sabato 30 aprile 2011

"Qualcosa, là fuori". Per Enrico Bellone






 
Enrico Bellone (1938-2011)


Avrei sicuramente parlato prima o poi di questo ultimo libro di Enrico Bellone. Immaginavo però per "ultimo libro" un'accezione diversa. Il grande storico della scienza è infatti scomparso lo scorso 16 aprile e, a meno che non vengano alla luce degli inediti, questo Qualcosa, là fuori. Come il cervello crea la realtà (Codice Edizioni, pag. 108, euro 15,00) rimarrà il suo ultimo libro. Per chi è stato abituale lettore dei suoi editoriali nel lungo periodo di direzione del mensile "Le Scienze" rimane un senso di disorientamento.

Vorrei ricordare Bellone, assieme agli altri che l'hanno fatto in questi giorni con maggiore cognizione, come una delle poche personalità che da una posizione autorevole tentava di mantenere acceso il campanello d'allarme sull'arretratezza scientifica dell'Italia. Un'arretratezza scientifica che già nel periodo del boom economico era ben chiara nelle menti più vivaci e di cui Bellone aveva ricostruito le ragioni storiche nel suo La scienza negata. Il caso italiano (sempre per Codice, 2005). In quell'importante saggio cercava di ricostruire le vicende di un paese fortemente in pericolo a causa di una plurisecolare avversione per scienze e ricerca di base attiva su più fronti (filosofi, letterati, politici, religiosi, intellettuali e classe dirigente in genere). Tale avversione affonda le radici già nel Rinascimento e si sviluppa pienamente con la leadership intellettuale, incisiva tra l'altro nell'offerta formativa fino ai giorni nostri, di Croce e Gentile, un binomio filosofico che in qualche modo ha messo i bastoni tra le ruote ad un normale sviluppo scientifico del paese. (Un altro storico dell'Università di Padova, Silvio Lanaro, ha scritto di come l'Italia paghi sempre prezzi troppo alti per diventare un paese "normale" e in questo pensiero sofferto cominciamo a riconoscerci sempre più.)

Questo è un libro che riprende un solco già delineato con il precedente I corpi e le cose. Un modello naturalistico della conoscenza (Bruno Mondadori, 2000) e proseguito con gli altri suoi libri usciti nell'ultimo decennio. Ora non ricordo, visto il tempo trascorso dalla lettura, se quel libro volesse esplicitamente fare il verso a Le parole e le cose di Foucault, ma pensandoci bene non sarebbe improprio crederlo: nel libro del 2000 Bellone scandagliava il pregiudizio del linguaggio come veicolo certo di trasferimento di idee e significati. In quest'ultimo volume Bellone ricostruisce il distacco sempre più ampio che separa senso comune e scienza ("l'abisso", senza connotazione negativa, di cui egli stesso parla in un recente libro dedicato all'amatissimo Galilei), un distacco inaugurato già con gli studi secenteschi sul colore, aumentato significativamente con la fisica novecentesca e forse diventato irrecuperabile con il grande sviluppo delle neuroscienze degli ultimi decenni (in questo campo Bellone si serve spesso di citazioni dal neurobiologo Semir Zeki il cui interessante blog è linkato nella lista qui a destra).

Il "qualcosa là fuori" del titolo è ciò che il senso comune chiama "realtà" e che nei fatti è una costruzione di reti neuronali di cui, solo negli ultimi anni, iniziamo a comprendere meglio il funzionamento. In questi discorsi si inseriscono i passi più interessanti del volume. Ripercorriamone alcuni: Bellone ricorda come queste reti di neuroni siano rimaste sostanzialmente immutate nei millenni, anche se su di esse si sono innestate funzioni innovative come il linguaggio, la scrittura e la sua comprensione; a questo punto non può non essere tirata in ballo per queste conquiste umane la exaptation  (o "preadattamento", si veda il libretto di Stephen Jay Gould e Elisabeth Vrba proposto recentemente da Bollati Boringhieri). Di questa, l'esempio divulgativo più celebre rimane quello delle piume, carattere evolutivo avente funzione di regolazione termica nei dinosauri e passato, negli uccelli, ad avere una funzione fondamentale nel volo (in sostanza il preadattamento si ha quando un carattere di organismo assume una funzione indipendente dalla primitiva). La centralità della mente embodied (o incarnata) e l'impossibilità di un pensiero "disincarnato" sono i passi successivi: il pensiero e la realtà che sperimentiamo, gli stessi concetti che maneggiamo, sono in qualche maniera inscritti dentro la nostra struttura biologica. La chiusura di questo percorso non può quindi che rimandare, una volta ancora, alla necessità di eliminare la distinzione tra corpo e mente (per questo, i recenti contributi da citare sarebbero davvero tanti).

C'è un dato che poi va registrato: la bellezza e il rigore espositivo della prosa scientifica di Bellone. Per uno studioso che ha dedicato una vita all'opera di Galilei è un dato che merita la sottolineatura. Quando la saggistica raggiunge questi livelli, viene da sottoscrivere la tesi di quanti la ritengono il genere editoriale più in salute nel nostro paese.

Oggi avremmo bisogno di tanti intellettuali veri come Enrico Bellone, che fossero attivi tra le istituzioni  per formare una nuova classe di politici e amministratori, ben diversi da molti populisti che oggi cavalcano sentimenti antiscientifici. Allora forse ci risparmieremmo la vista di cartelli ridicoli che con tanta faciloneria dicono circa così: "Comune libero da Ogm" o "Ogm free". Cito l'esempio degli Ogm perché è un nodo complesso di scienza, opinione pubblica e politica, dove regna il pressapochismo e l'ignoranza. Dato che ci sono, segnalerei un paio di nomi di persone attive contro questa deriva antiscientifica: lo scrittore agronomo Antonio Pascale (prendetevi il suo Scienza e sentimento uscito da Einaudi) e Armando Massarenti con i suoi collaboratori di "Domenica" de "Il Sole 24 Ore". Certo, in giro ce ne saranno altri attivi su questo fronte, scienziati, scrittori o giornalisti di cui ignoro l'operato. Se li conoscete, segnalateli per favore. Abbiamo bisogno di un rapporto più disteso e meno belligerante con la scienza e il suo farsi. Avremmo anche bisogno di una comunicazione della scienza che funzioni e di non solleticare l'atavica arretratezza manifestata in atteggiamenti antiscientifici e antirazionalisti.

Il discorso qui ha preso una piega diversa dalla sola recensione di un libro che è a tutti gli effetti uno scritto importante e che, tra l'altro, può essere letto benissimo da chi non ha seguito la precedente produzione di Bellone. Tuttavia, per ricordare il suo autore scomparso, era necessario ritornare sul significato del suo operare. Anche perché nella conclusione di questo libro, proprio nell'ultima pagina, dopo aver aver riassunto le linee di sviluppo del testo, Bellone rimette per un attimo i panni dell'editorialista e provocatore e prova a tenere viva una scintilla di speranza per l'Italia dove, perseverando con un atteggiamento avverso alla ricerca di base, si corre il grosso rischio di non riconoscersi come "specie intelligente".

martedì 26 aprile 2011

Julian Adda di Overview Editore

Librobreve intervista #1


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Inauguriamo con questo post un appuntamento che vorrebbe diventare una consuetudine: brevi interviste a protagonisti di case editrici (senza distinzioni di dimensione). Per il primo appuntamento ho scelto overview editore (Padova). Il fondatore, Julian Adda, che ringrazio per la disponibilità, è un architetto-editore con una lunga esperienza giornalistica (è infatti corrispondente per il Veneto de Il giornale dell'architettura). Il suo progetto è stimolante come lo sono anche le sue visioni sui "futuri" del libro. Le interviste che appariranno nei prossimi tempi seguiranno più o meno la stessa sequenza di domande.
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LB: Editoria formato (davvero) tascabile. Necessità dell’editore e/o del lettore, trend passeggero. Qual è la vostra valutazione?
RISPOSTA: Una mia percezione personale è che, in linea di massima, al formato piccolo, dal tascabile al micro, corrisponda una qualità ed una raffinatezza del testo maggiore che non nelle grandi dimensioni. Una sorta di condensazione qualitativa. Non credo comunque ad una risposta univoca a questa domanda, non credo che ci siano necessità; semmai scelte, basate su intuito e/o marketing per intercettare determinati tipi di pubblico. Le collane delle micro narrazioni, i manga giapponesi, da leggersi tra una fermata e l’altra della metropolitana, che incontrano la necessità del lettore di concludere la lettura nell’arco del breve viaggio. Opzioni dettate dal marketing: micro libri da pochi euro di fronte alla cassa, da acquistare d’impulso, capaci di attirare l’attenzione sulla base del colore, del tipo di carta. Scelte del lettore: edizioni tascabili per risparmiare, rinunciando alla novità delle prime edizioni. Troppe variabili in gioco: ci sono libri che nascono micro e si trasformano – penso a Indignatevi, di Stéphane Hessel, una trentina di paginette in francese, graffate, che in italiano sono diventate sessanta, grazie ad un’aggiunta di altri testi a corredo dell’originale.

LB: All’interno del vostro catalogo come strutturate l’offerta di libri di piccola taglia? Quali i titoli di “libri brevi” che vi hanno dato maggiore soddisfazione negli ultimi tempi?
RISPOSTA: overview pubblicherà libri che raccontano, tramite parole e immagini, il territorio. I volumi della collana Parole sul territorio, sotto le 100 pagine, sono studiati dalle dimensioni per infilarsi in tasca, per essere tenuti agevolmente in mano. Nella collana Carte di Bordo (micro cataloghi di micro mostre d’arte) le dimensioni sono ancora più contenute. Altri titoli fuori collana vengono calibrati caso per caso. Siamo attivi da un anno, lavoriamo con una distribuzione artigianale, curiamo molto la grafica: a questa piccola scala, tutti i nostri libri brevi ci hanno dato soddisfazione.

LB: In quel meccanismo che rischia di trasformare l’editore in un operatore al centro di due poli costituiti da distribuzione e ufficio stampa-promozione, quale importanza ricopre la mole di un libro nei meccanismi promozionali? Uno degli assunti da cui parte Librobreve è la difficile visibilità di questi volumi, sia sulla stampa che in libreria. Lo condividete?
RISPOSTA: La mole di un libro acquista importanza nella misura in cui una persona crede nell’apparenza e non in quello che si cela dietro lo schermo.

LB: Parliamo di e-book. Con il diffondersi dei device di lettura elettronici, una volta che si sarà trovata una soluzione per il prezzo degli e-book, credete che la mole di un libro possa essere determinante per decidere se proporlo su carta o in formato elettronico? Se sì, in che senso?
RISPOSTA: Io immagino che dipenderà in prima battuta dal contenuto del libro, e in seconda dalla mole. Sarà molto più facile portare con sé una serie di e-books dal contenuto tecnico (manuali, prontuari), in determinati luoghi (penso ad un professore universitario che voglia mostrare agli studenti una serie di pagine tratte da molti testi diversi); sarà più facile pensare al caricamento nell’e-reader piuttosto che in valigia dei 7 volumi Einaudi de Alla ricerca del tempo perduto, o dei sette di Harry Potter; più improbabile per poche versioni tascabili di romanzi brevi.

LB: Parlando di libri brevi ci troviamo spesso a parlare di progetto grafico globalmente inteso (carta, copertine, aspetti tipografici). Quello della “confezione” di un libro è un aspetto sicuramente molto interessante e tra le altre cose è stato strategico negli ultimi decenni. Non credete però che con la diffusione del libro elettronico questa attenzione ai paratesti si perderà a favore del vero e proprio contenuto del libro, il quale potrebbe essere oggetto di esperimenti di “realtà aumentata” (da vedersi magari come una nuova vita per le “vecchie” note a piè di pagina)?
RISPOSTA: Ok, lasciamo perdere il packaging, dato che acquisteremo files che passeranno da un server ad un lettore portatile che li può leggere. Io credo che tutto il resto si trasformerà: il testo diventerà ipertesto (si usa ancora questa parola?), quando l’e-reader si evolverà ancora e lo permetterà da un punto di vista tecnico. Si può immaginare che evolverà anche il paratesto: nel prezzo di acquisto di un e-book potranno essere compresi dei contenuti non ancora creati ma che lo saranno nel futuro: un’intervista all’autore, un testo critico, una rassegna stampa. Contenuti che costituiranno l’aggiornamento dell’opera dell’autore, e che equivarranno all’archivio di ritagli di giornale di cartacea memoria. Il progetto grafico si eserciterà sui modi di costruire pulsanti bottoni e link, all’interno delle pagine visualizzate; acquisterà rilievo il materiale con cui verrà costruito l’e-reader (alluminio, gomme, plastiche) e con cui verrano costruite le custodie che lo conterranno, così come abbiamo visto copertine di gomma, cartone, rigide, morbide. Non credo ci sarà una convergenza di interessi verso il solo concetto di realtà aumentata, ma sempre e comunque verso la coppia contenitore-contenuto.

http://www.overvieweditore.com/


(Intervista a Julian Adda di Alberto Cellotto, raccolta nel mese di Aprile 2011)

martedì 19 aprile 2011

Minima Volti di Mimesis Edizioni

Storie di collane micro #1


Librobreve non ospita solamente recensioni, ma anche notizie, interviste a protagonisti dell’editoria (in arrivo le prime) e, con questo post, inaugura una serie di piccole monografie su collane che, secondo chi scrive, si distinguono nel panorama dell’editoria formato micro.

Tra queste è meritevole d’attenzione il caso della collana “Minima Volti” di Mimesis Edizioni. In realtà presto si dovrà parlare per esteso e in altre sedi di questo editore che sta trovando un posto di rilievo nell’editoria di filosofia tanto da autodefinirsi, nella propria comunicazione, come “l’editore di filosofia”, quasi a dire “per antonomasia”, aggiungo io. Scelta di posizionamento coraggiosa e lungimirante, finalizzata a presidiare fermamente una vivace porzione del panorama editoriale che comunque si presta a incursioni e scorribande su “generi” contigui (architettura, antropologia, cinema, arti figurative).

I volumi sono innovativi e curati nel progetto grafico e hanno un prezzo di copertina fisso di 3,90 euro fortemente invitante (in commercio si trovano spesso volumi simili dal punto di vista della fattura a 7 euro). Nel 2011, rispettivamente con copertina verde, bianca e rossa a ricordare un anniversario a tutti noto, sono usciti rispettivamente Repubblica di Giuseppe Mazzini, Federalismo di Carlo Cattaneo (mai scelta fu più tempestiva per provare a far chiarezza su questa parola della politica!) e Eguaglianza di Carlo Pisacane.

Il 2010 è stato l’anno in cui la collana ha trovato il proprio assetto. All’interno di questa piccola miniera dell’editoria recente, si sono susseguiti diversi autori, filosofi contemporanei e classici. Troviamo il prolifico Slavoj Zizek con The Matrix e Il segreto sessuale della chiesa, un volumetto con una tesi originale sulla pedofilia in ambiente ecclesiastico, Anal und Sexual di Lou Andreas-Salomé, Padre Agostino Gemelli con il libro forse più provocatorio, quel Contro Padre Pio nel quale il medico cerca di smascherare il grande bluff che intravede nelle ferite del frate da Pietrelcina e che possiamo considerare a tutti gli effetti un documento importante per ricostruirne la fama controversa. C’è un discreto gruppo di filosofi francesi che conta Gilles Deleuze, sempre molto seguito dall’editoria italiana, con Immanenza e l’affascinante Cinema, Jean Baudrillard, che ritorna sui suoi cavalli di battaglia con Cyberfilosofia così come fa il Micheal Foucault di Eterotopia. Non mancano classici della tradizione filosofica come Il dio nascosto di Niccolò Cusano (che bello!) e Sulle reliquie, lo scritto del 1543 di Giovanni Calvino in grado di smascherare, oggi come allora, la pericolosa contiguità tra superstizione e religione. C’è pure spazio per un paio di filosofi italiani, Antonio Caronia e Mario Perniola che, rispettivamente con Virtuale e Più che sacro, più che profano, tornano su temi già trattati altrove e danno uniformità e continuità al progetto tematico della collana, dove trovano spazio senza cozzare tematiche cyborg e religiose.

Rimane la curiosità di ipotizzare il futuro di questa serie di libretti, avviata con una scelta di titoli e autori calibrata e graffiante. L’attesa è che vengano preservati i forti stimoli che, racchiusi nel piccolo mondo di un volume di 48 pagine, questi titoli sanno offrire.

mercoledì 13 aprile 2011

Il narratore secondo Benjamin


Ricordo di aver sentito una volta Mario Rigoni Stern definirsi apertamente “narratore” nel senso benjaminiano e, dopo aver letto Il Narratore (precedentemente in Angelus novus, ora pubblicato in solitaria con le note di Alessandro Baricco per Einaudi, super ET, pag. VIII+110, euro 9,00), mi rendo conto che pochi sembrano aver capito quella aperta dichiarazione d’inattualità che lo scrittore di Asiago faceva ai ragazzi delle scuole. Oggi probabilmente il narratore comunemente inteso è l’autore di testi televisivi, varietà o fiction. Proviamo a capire perché.

Il pretesto di questo scritto del 1936 è l’opera di Nikolaj Leskov, ma si tratta davvero di un pretesto, dell’imbeccata per le intuizioni della folgorante intelligenza critica benjaminiana. Egli scrive: «L'arte di narrare volge al tramonto perché vien meno il lato epico della verità, la saggezza». Si deve pensare a questo fatto come a «[…] un fenomeno concomitante di forze produttive storiche, secolari, che a poco a poco ha espulso la narrazione dall'ambito del discorso vivo e insieme fa percepire una nuova bellezza in ciò che svanisce».

Il narratore è colui che accoglie in sé l'esperienza e la trasforma in esperienza per il lettore. Ma il narratore è morto, secondo Walter Benjamin, e il suo pensiero è abbastanza lineare, per quanto “lineare” non sia certo l’aggettivo più indicato per descrivere la sua prosa. I romanzieri che costellano con i loro nomi il Novecento (citiamo i vari Joyce, Proust, Musil, Kafka, Svevo solo per fare cinque nomi di provenienza diversa e poi Flaubert per trovare dei precursori nel secolo precedente) hanno preso il posto dei narratori perché è venuta meno l’esperienza, le cui quotazioni sono scese fino a crollare per l’affermarsi di quella nuova forma di comunicazione costituitasi nell’informazione, la quale «ogni mattina ci informa delle novità di tutto il pianeta [...] si consuma nell’istante della sua novità [...] vive solo in quell’istante». Oggi infatti l'esperienza è qualcosa che si racconta in tv.

Cerchiamo però di ricapitolare i binari su cui corre la contrapposizione benjaminiana tra narratore e romanziere. Da un lato c’è il narratore, al quale si possono applicare categorie come epica, memoria, morale, artigianalità, catarsi, contatto con il mistero dell’esistenza del quale cerca di darci una sua versione, persino consigli di carattere pratico (ricordiamoci allora di Rigoni Stern, citato in apertura). Dall’altro lato il romanziere, nato dalle ceneri del narratore, vive in un tempo dove morale, epica e la facoltà di cui quest’ultima è al servizio,  la memoria, sono crollate rendendo nulle (almeno per il testo letterario) le possibilità della narrazione. Il romanziere vive dunque un tempo di cui può solamente raccontare gli smarrimenti, gli sgomenti, la sfiducia, le nevrosi e l’angoscia. Ho semplificato anche troppo, ma questo ragionamento porta inevitabilmente a chiedersi cosa nascerà dalle ceneri del romanzo, visto che da più parti si instilla giustamente il dubbio sulla sua fine, morte o metamorfosi che sia.

La sociologia, così come le neuroscienze, forse parlerebbero di "specializzazione funzionale". Oggi la narrazione ha preso sicuramente altre strade lontane dalla letteratura, il romanzo è costretto a ripensarsi, stavolta sotto le picconate delle mutazioni antropologiche portate da scienza e tecnologie e dall’impatto che queste hanno sulla memoria, la quale era centrale nelle considerazioni sullo statuto del narrare così come lo è oggi, e forse ancor di più, nei dibattiti sul romanzo e sul suo futuro. Se ci fosse in questi anni un’intelligenza critica che sapesse raccontarci come la memoria transita, mutando, dalla narrazione al romanzo e quindi alla “nuova” letteratura,  grideremmo di aver trovato il nuovo Benjamin e penseremmo di aver trovato pure la nuova specializzazione funzionale della letteratura. Credo non piaccia parlare di "specializzazione funzionale" della letteratura, ma forse male non fa. Baricco non si candida certo a compiere questa impresa proibitiva. Le sue note, copiose e continue, sono il frutto di anni di riflessioni fatte su questo scritto assieme agli studenti della Scuola Holden. A stare a quel che che ci racconta, oggi sarebbe impossibile passare ore a commentare Il narratore con gli studenti. Personalmente avrei voluto vedere sviluppato di più questo punto.

sabato 9 aprile 2011

Sul tatami con Alberto Olmos


Volo di linea Madrid Barajas-Tokyo Narita. Lei, Olga, la ragazza di 24 anni che in questo lungo racconto dice “io” senza esserne la protagonista, è diretta in Giappone per lavorare all’università. Ci racconta del suo rapporto con i viaggi in aereo, mezzo del quale apprezza le cinture di sicurezza perché non creano problemi al suo seno che ha dimensioni imponenti. Giusto il tempo di prendere confidenza con quella che sarà la postazione nella traversata intercontinentale e nota che l’anomalo passeggero al suo fianco ha già iniziato a fissarle il petto.

Inizia così Tatami (“libri piccoli” Voland, pag. 112, traduzione di Giona Tuccini), prima opera disponibile in italiano del trentaseienne autore spagnolo Alberto Olmos. L’aereo, con quella lieve sensazione di “non esistenza” che trasmette ai passeggeri (curioso come Olmos riprenda in parte certe considerazioni sul volo lette in A perdifiato di Mauro Covacich), sembra essere l’ambientazione perfetta per quello che ci accingiamo ad ascoltare assieme a Olga: la storia di un guardone.

Luis, il passeggero anomalo, non intende mollare l’osso. Fissa continuamente il seno di Olga finché il ghiaccio non si rompe. Comprendiamo subito che Luis è motivato a raccontare la sua storia fino in fondo e che Olga, nonostante la resistenza e il pudore mostrati, è curiosa, ascolta, inizia a fare domande e a riflettere quando le normali operazioni di servizio e le soste fisiologiche dentro l’aeromobile comportano qualche interruzione.

Il dialogo tra i due è irresistibile - Olmos ha talento - mentre il racconto della vita da guardone in Giappone, nazione dove Luis ha insegnato letteratura spagnola diversi anni prima, è il vero motore del libro. Luis è diretto, essenziale, lapidario. Racconta la sua esperienza voyeuristica con una giovane giapponese, dirimpettaia del suo appartamento. Durante il volo Olga conoscerà le linee salienti del pensiero di Luis sul rapporto tra uomo e donna, sull’eros e sulla sua deformazione sociale: Luis, questo curiosissimo filosofo che ad un certo punto definisce “marce” le parole, così lontane dalla purezza e dalla muta eccitazione intellettuale del voyeur, costringe la compagna di viaggio, con una supremazia tutt'altro che celata, ad un continuo gioco sospeso tra indignazione e curiosità, ritegno e desiderio di approfondire. Luis è  tutto teso a raccontare il suo "lavoro" di guardone, per il quale necessitava di una "costanza ciclopica". Ad un certo punto, colpendoci un po' tutti al cuore, arriva a postulare che "non esiste la stanchezza, esiste solo la demotivazione".

L'attenzione sui temi del voyeurismo qui racchiusa è molto graffiante e tra le altre cose credo che la realtà degli attuali mezzi di comunicazione elettronici debba riportare alla ribalta prepotentemente temi simili. Non è questo il momento per svilupparli, meglio lasciare la discussione ai commenti. Non credo sia facile parlarne, tantomeno con un racconto, brillante e senza sbavature. Alberto Olmos è credibile, per come ha pensato questa storia, per le ambientazioni, per i dialoghi tra Olga e Luis. Non era facile. Ecco un autore da seguire con attenzione.



martedì 5 aprile 2011

Quattro libricini di giovani poeti al traino di un Nobel?


Nessuna recensione stavolta, solo la notizia di un'uscita multipla di "libri brevi". Sotto l'ombrello del più noto marchio editoriale di poesia, Lo Specchio Mondadori, vengono proposti quattro libricini di autori abbastanza giovani. L'occasione è duplice: la giornata mondiale della poesia Unesco (21 marzo) e la rinnovata veste grafica della collana mondadoriana, tenuta a battesimo da Catena umana del premio nobel Seamus Heaney. I nomi sono quelli di Fabrizio Bernini (L’apprendimento elementare), Carlo Carabba (Canti dell’abbandono), Alberto Pellegatta (L’ombra della salute) e Andrea Ponso (I ferri del mestiere).

L'operazione è curiosa: quattro piccoli libri di autori "non consacrati" vengono proposti in un formato fin troppo “veloce” (nelle copie in mio possesso sembra che la stampa sia stata fatta in "qualità bozze") e viene sperimentata l'alchimia che nasce tra i loro nomi, noti forse soltanto nella cerchia degli addetti ai lavori, e quello che abbiamo appunto definito il più importante riferimento editoriale per la poesia. Se l'operazione della casa di Segrate è curiosa, dal punto di vista imprenditoriale parte del rischio pare assorbita dalla sponsorizzazione di un megabrand del lusso (trattasi di penne, quasi a marcare un collegamento, tutto da verificare, tra poesia e scrittura a penna o tra lettori di poesia e potere d'acquisto elevato) e dal formato economico dei libricini (tipo di carta, cucitura con due punti metallici piani). Il formato insomma ricorda da vicino i fascicoletti con il primo capitolo di un romanzo che si trovano solitamente in omaggio alle casse delle librerie (si chiamano teaser?) e comporta per il libraio la necessità dell'esposizione "di copertina" (e qui saranno necessari i vecchi elastici in stile Feltrinelli, altrimenti questi libretti cadranno da tutte le parti).

Mi rendo conto che queste righe assomigliano troppo a delle note di marketing editoriale relative al più difficile e meno commerciale dei generi (ma anche di questo luogo comune bisognerebbe parlare). Tuttavia ho deciso di impostarle appositamente in questi termini. Se la bontà dei quattro libri non è messa in discussione, se la volontà di far circolare più poesia e "testare il mercato" con simili esperimenti può essere salutata positivamente (sarebbe interessante però conoscere qualche dato sulle performance di questi libricini), ci si deve chiedere se tale pubblicazione non meritasse maggiore contestualizzazione, che la facesse comparire come qualcosa di diverso da quella che, sempre nell'antipatico glossario marketing, potrebbe sembrare un’operazione one-shot o comunque un appuntamento annuale. Nella situazione critica in cui versa la poesia (abbondanza di offerta, scarsità di attenzione, standardizzazione delle modalità in cui se ne parla, anche da parte di noti critici, immagine del poeta troppo lessa e... "poetica"), editore e collana funzionano ancora come antenne, anche se sono in molti a credere che negli ultimi anni siano usciti libri di valore quantomeno dubbio sia per la "Bianca Einaudi" sia per "Lo Specchio".

Forse, anche per questo grumo di difficoltà, arriva la nuova veste grafica de Lo Specchio e i quattro libretti in questione servono per creare familiarità con questo salto grafico che sembra tornare alle origini: autore, titolo, il genere “poesia” scritto apertamente in copertina, nome dell'editore e recupero della rosa mondadoriana di Francesco Pastonchi. Virata da leggersi come un ritorno al binomio parola-colore in qualità di cardine dell'identità visiva della collana oppure come necessità di “tirare” sul budget di produzione, risparmiando sui diritti di utilizzo di eventuali immagini?

Sembrerà strano, ma tutte queste righe noiose, scritte immaginando il punto di vista degli editori di poesia e del loro benemerito operato, vorrei concluderle con un'esortazione: riprendiamoci la poesia! Noi. Chi la fa e chi ama leggerla. E guardiamola con occhi asciutti, iniziamo a parlare senza pudore di editor di poesia (andate a vedere cosa fece Ezra Pound a The Waste Land di Eliot). In questo modo anche gli editori avrebbero vita più semplice nel fare il loro mestiere.

sabato 2 aprile 2011

Valéry e le ispirazioni mediterranee


Piaceva all’occhio ciò che disgustava l’anima”. Così Valéry descrivendo un cumulo di viscere di pesci scovate in acqua durante una nuotata nel suo Mediterraneo.

Questa è per me la frase più magnetica nel breve scritto dal titolo Ispirazioni mediterranee. Sarà forse perché ci ritrovo i cortocircuiti del Valéry poeta, sarà perché ci vedo l'interesse a tutto campo per le scienze (e in particolare per quelle che stavano nascendo attorno al cervello), ma in parte mi è sembrato di cogliere certe sollecitazioni e inquietudini del pensiero di quell'entre-deux-guerres che ha consegnato alla posterità controversi capolavori letterari e filosofici.

Questo scritto era già comparso nel volume La crisi del pensiero e altri "saggi quasi politici" uscito per Il Mulino nel 1994. Come però spesso succede in editoria, isolare uno scritto o parte della produzione di un autore ha un significato diverso e più pregnante della pubblicazione “all inclusive”. E così ha fatto Mesogea (collana “La micro”, pag. 80), con questa pubblicazione maneggevolissima, pregevole, dalla copertina in cartoncino vergato con la bella illustrazione monocromatica di Laura Anastasio che ben racchiude il formato “palmare” del libro.

E un velato intento politico permea queste pagine scritte nel 1933 per una conferenza all’Université des Annales. Qui il “mare tra le terre” viene naturalmente trattato per la sua immane portata nello sviluppo delle genti che sulle sue acque si sono affacciate lungo i secoli. Tuttavia non bisogna correre il rischio di dare troppo peso alla lettura politica (o braudeliana) del testo, magari pure sulla scia degli avvenimenti nordafricani di questi ultimi tempi. Certo, la centralità del Mediterraneo e del continuo intreccio di relazioni che ha formato le sue genti è per Valéry un caso unico al mondo. Non bisogna però perdere di vista la portata autobiografica di queste "confidenze": in queste poche pagine il vento, il sole, l'acqua, la pesca, il nuoto sono protagonisti di un “recupero sensoriale” (le parole sono della curatrice Maria Teresa Giaveri) che è bene valutare per avvicinare quella grande opera di poesia del Novecento che è Il cimitero marino (non a caso la curatrice del volumetto ne è stata traduttrice).

Probabilmente non è sbagliato dire che il Mediterraneo per Valéry è un teatro di “possibilità”. Questo concetto di possibilità è centrale in tutta la sua opera e nei Cahiers in particolare (a proposito ricordo che lo studioso Gabriele Fedrigo ha dedicato a Valéry un libro molto bello dal titolo Che cosa può un uomo? Potenzialità biologica, selezione naturale e cervello da Paul Valéry a Gerald M. Edelman). Giustamente questa centralità della possibilità è rivendicata anche dalla curatrice, la quale ricorda in sede di prefazione l'epigrafe che Valéry prese a prestito dalle Pitiche di Pindaro per Le cimitière marin, offrendone con l'occasione una traduzione all'altezza del pensiero di Valéry e all'altezza dei nostri tempi. Parlando allora del Mediterraneo in questi termini sarà forse normale tornare a parlarne anche in termini policiti... o perlomeno “quasi politici”.