sabato 19 novembre 2011

"La paga del Sabato" di Beppe Fenoglio (1969)

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #5









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Non ci sono ricorrenze particolari per riprendere un romanzo breve di Fenoglio uscito postumo, nel 1969, a sei anni dalla morte dell'autore. C'è più semplicemente la realtà di questo libro e del suo autore. Sarò franco, pochi autori mi hanno stilisticamente emozionato come Fenoglio.
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La paga del Sabato (Einaudi, pp. 160, euro 9) è uno di quei libri che restituiscono magnificamente il disadattamento, il tentativo di rimagliare la vita e le relazioni dopo la guerra (e dopo la guerra civile in particolare). Per questo non è sbagliato leggere questo libro accanto al Fenoglio reputato maggiore, quello de Il partigiano Johnny, I ventitré giorni della città di Alba, Una questione privata o di quell'altro bellissimo postumo costituito da Appunti partigiani del 1994. 


Ettore, il protagonista, è un grande personaggio della letteratura del Novecento, un deraciné atipico, uno spaesato che rimane nel paese, senza migrare. Il romanzo lo ritrae negli affari poco limpidi ma redditizi che gli consentono di sbarcare il lunario e, conseguentemente, alle prese con la formazione della famiglia e un lavoro "normale". Ettore è il fulcro di una narrazione che ci consente di scorgere frontalmente tutti i personaggi che gli girano attorno, compresi quelli della famiglia di provenienza. Calvino, il grande animatore-organizzatore della narrativa italiana del dopoguerra, scrisse in una lettera a Fenoglio "(...) evidentemente tu hai l'orgoglio di riuscire a dire tutto e non la modestia di chi si limita a dare occhiate spaurite nelle sempre misteriose vite altrui." Calvino, in quella lettera, gli diceva anche "non sbagli un colpo e non ci sono mai, o quasi mai, parole false né compiacimento (perciò ti salvi dalla pornografia), mai sei troppo, mi sembra, giovanilmente ambizioso delle cose che racconti". C'è davvero tanto in questa lettera, c'è il senso di quest'opera reputata minore e c'è anche la lente calviniana, così rilevante nella fisiologia editoriale della narrativa del dopoguerra.


In questi spazi non ha molto senso indugiare sulla trama. Ettore è la bellezza di questo libro, la cinepresa di Fenoglio sul protagonista lo fa splendere senza artifici, il tentativo dell'autore di parlare della situazione esistenziale di un ex-partigiano è tutto qui, riuscitissimo. Credo sia più interessante per tutti se provo a rendere il sapore di questo libro con un passo che si è conficcato come una scheggia nella testa:


Ecco là gli uomini che si chiudevano fra quattro mura per le otto migliori ore del giorno, tutti i giorni, e in queste otto ore nei caffè e negli sferisteri e sui mercati succedevano memorabili incontri d'uomini, donne forestiere scendevano dai treni, d'estate il fiume e d'inverno la collina nevosa. Ecco là i tipi che mai niente vedevano e tutto dovevano farsi raccontare, che dovevano chiedere permesso anche per andare a casa a veder morire loro padre o partorire loro moglie. E alla sera uscivano da quelle quattro mura, con un mucchietto di soldi assicurati per la fine del mese, e un pizzico di cenere di quella che era stata la giornata.


Anche in queste righe di passaggio, marginali, riconosciamo il talento di Fenoglio, la sua dolorosa anticipazione degli scollamenti del nostro vivere, quello che è il segnale squillante della sua - ripeto - stilisticamente emozionante prosa.

3 commenti:

  1. Salve. Questa resta un'opera minore di Fenoglio, a mio avviso. Io la vedo così. Buone cose Giampiero

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  2. Io inserirei anche un riassunto per capitoli

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  3. Caro anonimo del 24/10, è uno studente lei? E poi manco fosse Guerra e pace... è un libro brevissimo. Saluti

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