizione dello scritto in cui George Bernard Shaw s'addentra in un'originale lettura del Cristianesimo e di Gesù Cristo in chiave politica nonché in una dettagliata analisi dei vangeli. Il titolo è Sia fatta la tua volontà e la prefazione di Luigi Zoja. Originariamente lo scritto comparve nel 1916 come prefazione della commedia Androclo e il leone.

Incluso in questa collana anche Don Lorenzo Milani con A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca? Il volume raccoglie gli scritti del 1965 (segnatamente lettere che diventano dei piccoli saggi) relativi alla vicenda giudiziaria che vide coinvolto il priore di Barbiana per il reato di apologia dell'obiezione di coscienza.

Il volume che menziono per ultimo è il celebre Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie, prefazione firmata da Paolo Flores D'Arcais. Il fraterno amico di Montaigne trova qui la sua collocazione da instant book in libreria con il suo precoce e fortunatissimo scritto (anche in Italia ne contiamo diverse edizioni, compresa quella uscita per Liberlibri di Macerata in tempi non lontani). Il Discorso, tra le altre cose, prova a rispondere alle domande inquietanti "Perché obbediamo? Chi consente l'asimmetria del potere?". Questo testo e il suo autore sono stati ripresi, dimenticati e poi rilanciati, riadattati a Zeitgeist sempre nuovi e a volte tirati anche un po' per la giacchetta. Anche questo è un libro confezionato con chiari intenti di presa diretta sull'attualità, quella italiana in particolare. A questo punto, visto che l'editoria in tema di tirannide è abbastanza vivace, suggerirei di ripensare non solo a Étienne de La Boétie ma anche al nostro Vittorio Alfieri.

mercoledì 5 ottobre 2011

"La luce prima", il secondo romanzo di Emanuele Tonon














Noi sentiamo parlare spesso di "prima luce". Il titolo del secondo romanzo di Emanuele Tonon (Isbn Edizioni, pag. 130, euro 15,90) pone invece l'aggettivo dopo il sostantivo, in posizione restrittiva. Non descrive, non esalta, ma restringe la visuale. In effetti le pagine di questo breve romanzo sono una cavalcata verso l'essere e verso la sua origine (la "cavità di donna che crea il mondo, veglia sul tempo lo protegge" cantava Giovanni Lindo Ferretti dei C.S.I.): la madre, che nel caso di Tonon è da poco scomparsa. Pensiamoci bene, non sono molti i libri di narrativa in cui una madre è protagonista, da sola, attraverso le parole del monologo e il flusso di ricordi del figlio, dalla prima all'ultima pagina, senza tregua, e in questo vi troviamo già una situazione inedita. Inoltre, con l'aggettivo in quella posizione, il titolo diventa sospeso, incompleto, quasi che quel "prima" assumesse una valenza d'avverbio: la luce prima di qualcosa. Si dice "la luce prima dell'alba", "la luce prima del tramonto", "la luce prima di morire". Ho sempre in mente, e tornavano spesso a bussare nella mia testa durante la lettura, quelle parole vergate da Giuseppe Caliceti in Pubblico/Privato 0.1 "Da alcune settimane ho la sensazione che tutti i giorni, i mesi, gli anni che ho vissuto e vivrò dopo la morte di mio padre siano una specie di regalo che mi è stato concesso, un indecifrabile tempo supplementare".

Per questo libro si è parlato, a ragione, di "canto d'amore". Questo almeno recita la bandella firmata da Michela Murgia, la scrittrice che ha inaugurato la collana "Gli italiani di Isbn" dove trovano collocazione anche i due libri di Emanuele Tonon (il precedente "romanzo eretico" Il nemico è del 2009, un sottotitolo che andava così a braccetto con l'idea della casa editrice di colorare i bordi delle pagine, proprio come i breviari). Una sorta di precedente di questo libro potrebbe risiedere nella conclusione del "ciclo dei vinti" di Ferdinando Camon. Un altare per la madre era tuttavia anche un percorso di recupero di un'etica segnatamente cristiana. Con Tonon è diverso. Come vuole la vulgata ad uso e consumo giornalistico, lui è l'ex-francescano, teologo-operaio, colui che prima bestemmia (ne Il nemico) e ora, nel dolore della scomparsa improvvisa, prega in un vero e proprio mantra. Io credo che l'autore stia resistendo bene a questa impalcatura che gli viene allestita attorno (si leggano le pagine in cui descrive il disagio durante la visita a Milano per promuovere il primo libro). Questo suo libro mi è sembrato un'ottima risposta a queste pressioni che potrebbero schiacciarlo (si è parlato anche di "nuovo Erri De Luca", forse solo perché di mezzo c'è la teologia e l'essere operaio, cose che lo accomunano al prolificissimo De Luca, autore che viaggia ad una media di un libro breve al bimestre). Probabilmente sono un ottuso che si sbaglia di grosso. Quello che però vorrei sostenere è che Emanuele Tonon ha scritto un libro svincolato, nonostante attorno a lui, a mio modo di percepire, si notino attive delle intenzioni per veicolarlo in un certo modo. Credo che se ne sia fregato di tutti e che ci proponga un romanzo che suona come un mantra, qualcosa di nuovo per i lettori, un'azione del pensiero che diventa scrittura che desidera salvare. Una forma adattiva, ultrarapida, magari darwiniana, nei confronti del nuovo stato di privazione e assenza e quindi di cambiamento? Lo suggerisco anche per contrastare i termini "teologici" che sono stati adoperati senza significativa pregnanza. Magari a breve, quando - spero - intervisteremo Leonardo G. Luccone di Oblique, l'agenzia letteraria di Tonon, potremo pesare meglio queste impressioni, consapevoli che Oblique, per sensibilità e cura, è tra le cose migliori l'autore potesse incontrare.

Il tema della morte di un genitore è ovviamente rischioso, delicatissimo, si presta nel mondo dell'editoria, sempre a caccia di "casi", a strumentalizzazioni e interpretazioni pilotate. (Suvvia! Come se al giorno d'oggi il successo di un libro fosse sempre e comunque esclusivamente frutto del caso e non esistessero anche i successi costruiti a tavolino.) Ma il lettore che aprirà i suoi occhi a La luce prima ritroverà probabilmente il tentativo di decifrare quel tempo supplementare di cui scriveva Caliceti, il tempo che Tonon inizia a vivere assieme al proprio lettore. In questa sede, hanno poca importanta tutti i particolari biografici di cui veniamo a conoscenza durante la lettura, la paternità, biologica e reale, la povertà, la casa, la coabitazione di madre e figlio prima della morte. Ciò che conta è questo passaggio che l'autore ha percorso e che probabilmente lo condurrà verso nuove prove che leggeremo sempre con grande interesse.

Concludo sulla bandella, costruita con una foto tipicamente Settanta-Ottanta, ingiallita, simile a quelle che in tanti conserviamo dentro l'album di famiglia, una foto appartenente ormai ad un'epoca fotografica che viene prima del diluvio e dell'alta deperibilità del digitale: non capisco fino in fondo la seconda parte dell'affermazione di Michela Murgia: "un abisso da cui non si può uscire innocenti". Non capisco "innocenti". Chiudo come avevo iniziato, attorno a un aggettivo. Se avete letto il libro, aiutatemi a capire come lo interpretate!

domenica 2 ottobre 2011

La vendetta di Agota Kristóf (1935-2011)

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #3

Ques'estate, verso fine luglio, ci ha raggiunto la notizia della morte di Agota Kristóf. La scrittrice ungherese migrata a Neuchâtel, in Svizzera, dopo i fatti d'Ungheria del 1956, costituisce uno dei più interessanti casi di scrittori che hanno scritto in una lingua diversa dalla propria (sono tutti casi di notevole interesse), in una sorta di esilio linguistico, dopo aver deciso di abitare - riprendendo e riadattando Heidegger - un'altra lingua. Al di là di questo, è una scrittrice che difficilmente lascia in pace il lettore, nel senso che lo insegue anche a distanza. In italiano possiamo leggere i titoli più noti come Trilogia della città di K., Ieri, un suo breve romanzo dal quale è stato tratto anche il film Brucio nel vento di Silvio Soldini. Ma non è tanto di questo che vorrei parlarvi, bensì di un ancora più breve libro uscito con il titolo de La vendetta.
- - - -

Maurizia Balmelli, traduttrice de La vendetta, ci ricorda in un articolo uscito su La nota del traduttore, il bel sito di Dori Agrosì dedicato alla traduzione letteraria:

"Il rigore di Agota Kristof [...] va ben oltre l'esigenza estetica. È un rigore che nasce dalla tormentata e appassionata relazione della scrittrice con il francese - sua lingua d'adozione che, come lei stessa afferma, non ha ancora finito di imparare. Un rigore che è consapevolezza dei propri limiti e al tempo stesso rivendicazione di una sensibilità linguistica molto peculiare. Un rigore che, coniugato al talento, permette all'autrice di mantenersi in equilibrio tra una lingua impeccabile e sottilissime distorsioni della stessa, scarti minimi, espressioni idiomatiche lievemente forzate, giri di frase inconsulti eppure armonici, puntuali
incoerenze nell'uso dei tempi verbali."

Il titolo originale è C'est égal. Una traduzione letterale del titolo sarebbe forse stata preferibile, o forse anche "Vendetta", senza l'articolo, poteva essere più giusto. Avrebbe reso meglio quel senso d'assurdo che invade queste venticinque prose. Sono schegge plumbee e legnose, prose radunate negli anni dell'esilio, dopo il 1956 quindi e in larga parte negli anni Settanta. Se vi capiterà di leggerle, o se magari vi è già capitato, probabilmente sareste d'accordo nel dire che non se ne esce indifferenti. Ora, è vero che ogni lettura importante non lascia mai indifferenti, ma qui parlo di una sorta di sconcerto psicofisico che potrebbe causarvi la lettura de La vendetta. L'abbraccio frontale della realtà, delle solitudini, dell'isolamento, di una certa follia che può albergare nella vita coniugale, di una semplicità della vita che si trasforma in angoscia.

Venticinque momenti di una grande scrittrice che balzellano tra autoironia, grottesco, macabro e lo sfioramento del nonsense. Parabole rapide d'esistenza che precipitano come meteore dentro il nostro quotidiano, schegge che si conficcano dolorose sulla pelle procurando un dolore che dev'essere quello dell'esilio. A me hanno fatto tornare in mente le Cartoline dai morti di Franco Arminio, il bellissimo libro con cui ho iniziato a scrivere in queste pagine.