martedì 27 dicembre 2011

"Sovrimpressioni" di Andrea Zanzotto

Ripescaggi #8











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Sono trascorsi dieci anni dall'uscita di Sovrimpressioni, il volume del 2001 in cui Zanzotto tornava, dopo la bellissima e breve parentesi di Meteo del 1996. Meteo rappresentava il libro della sfiducia dell'opera (ma non nella poesia), il libro del canto amoroso e puntiforme di ciò che è infestante, un libro eccezionalmente colorato, tra l'altro. A distanza di cinque anni, Zanzotto tornava nel 2001 allo Specchio mondadoriano con Sovrimpressioni. Come saprete, il 2011 è l'anno in cui Zanzotto si è spento. In chiusura d'anno, ecco allora un ripescaggio di una recensione che passai alla rivista "Atelier" dieci anni fa.
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La traiettoria, partita con Meteo (1996) e transitata per gli inediti del Meridiano mondadoriano Le poesie e prose scelte (1999), opera aperta al presente, con Sovrimpressioni (giugno 2001) prende la forma di una figura geometrica non facilmente  individuabile. In quest’ultima raccolta di versi si snoda un intreccio-coagulo di diversi percorsi (e tracce di lettura personalissime) del poeta di fronte al «mostruoso presente», per cui a buon diritto si può parlare di fisionomia composita, nutrita di tanti apporti  scritturali, metrici e tematici.

Poco tempo fa un amico mio, compaesano e coetaneo, redattore della rivista «daemon» di Bologna, durante una conversazione  informale si domandava se, con le dovute proporzioni, fosse plausibile che larga parte della poesia italiana recente dovesse “attraversare Zanzotto”, un po’ come successe a Gozzano con D’Annunzio e a Baudelaire con Hugo, secondo il celebre giudizio di Montale. L’ipotesi, già verisimile di per se stessa, ci permette di capire l’influenza del poeta veneto sulle ultime due o tre generazioni, le quali lo hanno letto intensamente al punto di vivere un’esperienza “totale”, dove sguardo, geografia, storia, critica razionale, eticità, filosofia, scienze e infine lingua si intrecciano sulla pagina (si pensi solamente all’opera Il galateo in bosco del 1978) con esiti forse impareggiabili. Questo coinvolgimento contiene, però, un pericolo nascosto e precisamente l’idea che la poesia zanzottiana sia la via che contiene “tutti i modi”: l’autore stesso ne rabbrividirebbe, per il fatto che egli si propone sempre di sollecitare il lettore a tenere desta l’attenzione e a non crogiolarsi in vere o presunte “crisi del poetico”. L’ardere, che è alla base della poesia di Zanzotto (e di ogni poesia), si pone come alimento e stimolo per chi oggi scrive poesie.

Questa osservazione propedeutica permette di cogliere l’importanza di questo nuovo libro apparso, assieme a quelli di Majorino e Noël, nel nuovo “Specchio” di Mondadori, rinnovato nel formato e nella veste grafica. Cinquant’anni e una vicenda poetica intensissima ci separano da Dietro il paesaggio (1951). L’autore dimostra come il suo «paesaggire» sia sempre più direzionato e aperto nei confronti dell’apparizione, della comparsa, dello spaesamento o del ricordo. Accoglie conferme l’ipotesi del colore come realtà sempre più presente e centrale nella poesia di Zanzotto. Riemergono di continuo, e convivono singolarmente in lui, le tracce della fenomenologia, della pittura interiorizzata (segnatamente pittura veneta), di un’infanzia pascoliana, della lezione di Artaud “prestata” alla poesia.
Il titolo stesso contiene una potenziale ricchezza di letture. Sovrimpressioni, secondo l’autore, «va letto in relazione al ritorno di ricordi e tracce scritturali e, insieme, a sensi di soffocamento, di minaccia e forse di invasività da tatuaggio». Credo possa convivere con questa anche una lettura per così dire “televisiva” del titolo, in continuità con il precedente Meteo. Nel componimento iniziale di quella raccolta, LIVE, la ruvidità della grafia dell’autore, nella sua interezza, cozza con la lisciatura di una realtà televisiva (o da meteo-sat) che tutto cristallizza in un tempo attuale, denominato con le parole stesse dell’autore  «presente remoto» per significare un tempo già lontano e compresso nell’istante stesso del suo accadere, già cristallizzato, macinato e passato nella circostanza.

Le poesie di Zanzotto possono essere immaginate tutte nelle sue passeggiate o camminate quotidiane, negli sguardi e nella complicità del poeta col paesaggio («No, tu non mi hai tradito, [paesaggio (cancellato con uno striscio sopra)] / su te ho / riversato tutto ciò che tu / infinito assente, infinito accoglimento / non puoi avere: il nero del fato /nuvola / avversa o della colpa, del gorgo implosivo»).

Credo sia possibile avvicinarsi ancora una volta alla sua poesia raffigurandolo con la mente per stradine e viuzze, vicino a acque, campi, valli o fossati, mentre alza gli occhi alle Alpi o Prealpi. In fondo le sue composizioni ripercorrono un paesaggio fortemente e irrimediabilmente testualizzato secondo la tradizione di Petrarca. E anche per questo, a volte, ci siamo trovati nella situazione di riconoscere nella sua poesia in italiano una componente intimamente veneta (sintattica, semantica, visiva-iconografica) inalienabile, mentre in Sovrimpressioni possiamo trovare un respiro “geografico” quasi più vasto e aperto nelle poesie in dialetto (si leggano Parché no posse dirghe VIDISON, Apocolocìntosi e In ore fora de man). Non so se si possa parlare di un paradosso che, come altri paradossi zanzottiani, potrebbe diventare tenacemente istruttivo nel leggere e rileggere in futuro il poeta.

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