mercoledì 30 novembre 2011

"Canti dell'offesa" di Fabio Franzin: molto più dell'indignazione.


C’è ormai un’onda lunga che dura da qualche tempo, anche a livello editoriale, ed è quella dell’indignazione. Non serve qui enumerare gli esempi. A mio avviso quest’onda ha mostrato anche certi limiti, il marketing e il giornalismo hanno trasformato in prodotto di facile smercio qualcosa che aveva una qualche ragion d’essere, una parola che poteva diventare rilevante. Serviva allora un poeta che riprendesse le scaturigini di quell’onda e la restituisse sotto una luce più adeguata, quella dell’offesa. Credo si possa iniziare a raccontare anche così Canti dell’offesa (Il Vicolo Divisione Libri, pp. 48, euro 10, per contatti editore@ilvicolo.com), l’ultimo libro di poesie di Fabio Franzin.

Offesa è molto più di indignazione. Serviva un poeta per farcelo notare. L’offesa urta, tocca, provoca danno, ricade sul corpo dell’offeso. Franzin sceglie la terzina per contenere tutto, una scelta stilistica che apre da sola molteplici sfondi di lettura (da quello religioso, anche qui in senso etimologico, come un patto saltato irrimediabilmente). Ancora Dante, più di altre corone della nostra letteratura, sembra indirizzare molta parte della poesia italiana e personalmente reputo interessante questo dato. La terzina è anche poesia morale, allegorica, è quel Pascoli che il Franzin dialettale ha rielaborato, terzina è Le ceneri di Gramsci (e allora, a proposito, leggiamo: “Guarda poi quando sanno di essere / ripresi quando sono ospiti in un talkshow / un programma nessuno che sappia // star zitto un po’ ascoltare scattare biliosi / sulla sedia rubarsi le parole via di bocca / sputare sentenze insulti bieca saggezza // risse create ad hoc per l’audience lo so sì / scelte prima a tavolino le parole che pena / però vedere Platinette al posto di Pasolini.”). Cantare l'offesa sembra un ossimoro, eppure non poteva essere altro titolo: solo l'elevazione della voce umana può cantare l'offesa, spiccare nella coralità odiosa e tediosa dei media, provare a rimagliare, a partire dal sentimento di offesa, un nuovo stare assieme degli uomini E credo anche che, se c'è qualcosa da rivalutare in un autore forse frainteso e letto oggi malamente com'è Pasolini, sia proprio questo aspetto, il Pasolini delle Lettere luterane, ad esempio.

C’è molta televisione in questo libro di Franzin. Vi rimando anche alla poesia che riporto in chiusura dove rientrano magnificamente il dolore, la famiglia, il consumo, l’entertainment, il "tecnicismo infantile”, le marche che popolano le nostre giornate. Poi c’è persino Unamuno in Franzin, il filosofo spagnolo che parlava della vita come di un problema “religioso-economico”. La poesia di Franzin è anche questo saper reggersi in uno straziante equilibrio di un sentimento religioso che ha sempre uno sguardo puntato sull’economia bruta, sulla scienza triste per antonomasia (di qui il collegamento con il filosofo spagnolo): “Oggi il kosovaro che lavora con me / mi ha chiesto se potevo imprestargli / cinquanta euro si guardava nei piedi // mentre formulava quella sua richiesta / chissà quanto a lungo meditata - lo sa / che ho due figli il mutuo per la casa // e tutto il resto - e sono sicuro sapesse / anche la mia risposta perché non se l’è / presa sì sì certo comprendo continuava // a dire scrollando la testa intanto che ci avviavamo verso i reparti stretti i guanti / nella mano. Però io non lo riconoscevo // quello che ha dovuto dire mi dispiace / proprio quando suonava la sirena e non / c’era più tempo neanche per la vergogna.”

Oltre al già citato aspetto metrico, avrete notato una sintassi inedita per la poesia di Franzin ma anche per la nostra poesia in generale. L’autore de Il groviglio delle virgole qui lascia poche virgole per strada, addensa, accumula e tiene tutto magnificamente assieme. Virtù della terzina, probabilmente! Trovano posto in tanti in questo inferno degli anni duemila: chi ruba il pezzo di grana al supermarket, chi non può rifarsi i denti, chi ha il terrore della prossima bolletta. Qui Franzin si allontana momentaneamente dalla televisione, che abbiamo visto essere mezzo congeniale per antonomasia nell'esercizio sistematico dell’offesa. C’è in Franzin un sentimento di pietas che non alberga frequentemente nella poesia contemporanea: “Perché è sempre sempre stato / lo straniero il capro espiatorio / di una società quando cieca si // ammanta di un’aurea innocenza / per il carnevale delle colpe ed è / storto il dito che punta al troppo // comodo torto di pelle e di razza / è monco e indica spesso colui che / non c’entra e l’altra mano quella // che stringe la pietra del linciaggio / è corrotta dalla convenienza neanche / si accorge di indicare lo specchio.

Ancora televisione. Il passo più ficcante della prefazione di Gianfranco Lauretano è, a mio avviso, quello conclusivo, un passo da... Italia 1: “Lo spettacolo ingloba i suoi stessi spettatori, nell’estrema menzogna di renderli protagonisti degli eventi, mentre di fatto ne fa dei minchioni: «Ma siamo proprio noi quelli là / quelli che compaiono così allegri / e minchioni nei video fatti in casa». Basterebbe, sì, davvero poco per rendersene conto, basterebbe la parola fragile e, in verità, pericolosissima per il potere (a proposito di Pasolini…) della poesia. Si potrebbe tornare a compatire gli altri, cioè ad appassionarsi con loro del destino comune, ad adirarsi per la giustizia che non c’è, per il pane che manca, per lo sciatto e finto essere umano che stiamo generando.”

Canti dell'offesa è un libro che saprebbe ferire nel modo giusto, se solo potesse essere letto in prima serata in qualche rete solitamente compresa tra il numero 1 e 7 del telecomando.

Ma era proprio così il mondo
che sognavamo? Questa teoria
di strade e viadotti e villette

a schiera le gru a incombere
come diplodochi a sbranarci
luce le case di wafer e sbarre

notti lacerate dall’ululato degli
allarmi e pomeriggi a vagare
fra outlet e centri commerciali

è proprio questa la vita che ci
siamo meritati? La maglietta
scontata del trenta consente

di cenare al Mc Donald’s per
la gioia dei bambini l’happy
meal il regalino fatto in Cina

poi la coda l’anaconda di fanali
nel rientrare giusto in tempo per
la trasferta del Milan sul digitale.

mercoledì 23 novembre 2011

A cinquant'anni dai "Giorni felici" di Samuel Beckett


Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #6













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Cinquant'anni fa, per la precisione il 17 settembre 1961, al Cherry Lane Theatre di New York, si tenne la prima mondiale di Happy Days di Samuel Beckett. Il 1961 fu anche l'anno dell'uscita einaudiana del Teatro di Beckett (la traduzione affidata a Carlo Fruttero). Dieci anni più tardi, nel 1971, Beckett si trova nel nostro paese (che conosceva bene, aveva studiato anche l'italiano), esattamente a Santa Margherita Ligure, per lavorare ad un'altra importante messa in scena dell'opera, quella dello Schiller Theater di Berlino.
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Leggendo il teatro di Beckett, leggendo Giorni Felici ma, a dir il vero, a seguire a ritroso il percorso di una discreta parte del teatro del Novecento (penso anche a Pirandello) ho iniziato a fissarmi su questa similitudine: che l'uomo moderno sia illuminato in questo segmento di teatro (e che poeta dell'illuminazione è stato il drammaturgo irlandese!) nella sua condizione di fossile, uomo come fossile vivente. "Fossile" credo sia, all'occorrenza, il sostantivo-aggettivo adatto alla definizione della condizione umana all'interno del teatro di Beckett. Fossile perché i suoi personaggi sono come resti di organismi viventi già esistiti, che si sono scavati una loro tana in qualche elemento minerale e continuano a portare un messaggio (un calco) lacerante dei tempi e nei tempi.


Allora pensiamo anche e soprattutto alla messa in scena di Giorni felici, al monticello che seppellisce per buona parte Winnie (cercate magari qualche foto di scena con Google Images, ce ne sono di molto interessanti), la protagonista chiacchierona e felice di questo dramma breve in due atti, alla sua immobilità, alla "vita" del compagno Willie, l'uomo sulla sessantina che lei quasi non riesce a vedere, posto dietro e fuori dal suo campo visivo e che tuttavia, a differenza sua, riesce a muoversi, strisciando come un serpente, magari con l'aiuto della vaselina. Willie risponde a Winnie a monosillabi o leggendo righe del giornale. Sono due persone che hanno già vissuto e in qualche maniera tornano a vivere da fossili, energia imprigionata, memoria imprigionata, bellezza scavata. Addirittura felicità, Winnie ha continuamente nella bocca l'aggettivo "happy". Sono fossili, oggi potremmo anche dire, tragicamente, combustibili fossili.


La grande innovazione di Beckett è sicuramente nella messa in scena, in ciò che lo spettatore vede. In questo Beckett è magnificamente saldato con gli albori e l'essenza del teatro stesso. Beckett gioca apertamente con le regole intime della rappresentazione (così come straordinariamente aveva fatto Pirandello... se vi capita riprendetevi anche Giovanni Macchia e il suo Pirandello o La stanza della tortura), dimostrando come un'attenta conoscenza di queste diventi il primo passo dell'innovazione scenica. Leggere semplicemente i dialoghi (anche se sarebbe più corretto parlare del quasi monologo di Winnie) senza avere alcun appiglio a ciò che (non) si muove sulla scena porterebbe a pensare ad una normalissima conversazione, sbilanciata dalla chiacchiera di Winnie. L'innesto del tema principe dell'immobilità, del mancato movimento, del movimento senza movimento o del movimento strisciante combinato al corredo scenico (dal paralume alla rivoltella, dallo spazzolino al giornale, il campanello con i suoi rintocchi) fanno di quest'opera una quasi icona, icona fossile per l'appunto. Sicuramente ci sono ampi margini per letture diverse, che partano magari anche dall'atto di masturbazione di Willie o dalla totale copertura dei genitali di Winnie sepolta (nel secondo atto la copertura del monticello arriva fino al collo, ha quindi coperto pure il suo seno). Ma non è questo, a mio avviso, il più grande portato dell'opera. Come tutti i fossili, Winnie e Willie ci danno indizi, ci raccontano non una ma molte storie, sul tempo, sul clima, sul dramma che hanno vissuto, sulla loro parziale decomposizione e quindi su una morte che in parte è già avvenuta. Dobbiamo saperli ascoltare e analizzare con pazienza. Affermare che l'uomo moderno nel teatro beckettiano è come un fossile significa anche sottrarlo dalla tragedia del tempo, sollevarlo dalla potente lacerazione che ha sperimentato sul suo corpo ("ho male al collo", afferma spesso Winnie). 


[...] Una volta credevo... (pausa)... dico che una volta credevo che non ci fosse nessuna differenza tra una frazione di secondo e la successiva. (Pausa). Una volta dicevo... (pausa)... dico che una volta dicevo, Winnie, tu sei immutabile, non c'è mai la minima differenza tra una frazione di secondo e la successiva. (Pausa). Perché ritiro fuori questa storia? (Pausa). C'è così poco che si possa tirar fuori, che si tira fuori tutto. (Pausa). Tutto quel che si può. (Pausa). Mi fa male il collo. (Pausa. Con improvvisa violenza) Mi fa male il collo! (Pausa). Ah, così va meglio. (Con leggera irritazione) Ci sono dei limiti. (Lunga pausa). [...]

sabato 19 novembre 2011

"La paga del Sabato" di Beppe Fenoglio (1969)

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #5









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Non ci sono ricorrenze particolari per riprendere un romanzo breve di Fenoglio uscito postumo, nel 1969, a sei anni dalla morte dell'autore. C'è più semplicemente la realtà di questo libro e del suo autore. Sarò franco, pochi autori mi hanno stilisticamente emozionato come Fenoglio.
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La paga del Sabato (Einaudi, pp. 160, euro 9) è uno di quei libri che restituiscono magnificamente il disadattamento, il tentativo di rimagliare la vita e le relazioni dopo la guerra (e dopo la guerra civile in particolare). Per questo non è sbagliato leggere questo libro accanto al Fenoglio reputato maggiore, quello de Il partigiano Johnny, I ventitré giorni della città di Alba, Una questione privata o di quell'altro bellissimo postumo costituito da Appunti partigiani del 1994. 


Ettore, il protagonista, è un grande personaggio della letteratura del Novecento, un deraciné atipico, uno spaesato che rimane nel paese, senza migrare. Il romanzo lo ritrae negli affari poco limpidi ma redditizi che gli consentono di sbarcare il lunario e, conseguentemente, alle prese con la formazione della famiglia e un lavoro "normale". Ettore è il fulcro di una narrazione che ci consente di scorgere frontalmente tutti i personaggi che gli girano attorno, compresi quelli della famiglia di provenienza. Calvino, il grande animatore-organizzatore della narrativa italiana del dopoguerra, scrisse in una lettera a Fenoglio "(...) evidentemente tu hai l'orgoglio di riuscire a dire tutto e non la modestia di chi si limita a dare occhiate spaurite nelle sempre misteriose vite altrui." Calvino, in quella lettera, gli diceva anche "non sbagli un colpo e non ci sono mai, o quasi mai, parole false né compiacimento (perciò ti salvi dalla pornografia), mai sei troppo, mi sembra, giovanilmente ambizioso delle cose che racconti". C'è davvero tanto in questa lettera, c'è il senso di quest'opera reputata minore e c'è anche la lente calviniana, così rilevante nella fisiologia editoriale della narrativa del dopoguerra.


In questi spazi non ha molto senso indugiare sulla trama. Ettore è la bellezza di questo libro, la cinepresa di Fenoglio sul protagonista lo fa splendere senza artifici, il tentativo dell'autore di parlare della situazione esistenziale di un ex-partigiano è tutto qui, riuscitissimo. Credo sia più interessante per tutti se provo a rendere il sapore di questo libro con un passo che si è conficcato come una scheggia nella testa:


Ecco là gli uomini che si chiudevano fra quattro mura per le otto migliori ore del giorno, tutti i giorni, e in queste otto ore nei caffè e negli sferisteri e sui mercati succedevano memorabili incontri d'uomini, donne forestiere scendevano dai treni, d'estate il fiume e d'inverno la collina nevosa. Ecco là i tipi che mai niente vedevano e tutto dovevano farsi raccontare, che dovevano chiedere permesso anche per andare a casa a veder morire loro padre o partorire loro moglie. E alla sera uscivano da quelle quattro mura, con un mucchietto di soldi assicurati per la fine del mese, e un pizzico di cenere di quella che era stata la giornata.


Anche in queste righe di passaggio, marginali, riconosciamo il talento di Fenoglio, la sua dolorosa anticipazione degli scollamenti del nostro vivere, quello che è il segnale squillante della sua - ripeto - stilisticamente emozionante prosa.

mercoledì 16 novembre 2011

Simone Marcuzzi ci racconta bene 10 italiani che hanno conquistato il mondo

Con Simone Marcuzzi (Pordenone, 1981) ho un debito. Quando lessi il racconto dedicato ad un agente Vorwerk-Folletto contenuto nel libro d'esordio Cosa faccio quando vengo scaricato e altre storie d'amore crudele (per Zandegù, l'interessante parabola editoriale di Marianna Martino, dal 2005 al 2010) esultai. Finalmente qualcuno era riuscito a raccontare in modo esilarante un'esperienza pazzesca alla quale anch'io e mio fratello avevamo assistito increduli da piccoli: l'assedio dell'agente della Vorwerk-Folletto alla nostra casa e le risate che per mesi ci regalammo a ricordare il suo slancio performativo-persuasivo con nostra madre (fortunatamente nostra madre non ha mai ceduto alle sirene di un folletto e anche a lei sono grato, per questo).

Quello che voglio dire, tralasciando tutta la dottrina che si potrebbe sviluppare su questo folletto verde che deve pensare alla pulizia delle nostre case, è che provai quel senso di gratitudine per chi scrive bene una cosa che ti riguarda. Anche per questa ragione lo leggo volentieri quando oggi, per Laurana, pubblica un libro intitolato 10 italiani che hanno conquistato il mondo. L'operazione editoriale è furba, ma non per questo "bastarda" o "figlia di puttana" (tanto per usare una coppia di aggettivi che Gaber applicava rispettivamente a sinistra e destra): provare a raccontare dentro il format della collana "Dieci!" 10 personaggi che, partendo dall'Italia, hanno davvero conquistato il mondo con quello che hanno fatto, il tutto in un frangente storico di eccesso di ribasso delle azioni italiane a livello mondiale. Gli italiani ai quali pensa Marcuzzi vanno a formare un gruppo davvero eterogeneo per genere, età, epoche, estrazione, mestiere. I suoi dieci italiani sono vissuti e declinati al presente, in episodi di vita, ed è anche questo il bello del libro. I nomi? Giorgio Armani, Juri Chechi, Dante, Leonardo Da Vinci, Enzo Ferrari, la coppia Leone-Morricone, Rita Levi-Montalcini, Luciano Pavarotti, Pinocchio, Moana Pozzi. Ed è pure convincente il modo in cui questi dieci personaggi abitano i racconti di Marcuzzi, le varie epoche della sua adolescenza e giovinezza, tra famiglia, amici, compagni nello sport, università, primi colloqui di lavoro con le ragazze delle agenzie interinali, allorquando si instaura un rapporto di 1:1 tra colloquio e innamoramento!

Tra tutti i dieci movimenti che costituiscono il libro, il più riuscito resta a mio avviso quello dedicato a Juri Chechi e, contestualmente, alla prima estate in solitudine trascorsa dall'autore (i genitori in Tirolo, e il fratello a Lignano, i quindici anni, tutte le discipline più bislacche dei Giochi Olimpici di Atlanta da poter divorare in televisione mangiando schifezze). Il finale del brano dedicato a quest'estate e a Juri Chechi è molto bello. Ne trascrivo un pezzetto:

"Come sempre, a esercizio terminato, la regia indulge sui replay. Al ralenti, la posizione della croce è ancora più straziante. Dura quattro, cinque secondi, e amplifica il mio turbamento. Certo, la muscolatura di Juri Chechi è tutta uno spasmo, gli anelli e i canapi fremono, ma lui è fondamentalmente disteso, consapevole, quasi raggiante.

Finalmente capisco. Questa sera Juri Chechi, oltre ad aver scritto una pagina memorabile per la storia sportiva italiana, mi ha insegnato qualcosa. La serena accettazione della morte non coincide con una rinuncia. Raccogliere la sfida, pur conoscendo già il finale, se da un lato rivela la provvisorietà dell'uomo su questo mondo, dall'altro la fa risplendere. E se ci provassi anch'io?"

Sono andato a rivedermi quella perfetta esecuzione agli anelli, la croce è davvero impressionante, il volto di Chechi perfetto, l'attimo che precede la croce, il passaggio di Chechi da orizzontale a verticale, mi ha sciolto. Ammiratelo. Credo che se il mio lavoro oggi fosse nell'insegnamento inizierei l'anno scolastico mostrando questo video, facendolo vedere fino allo sfinimento per un'ora, soffermandomi persino sul ralenti della croce (la gravità sembra sparita, Chechi sembra appoggiare i piedi su un piano) e sull'attimo in cui i piedi di Chechi impattano su quel tappeto blu, dove si posa sempre un po' della polvere di gesso che gli atleti hanno sulle mani e che - fortunatamente - nessun folletto mai aspirerà!

martedì 15 novembre 2011

Maurizio Ceccato in "Non capisco un'acca"












Che l’Italia sappia esprimere delle eccellenze nella progettualità grafica e nell’illustrazione editoriale è fuori discussione (per l’illustrazione, ad esempio, vi rimando a Chiara Dattola nel blogroll qui a lato mentre per la riflessione teorica a Riccardo Falcinelli, art director di Minimum Fax, che ha pubblicato Guardare Pensare Progettare. Neuroscienze per il design). E non serve necessariamente risalire a Bruno Munari e Albe Steiner per sostenere questo, oppure, più indietro, pensare a nomi ancora più ingombranti e fondamentali dell'arte del "fare un libro", come Aldo Manuzio o l’incisore-tipografo Giambattista Bodoni del quale Taschen ha recentemente proposto un Manual of Typography da capogiro (già... ci voleva proprio l’editore di Colonia per proporre il manuale dell’engraver di Saluzzo; a proposito, curiosa la prossimità tra il verbo engrave e grave nella lingua inglese... si scava in entrambi i casi!). Vero altresì che, come in tantissimi altri ambiti, l’Italia è stata anche fertile terreno di conquista da parte di grandi personalità che venivano da fuori (i nomi di John Alcorn per Mondadori o Bob Noorda per Feltrinelli salgono rapidamente in cima alla lista). La storia del nostro paese e quella del design (editoriale incluso) sono universalmente note e non serve qui proseguire su questa scia. Recentemente è circolato il numero zero di Watt, la rivista fondata da Leonardo G. Luccone di Oblique Studio e Maurizio Ceccato di Ifix, un microcosmo di narrazione e vera esplosione grafica. Proprio Maurizio Ceccato, per anni art director di Fazi, è una delle personalità di spicco dell’attuale panorama.



Un inciso. Ricordo il sito in cui si presentava con “Maurizio Ceccato è morto”. Lo ritenni un colpo di genio. Non so se fosse quello che intendeva Ceccato, ma mi ha portato a riflettere sul come gestire tra qualche decennio la nostra uscita di scena da una vita che è sempre più in rete. Come farà notizia la morte in rete? Intendo anche e soprattutto la morte di persone non celebri. Sorgeranno forse delle pompe funebri virtuali che si preoccuperanno di ripulire la nostra imbarazzante carcassa internettiana? Se non ricordo male esistono già degli archivi “segreti” (in sostanza dei siti a pagamento) ai quali affidare “in custodia testamentare” eventuali login e password delle nostre identità digitali.


Non capisco un’acca (Hacca, pp. 96, euro 16) non è un libro di grafica editoriale o teoria del design (le tiene già in sé, ampiamente digerite), come la mia introduzione potrebbe lasciar intendere. Questo è un libro d’artista, un’aporia vivacissima fuoriuscita dal cervello di un controllatissimo anarchico della visione. Vi ricordate Palazzeschi? Ripensateci quando vi donate la lettura di queste quasi-filastrocche finalmente libere da “target” anagrafici o di genere (in editoria non è scontato, nei veri artisti invece è già una situazione più frequente!). Inutile aggiungere che la storia dell’inutile, muta lettera H è il filo che lega queste pagine zeppe di meraviglie… ed è anche il nome della casa editrice che pubblica il testo per la quale Ceccato ha già licenziato memorabili esemplari di recente grafica editoriale.


Se vi capiterà, avvicinatevi a questo libro come esplorazione estrema della forma-libro. Ne aveva già accennato anche Matteo Codignola di Adelphi in un’intervista qui pubblicata: il libro è una forma e come tale la possiamo ancora avvicinare. Aggiungo io che possiamo avvicinarla fiduciosi e prudenti, innovando e tramandando, scardinando fellinianamente e oniricamente le regole, per saggiarne ancora nuove possibilità. D’accordo, un libro d’artista rimane un libro d’artista, una cosa diversa dai libri di cui ho scritto fino a qui… ma comunque una delle forme del libro. L’Ariosto scriveva “Chi leva la H all'huomo non si conosce huomo, e chi la leva all'honore, non è degno di honore”. Davvero fa bene, ogni tanto, perdersi nelle storie affascinanti delle lettere (dell'alfabeto). Ecco un bel binomio ipotetico di avvicinamento, Ariosto e Ceccato! Lasciateli divertire!

venerdì 11 novembre 2011

"I cani del Sinai" di Franco Fortini

Ripescaggi #4










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Qui sotto ripropongo un'altra recensione che uscì per la rivista "daemon - libri e culture artistiche" all'inizio del 2003. "daemon" è stata una bellissima esperienza di rivista, una palestra, anche di affetti. Voglio fermarmi qui perché il bello delle riviste è che la loro parabola termina quando deve terminare, senza terapie palliative e conservative e senza per forza far sorgere nostalgici rimpianti in chi ha provato ad animarle. Preferisco invece salutare qualche compagno di percorso, se di tanto in tanto passa in queste latebre della rete! Il libro è I cani del Sinai di Franco Fortini (Quodlibet, 2002, pp. 104, euro 8,50, regolarmente in commercio). A rivedere quello che recensivo in passato noto che un'inclinazione a parlare di libri brevi era già presente...
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Fortini scrisse I cani del Sinai nel 1967 dopo la guerra lampo dei sei giorni tra Israele e paesi arabi. La Quodlibet di Macerata ci propone una riedizione dell'opera che usci per De Donato (1967) e poi per Einaudi (1979). Quello che po­trebbe configurarsi come instant book scritto a ridosso di un avvenimento di grande portata è in realtà un libro medi­tato e levigato, nel quale Fortini elabora aperta­mente questioni di stile e tono inerenti alla propria scrittura. È questa una pista da seguire per chi volesse riprendere in mano oggi il testo.


In queste pagine fortemente autobiografiche Fortini mette in discussione il serpeggiante e dif­fuso disprezzo antiarabo, compie analisi sui riflessi storici, politici, etici e ideologici di un importante avvenimento militare sulla propria vicenda personale, senza analizzare cause o con­seguenze della "guerra dei sei giorni".

Questo testo (secondo le parole dell'autore "di apparente polemica immediata e di apparente autobiografia") può oggi essere avvicinato come una inedita opportunità di intendere l'autobio­grafia stessa. Nella bibliografia fortiniana I cani del Sinai si colloca cronologicamente vicino a L'ospite ingrato (1966), altro libro in cui Fortini sperimentò una scrittura breve, ricca di note. Lontano dai rischi intrinseci che possono deriva­re dall'avvicinare storia e vicenda personale, ne I cani del Sinai Fortini ci ha messo davanti all'au­tobiografia come possibile indagine storica, denunciando, una volta per tutte, ciò che sta die­tro l'autobiografia stessa: «La forma autobiografi­ca, dovrebbe capirlo anche un critico di avan­guardia, non è che modestia astuzia retorica. Parlo anche dei casi miei perché certo solo miei non sono. Della mia "vita" non me ne importa quasi nulla.»

Nelle Ventiquattro voci per un dizionario di let­tere (1968, l'anno successivo all'uscita de I cani del Sinai), alla voce "Autobiografia", Fortini scri­verà: «Parlare di sé implica insomma le contraddizione della "falsa coscienza", l'espressione subi­sce tutte le operazioni tattiche del subconscio e dovrebbe quindi essere letta, per principio, senza candore alcuno, come lo storico fa dei documen­ti. Non è, in quanto istituto letterario, né scienza né arte. E tanto ne fa un insostituibile strumento di conoscenza, irriducibile al tipo di esperienza che ci viene dalla lettura dei romanzi.»

I cani del Sinai è un po' tutto questo, è un testo che ha fatto spendere molte definizioni (pamphlet, saggio, autobiografia, racconto) proprio per­ché difficilmente etichettabile. Si fa apprezzare per la rigorosa ricerca formale sottostante, per la chiarezza che l'ebreo Fortini tenta sulle proprie origini, per i molteplici spunti (storici, letterari) che offre.

sabato 5 novembre 2011

Una nuova edizione di "Fotografia e inconscio tecnologico" di Franco Vaccari

A parlare di inconscio ottico della fotografia, dello spazio "rielaborato inconsciamente" fu Walter Benjamin. Il concetto è poi stato ampiamente ripreso dalla critica d'arte americana Rosalind Krauss (in Italia potete trovare molte sue opere nel catalogo Bruno Mondadori, incluso il fondamentale L'inconscio ottico a cura di Elio Grazioli). Fotografia e inconscio tecnologico (a cura di Roberta Valtorta, Einaudi, pp. XXXII+110, euro 17) è naturalmente strettamente legato all'inconscio ottico di cui ha scritto Benjamin. Il libro è giunto alla sua terza edizione, dopo quelle del 1979 e del 1994. Bello ricordare che la prima edizione uscì per la casa editrice meteora denominata Punto e virgola, fondata dal grande Luigi Ghirri (modenese, proprio come Vaccari) assieme alla moglie Paola Borgonzoni e Giovanni Chiaramonte. Per rispondere alla legittima domanda su che cosa sia l'inconscio tecnologico che, rispetto all'inconscio di Benjamin ha polarità sullo strumento e non più sull'umano, Vaccari adopera questa frase: "Non è importante che il fotografo sappia vedere, perché la macchina fotografica vede per lui".

Vaccari è teorico e artista. Celebre la cabina Photomatic (simile a quella delle stazioni dei treni) che alla Biennale di Venezia del 1972 invitava i passanti a lasciare una traccia del proprio passaggio con un annuncio multilingua affidato ad un cartello. Già qui appaiono chiare alcune implicazioni fondamentali del suo fare e teorizzare fotografia (forse in nessun'arte, più che in fotografia, il totale overlapping tra teoria e pratica è all'ordine del giorno). Cade la rilevanza della rappresentazione, del "momento decisivo", cardine della fotografia di Cartier-Bresson, a favore di un concetto di traccia ("Lascia una traccia fotografica del tuo passaggio").

Ho ravvisato due passaggi dove la sua riflessione si fa più densa. Li riporto qui sotto:

“I nuovi mezzi di registrazione, che penetrano così addentro ai fatti e ne frantumano le strutture, hanno fatto esplodere il concetto di Storia che è diventato assolutamente incapace di rendere conto dell'enorme complessità dell'accadere.
La parola Storia è carica di una violenza diventata assolutamente insopportabile, la violenza di una memoria grossolana che si ricorda solo di ciò che è a dismisura d'uomo.” (Dal saggio Fotografia e parola.)

E poi il seguente:

"Come in una cura omeopatica, dove col simile si tenta di cacciare il simile, è la stessa fotografia a provocare un tipo di consapevolezza nuova, capace di decongestionare lo sguardo, dopo averne provocato la congestione." (Dal saggio Archeologia dello sguardo.)

Il libro conta una ventina di saggi brevi, a volte fulminei. Vaccari tocca davvero moltissimi aspetti della teorizzazione contemporanea (potere, pornografia, pittorialismo, il mercato, il fondamentale rapporto tra fotografia e parola e fotografia e didascalie, ready-made e l'imprescindibile Duchamp).

Alcuni momenti della prosa di Vaccari restano appiccicati agli occhi del lettore, come il seguente: "Se il fascino della fotografia sta nella sua capacità di evocare il mistero di una presenza attraverso un'assenza, quello del ready-made consiste nell'evocare un'assenza attraverso la presenza". Oppure quando propone la discarica dei rifiuti come modello dell'attuale situazione dell'informazione, visto che qui "si realizza il massimo di varietà e imprevedibilità locale e con un massimo di omogeneità e di indifferenziazione complessiva". Oppure, ancora, quando in La fotografia tra teologia e tecnologia passa rapidamente in rassegna l'inflazione delle immagini e il conseguente assottigliarsi del valore di verità, come a dire che la quantità di prove di esistenza che abbiamo accumulato abbia contribuito a inceppare lo sguardo. Non a caso, poco più in là, nel saggio Apollo e Dafne: un mito per la fotografia Franco Vaccari scrive: "[...] contrariamente a quanto hanno sempre creduto i pittorialisti di ogni epoca, una fotografia è tanto più tale quanto maggiore è il grado di referenzialità che, invece di essere un limite, ne costituisce l'onore. È proprio sull'umile referenzialità fotografica, invece che sull'enfasi spettacolare della realtà virtuale, che possiamo contare per tenerci in contatto con il reale, con la memoria e con gli affetti e cercare così di impedire che la vita si mortifichi e si disperda in rappresentazioni arbitrarie". 

Fotografia e inconscio tecnologico è un libro breve molto bello, composto di rapidi saggi che si tengono per mano, pur nella varietà dei temi trattati. Saprebbe coinvolgere più pubblici, anche al di fuori della fotografia. Ho riportato alcuni passaggi-assaggio perché credo ci accompagnino efficacemente all'interno di queste pagine.

martedì 1 novembre 2011

Pavel Florenskij, stupore e dialettica













Curioso che siano voluti oltre sessanta post per scrivere per la prima volta di un libro di Quodlibet, casa editrice per la quale ho sempre provato qualcosa di simile ad un debole (chi non ha i propri, parlando di libri?).

Prosegue anche grazie alla casa editrice di Macerata la proposizione degli scritti di Florenskij, un'operazione intrapresa da più editori e da diversi anni. Tra gli apripista, tanto per cambiare, contiamo Adelphi, quando sul finire degli anni Settanta pubblicò il celebre saggio sull'icona dal titolo Le porte regali curato da Elémire Zolla. Il Leonardo di Russia, un raro esempio di pensatore acrobata dello scibile, per altro costretto a vita breve (morì fucilato in un gulag nel 1937), è protagonista di una vivacità editoriale impensabile, forse collegata alla stessa sua etereogenità di speculazione, alla sua profonda e impareggiabile erudizione e anche alla sua stessa biografia. Prima di illustrare brevissimamente, per quanto possibile, questo libretto tradotto da Claudia Zonghetti (che piacere ritrovare la traduttrice alla quale dobbiamo la "ricreazione" in italiano delle opere di Vasilij Grossman), ricordo un libro-bussola che resta a mio avviso una "porta regale" per l'accesso alla figura di Florenskij: la monografia che gli ha dedicato per Bompiani uno studioso intelligente, puntuale e forse defilato come Silvano Tagliagambe.

Stupore e dialettica (a cura di Natalino Valentini, pp. 110, euro 12) consiste nella traduzione di un manoscritto dell'anno 1918 scoperto ormai venticinque anni fa, nel 1987. Il titolo è trasparente. Il libretto è davvero una dissertazione attorno a questi due caposaldi della sua riflessione. Ma è anche l'operazione culturale della casa editrice che qui interessa. Lo smilzo libretto che Quodlibet propone sembra avvicinare un compito proibitivo: riportare una filosofia fin troppo "scafata e scaltra", conoscitrice soprattutto di se stessa e dei propri meccanismi di funzionamento, su binari socratici, su parole fondamentali, proprio come quelle del titolo.

Dallo stupore per il novum la conoscenza può davvero sgorgare, così come può sgorgare da un socratico e continuo rimettersi in discussione. E la dialettica? Pare il rovescio della medaglia, o il simbolo, in senso etimologico, il "metodo sperimentale" che lo scienziato Florenskij mutua per la filosofia. Funziona? Credo che domandarsi se questa dialettica funzioni sia porsi una domanda errata. Forse è la metafora leonardesca che abbiamo utilizzato in apertura che ci porta fuori strada, una metafora che nasce dalle molte attività che lo videro coinvolto (fu anche ingegnere, fisico, teologo, linguista). Florenskij, da un punto di vista prettamente filosofico, è più vicino ad essere il pitagorico di Russia (con tutto quello che si perde in simili semplificazioni): i numeri, il ritmo speculativo e metodologico, la contemplazione mistico-musicale del mistero, un mistero che ha soprattutto un segno spaziale con sé. Il suo è un pensiero che risale ai primordi e che nei primordi dialoga. In questo breve spazio possiamo soltanto solleticare il classico invito alla lettura, perché da queste pagine e da Florenskij potrebbe presto passare un ripensamento della filosofia e dell'epistemologia del secolo scorso. Inoltre, chi già ha apprezzato i suoi scritti, potrà qui utilmente focalizzare i precursori del suo pensiero, verrebbe da definirli i giganti sulle cui spalle Florenskij stesso cammina se non ci sfiorasse il dubbio di avere davanti, a nostra volta, un moderno gigante.