martedì 27 dicembre 2011

"Sovrimpressioni" di Andrea Zanzotto

Ripescaggi #8











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Sono trascorsi dieci anni dall'uscita di Sovrimpressioni, il volume del 2001 in cui Zanzotto tornava, dopo la bellissima e breve parentesi di Meteo del 1996. Meteo rappresentava il libro della sfiducia dell'opera (ma non nella poesia), il libro del canto amoroso e puntiforme di ciò che è infestante, un libro eccezionalmente colorato, tra l'altro. A distanza di cinque anni, Zanzotto tornava nel 2001 allo Specchio mondadoriano con Sovrimpressioni. Come saprete, il 2011 è l'anno in cui Zanzotto si è spento. In chiusura d'anno, ecco allora un ripescaggio di una recensione che passai alla rivista "Atelier" dieci anni fa.
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La traiettoria, partita con Meteo (1996) e transitata per gli inediti del Meridiano mondadoriano Le poesie e prose scelte (1999), opera aperta al presente, con Sovrimpressioni (giugno 2001) prende la forma di una figura geometrica non facilmente  individuabile. In quest’ultima raccolta di versi si snoda un intreccio-coagulo di diversi percorsi (e tracce di lettura personalissime) del poeta di fronte al «mostruoso presente», per cui a buon diritto si può parlare di fisionomia composita, nutrita di tanti apporti  scritturali, metrici e tematici.

Poco tempo fa un amico mio, compaesano e coetaneo, redattore della rivista «daemon» di Bologna, durante una conversazione  informale si domandava se, con le dovute proporzioni, fosse plausibile che larga parte della poesia italiana recente dovesse “attraversare Zanzotto”, un po’ come successe a Gozzano con D’Annunzio e a Baudelaire con Hugo, secondo il celebre giudizio di Montale. L’ipotesi, già verisimile di per se stessa, ci permette di capire l’influenza del poeta veneto sulle ultime due o tre generazioni, le quali lo hanno letto intensamente al punto di vivere un’esperienza “totale”, dove sguardo, geografia, storia, critica razionale, eticità, filosofia, scienze e infine lingua si intrecciano sulla pagina (si pensi solamente all’opera Il galateo in bosco del 1978) con esiti forse impareggiabili. Questo coinvolgimento contiene, però, un pericolo nascosto e precisamente l’idea che la poesia zanzottiana sia la via che contiene “tutti i modi”: l’autore stesso ne rabbrividirebbe, per il fatto che egli si propone sempre di sollecitare il lettore a tenere desta l’attenzione e a non crogiolarsi in vere o presunte “crisi del poetico”. L’ardere, che è alla base della poesia di Zanzotto (e di ogni poesia), si pone come alimento e stimolo per chi oggi scrive poesie.

Questa osservazione propedeutica permette di cogliere l’importanza di questo nuovo libro apparso, assieme a quelli di Majorino e Noël, nel nuovo “Specchio” di Mondadori, rinnovato nel formato e nella veste grafica. Cinquant’anni e una vicenda poetica intensissima ci separano da Dietro il paesaggio (1951). L’autore dimostra come il suo «paesaggire» sia sempre più direzionato e aperto nei confronti dell’apparizione, della comparsa, dello spaesamento o del ricordo. Accoglie conferme l’ipotesi del colore come realtà sempre più presente e centrale nella poesia di Zanzotto. Riemergono di continuo, e convivono singolarmente in lui, le tracce della fenomenologia, della pittura interiorizzata (segnatamente pittura veneta), di un’infanzia pascoliana, della lezione di Artaud “prestata” alla poesia.
Il titolo stesso contiene una potenziale ricchezza di letture. Sovrimpressioni, secondo l’autore, «va letto in relazione al ritorno di ricordi e tracce scritturali e, insieme, a sensi di soffocamento, di minaccia e forse di invasività da tatuaggio». Credo possa convivere con questa anche una lettura per così dire “televisiva” del titolo, in continuità con il precedente Meteo. Nel componimento iniziale di quella raccolta, LIVE, la ruvidità della grafia dell’autore, nella sua interezza, cozza con la lisciatura di una realtà televisiva (o da meteo-sat) che tutto cristallizza in un tempo attuale, denominato con le parole stesse dell’autore  «presente remoto» per significare un tempo già lontano e compresso nell’istante stesso del suo accadere, già cristallizzato, macinato e passato nella circostanza.

Le poesie di Zanzotto possono essere immaginate tutte nelle sue passeggiate o camminate quotidiane, negli sguardi e nella complicità del poeta col paesaggio («No, tu non mi hai tradito, [paesaggio (cancellato con uno striscio sopra)] / su te ho / riversato tutto ciò che tu / infinito assente, infinito accoglimento / non puoi avere: il nero del fato /nuvola / avversa o della colpa, del gorgo implosivo»).

Credo sia possibile avvicinarsi ancora una volta alla sua poesia raffigurandolo con la mente per stradine e viuzze, vicino a acque, campi, valli o fossati, mentre alza gli occhi alle Alpi o Prealpi. In fondo le sue composizioni ripercorrono un paesaggio fortemente e irrimediabilmente testualizzato secondo la tradizione di Petrarca. E anche per questo, a volte, ci siamo trovati nella situazione di riconoscere nella sua poesia in italiano una componente intimamente veneta (sintattica, semantica, visiva-iconografica) inalienabile, mentre in Sovrimpressioni possiamo trovare un respiro “geografico” quasi più vasto e aperto nelle poesie in dialetto (si leggano Parché no posse dirghe VIDISON, Apocolocìntosi e In ore fora de man). Non so se si possa parlare di un paradosso che, come altri paradossi zanzottiani, potrebbe diventare tenacemente istruttivo nel leggere e rileggere in futuro il poeta.

sabato 24 dicembre 2011

Un secolo troppo presto. Adriano Olivetti visto da Marco Peroni e Riccardo Cecchetti

Recensioni rapide #2
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"Recensioni rapide": due paragrafi fissi dove cerco di rispondere brevemente alle domande "che libro ho davanti?" e "perché vale la pena/non vale la pena avvicinarlo?" (solitamente resto su quelli che vale la pena). 
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Avvicinare una personalità come Adriano Olivetti non è affatto facile. Ci hanno provato in tanti, utilizzando vari mezzi e vari approcci. La biografia-fumetto forse mancava. Adriano Olivetti. Un secolo troppo presto, sceneggiato da Marco Peroni e disegnato da Riccardo Cecchetti (Becco Giallo, pp. 160, euro 19, cartonato, a colori) rappresenta quindi una grande opportunità e una sfida proibitiva allo stesso tempo. Non spetta a me (riba)dire le potenzialità del fumetto/graphic novel, il quale non ha alcun bisogno di essere sostenuto-sdoganato-elevato, e non spetta a me nemmeno elogiare l'operato di questa casa editrice che negli anni ha saputo dimostrare queste potenzialità con il semplice "far libri", mettendo in fila delle notevoli pubblicazioni suddivise in diverse collane che spaziano dall'ambito storico, all'inchiesta, ai più recenti e discussi fatti di cronaca, finanche a quel genere editoriale che, se tralasciamo il caso della biografia di Steve Jobs, si presenta come genere assai difficile da proporre; così almeno in Italia, mi pare (all'estero, per quel poco che ho notato in vari paesi, il genere attira più attenzione e occupa semplicemente più metri lineari nelle librerie). E vedere trattati questi temi con l'irriverente frontalità del fumetto restituisce uno spunto nuovo, un piccolo contraccolpo attorno alla discussione sull'uomo Olivetti, le sue intuizioni, la sua solitudine e il suo silenzio (non visse a lungo, era nato nel 1901 nella sua Ivrea, si spense ad Aigle nel 1960).

Va da sè che il libro, con quell'emistichio del titolo "un secolo troppo presto" così eloquente e quasi doloroso, si candida con forza a diventare un ottimo viatico per avvicinare la figura dell'imprenditore di Ivrea, per scrostare certe letture facili e adagiate su una vulgata ormai da demolire. Olivetti è poi l'ennesima riprova - ma forse non ce n'era il bisogno, si tratta di qualcosa di risaputo, ma va bene ripeterlo - dell'impareggiabile contributo dato dagli intellettuali di origini ebraiche alla cultura mondiale. Cosa sarebbero oggi la letteratura, la scienza, la riflessione filosofica senza l'apporto davvero eccezionale proveniente da una comune matrice ebraica? Lo so, è forse un esercizio che lascia il tempo che trova questo di ipotizzare letteratura, scienza o altro senza il contributo di una "fetta": qualsiasi torta sarebbe incompleta senza una "fetta". Il fatto è che qui, nell'ambito della cultura ebraica, a volte mi sembra di poter rintracciare uno degli ingredienti più importanti della torta. Questa biografia rimette in circolazione quel che c'è da sapere per iniziare ad avvicinare ancora Olivetti: l'impresa, l'utopia, l'urbanistica, la politica, la "Comunità", l'esilio, la terza via olivettiana, una terza via che si intravedeva tra le antinomie di capitalismo/socialismo, profitto/solidarietà, industria/cultura, produzione seriale/bellezza. E il modo in cui lo fa è nuovo, vivace. La vivacità dell'intelligenza che arriva dal fumetto. Troppo presto?

martedì 20 dicembre 2011

Cosa significa "fare i libri" secondo Minimum Fax e Riccardo Falcinelli


Recensioni rapide #1
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Dopo i ripescaggi di recensioni passate, dopo le riletture, le interviste, le monografie di collane micro e i "consigli" alle librerie, inauguro un nuovo e più veloce modo di postare nel blog. Per uno spazio che si chiama Librobreve credo sia importante sapere essere... breve. Per questo motivo proverò a pormi dei vincoli con queste "Recensioni rapide": due paragrafi fissi dove cerco di rispondere brevemente alle domande "che libro ho davanti?" e "perché vale la pena/non vale la pena avvicinarlo?" (solitamente resto su quelli che vale la pena). 
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Fare i libri. Dieci anni di grafica in casa editrice (Minimum Fax, pag. 171, illustrato, euro 15) fa il punto sull'abito di una delle case editrici più discusse dell'ultimo decennio. A chi segue da vicino l'editoria  italiana, non occorrono molte parole per ricordare quali riproposizioni, quali territori, quali autori abbia riportato a galla la casa editrice romana. In questo libro troviamo le riflessioni che hanno accompagnato le scelte cromatiche, cartacee, tipografiche, illustrative che, con un occhio sempre puntato al budget, contribuiscono a fare di un libro di una casa editrice un oggetto riconoscibile e, possibilmente, persino desiderabile. Il volume restituisce il racconto di dieci anni di copertine (alcune davvero memorabili) e lo svisceramento dell'artigianalità ancora insita in molti aspetti del lavoro editoriale e di visual design (per fortuna, vorrei aggiungere, basterebbe ricordare anche le ultime interviste rilasciate da un grande come Bob Noorda).

Un volume così può attrarre molti pubblici. Da chi si interessa di book design, a chi si interessa di Minimum Fax, di grafica editoriale in genere o chi sente di avere un certo rapporto viscerale con l'oggetto-forma libro. Ciò che traspare e che rende il libro illustrato in questione interessante è tutto quello che intuiamo sotto: lo scambio di idee, le difficoltà, le scommesse, gli errori in agguato, il rigore richiesto nell'officina grafica. Riccardo Falcinelli, art director di Minimum Fax e curatore del volume, è una delle più brillanti personalità italiane nell'ambito della comunicazione visiva. Insomma, alla fine, chi lo dice che un libro non si giudica-ricorda-posiziona nella libreria anche per la copertina? Tutti i grandi editori, soprattutto quelli "di catalogo", sono consapevoli di questo.

domenica 18 dicembre 2011

"L'esperienza della neve" di Francesco Scarabicchi

Ripescaggi #7









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Torno a rimettere in circolo con questi frequenti "ripescaggi" testi scritti anni fa. Alla fine scrivevo di libri brevi anche allora! E volentieri pubblico un post su Francesco Scarabicchi, con una mia breve recensione pubblicata da "Semicerchio" e dedicata a L’esperienza della neve (Donzelli, 2003, pp. 144, euro 11,00). Negli ultimi anni sono usciti altri importanti libri di questo poeta marchigiano, per Donzelli e per le edizioni dell'Associazione Edizioni L'Obliquo. La collana di poesia di Donzelli, spesso oscurata da collane con più "brand" ma, a volte, con meno sostanza, inaugurata tra l'altro da un indimenticabile Meteo di Andrea Zanzotto, si sta arricchendo di libri importanti. Penso anche al "recente" I mondi di Guido Mazzoni, un notevolissimo esordio poetico. Il libro di Mazzoni data 2010, ma non è escluso che possa scriverne (intanto vi rimando ad un ricco e davvero imperdibile assaggio qui, dove ritrovo anche la mia preferita: AZ 626).
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Francesco Scarabicchi (Ancona 1951) approda alla collana di poesia di un importante editore nazionale. Il suo percorso era comunque di tutto rispetto: le sue principali opere, poetiche e di traduzione, sono uscite per L’Obliquo, raffinato editore di Brescia, mentre da PeQuod uscì, nel 2001, un’autoantologia accompagnata da una nota di Pier Vincenzo Mengaldo. Più che una consacrazione, si tratta quindi della possibilità offerta a un vero poeta di poter raggiungere un pubblico allargato.

La sua lirica non è affatto ‘facile’. Sebbene il dettato si possa far risalire alla tradizione di un monolinguismo latamente ‘petrarchista’, perlustrato nelle sue possibilità conoscitive più nascoste, il lettore è chiamato ad uno sforzo di concentrazione notevole. Vi troviamo un lessico ridotto, rastremato fino a comporsi, per esempio, dei soli elementi legati al tempo meteorologico e al tempo della giornata: «Questa pioggia che senti / giovane lungo i muri // picchia, se fai silenzio, / ai nostri vetri, // bagna inferriate e foglie, / crolla dalle grondaie, // allaga il buio, / cancella ponti e polvere // e scompare». Altrove Scarabicchi, puntando a quella brevitas che appare essere un caposaldo della sua poesia, scrive: «Quanto tempo del tempo muore eterno, / alba di mute porte, nomi che parleranno». È allora di grande interesse quanto afferma l’autore nella nota finale del libro: «l’ho composto come una sorta di epistolario in versi [...] perseguendo l’utopia di una parola che niente altro dica se non la necessaria verità di quanto accade nell’anonimato e negli invisibili interstizi del tempo irreperibile della vita di tutti, nominando, come suggerisce un verso delle Missive, ‘quel che al sole resiste e al freddo inverno’, concentrando un’attenzione sensibile nei confronti del presente».

Le Missive costituiscono una delle sezioni di cui si compone quest’opera, uno dei punti in cui si manifesta più forte questa utopia della parola, la quale diventa chiaramente l’aspetto più nuovo introdotto dalla scrittura del poeta marchigiano. È qui che la poesia di Scarabicchi conferma quanto non sia che apparente la sua ‘facilità’. Ma è altrettanto vero che qui il lettore di poesia riconoscerà la vera forza del libro. Si torna dunque a parlare di Utopia, un luogo che non c’è nella realtà, ma che si manifesta sempre come una scommessa per la letteratura. L’Utopia conduce anche a discutere di etica in poesia. L’Utopia può farsi carico dell’eticità della poesia quando, definendo apertamente il proprio raggio d’azione ideale, contemporaneamente riconosce anche i limiti – spaziali e temporali – propri della scrittura poetica.

giovedì 15 dicembre 2011

I consigli di Librobreve vi accolgono alla Libreria Lovat

Librobreve in libreria #7













La libreria Lovat di Villorba presenta ora l'angolo dei consigli di Librobreve direttamente all'ingresso. Nella mia disordinata formazione, ho un po' studiato persino visual merchandising e ho imparato che lo spazio a destra, appena dopo l'ingresso di un negozio, è un punto "caldo" per l'attenzione (cose da neuroni, insomma!). Per questo motivo si tratta di un bel riconoscimento (in questo spazio appena dopo l'ingresso, ad esempio, è vivamente sconsigliato posizionare il registratore di cassa). Naturalmente mi auguro che i consigli condivisi con Irene, la mia gentilissima referente in libreria, siano utili per rimescolare le carte e giocare di "accenti di visibilità" in quel grande deposito di parole che è oggi una libreria ben fornita.


Questa che segue è la lista di 15 titoli che coprirà un periodo fino a dopo le festività. Ringrazio tutte le persone e le librerie che hanno finora accettato di ascoltare i periodici consigli di lettura provenienti da questo blog: Federico e la libreria Becco Giallo di Oderzo, Claudio della libreria Marco Polo di Venezia a Alessandro della libreria Mondadori di Mirano.


Con il piccolo traguardo delle 2000 visite mensili stabili ormai consolidato (dopo Italia seguono nell'ordine Stati Uniti, Germania, Regno Unito e un insospettabile Brasile al quinto posto...), vi auguro buone letture!
 
1. W.H. Auden, Grazie, nebbia, Adelphi
2. Peter Laufer, Slow news. Manifesto per un consumo critico dell’informazione, Sironi
3. Guy de Maupassant, Sull’acqua, Gruppo editoriale Viator
4. Machado de Assis, La cartomante, Gruppo editoriale Viator
5. Miguel de Cervantes, Illustre fregona. Illustre sguattera, Gruppo editoriale Viator
6. Rainer Maria Rilke, Lettere su Cézanne, Abscondita
7. Mauro Covacich, L’arte contemporanea spiegata a tuo marito, Laterza
8. Giovanni Arpino, La suora giovane, Dalai
9. Vittorio Gregotti, L’architettura di Cézanne, Skira
10. Friedman Yona, Hai un cane? È lui che ti ha scelto/a, Quodlibet
11. Eugenio Montale, La bufera e altro, Mondadori
12. Peroni-Cecchetti, Adriano Olivetti. Intervista dal futuro, Becco Giallo
13. Beatrice Alemagna, Una gigantesca piccola cosa, Donzelli
14. Piero Calamandrei, Lo stato siamo noi, Chiarelettere
15. Piero Gobetti, Che ho a che fare io con i servi? Zibaldone politico, Aliberti

mercoledì 14 dicembre 2011

"Resoconto su reddito e salute" di Igor De Marchi

Ripescaggi #6



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Continuo a ripescare recensioni di libri brevi del passato. Ancora poesia. Qui sotto c'è quella che scrissi, sempre per la rivista "Semicerchio", su Resoconto su reddito e salute di Igor De Marchi (Nuova Dimensione, 2002, pp. 96, euro 8,50). All'epoca dell'uscita di questo volume De Marchi era uno dei "poeti dell'A27", assieme a Giovanni Turra e Sebastiano Gatto, due poeti come lui nati nel primo lustro dei Settanta e autori rispettivamente di due brillanti esordi, Planimetrie e Padre vostro (Gatto è anche traduttore di Julio Llamazares). La definizione di "poeti dell'A27" funzionò abbastanza a livello di stampa locale e aveva pure un suo perché paesaggistico-antropologico, oltre che geografico (Turra e Gatto di Mogliano Veneto, De Marchi di Vittorio Veneto). Da molto tempo non si hanno sue notizie in ambito poetico. Qualche anno fa aveva fatto circolare tra amici lettori una serie di plaquette nere stampate molto bene in casa. Contenevano delle belle poesie. Fu una mossa che al tempo mi parse molto saggia.
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In questo secondo libro di Igor De Marchi (Vittorio Veneto, 1971) scorre molta vita, ben oltre i toni suggeriti dal titolo – quasi da parametro ISTAT, «reddito e salute» – che potrebbe sembrare (ma non è) ironico e minimalista. Ma accanto alla possibilità lasciata alla poesia di dire qualcosa della vita è importante avere presente come nei versi di De Marchi la morte possa instaurarsi in quanto orizzonte di senso: «Ho sorpassato in autostrada / un camion di maiali. / Qualcuno se ne stava accovacciato / dentro la sua palude. / Qualcuno con il grugno fuori / dalle sbarre lasciato al vento. / Qualcun altro rosicchiava le sbarre / per addomesticare l’appetito. / Io non sono come loro, mi sono detto. // E poi: / qui, chi per me /  può dire / dove finisce l’a caso del macello / e dove inizia invece / l’equo appezzamento  dei tagli?».

Ma non c’è nulla di scolastico nel ‘realismo’ di queste poesie. Pertinente è semmai pensare a una ‘poetica’ degli «occhi asciutti» che conosciamo attraverso Sbarbaro e soprattutto la strana e inevitabile rivoluzione dello sguardo avviata dalla poesia di Umberto Fiori (prefatore del volume), che ritroviamo in Passeggiata sul fiume: «L’acqua è trasparente e riflettente. / Mi sono appostato immobile, / non mi sono fatto scorgere. / La trota è salita a pelo d’acqua / tranquilla,  come fa sempre / quando sa che attorno tutto è a posto, / che non ci sono  pericoli. / Fa un mezzo giro e ritorno, / come un gioco solitario / e apre la bocca nell’aria. // Io guardavo: non le avrei fatto  nulla / e non potevo farglielo sapere». Bastano la trama sonora e la metrica di questa poesia, con quel finale così apparentemente ‘banale’ ma rivelatore, a dissipare il dubbio di trovarci di fronte a nuda ‘prosa’ versificata.

De Marchi propone, certo, un apprezzabile insieme di componimenti dall’andamento narrativo, ma questa considerazione non deve prevalere nell’avvicinare un’opera che, testualmente, introduce alcune trasgressioni semantiche e scarti tutt’altro che semplici. Si veda per esempio l’uso transitivo del verbo ‘appartenere’: «della maniera che hai di appartenere / cose diverse», o ancora un caso di disarticolazioni sintattiche come: «Di quel modo che ha la lucertola / a sangue freddo / di prendersi la vita, / facciamo talvolta la nostra casa». Ci si soffermi ancora sulla metrica dei testi, che restituisce, anche ai componimenti più ‘prosastici’, un respiro di falsetto parodico, per il quale si potrebbe richiamare l’opera poetica di Brecht. «Io sono io e la mia circostanza» recitava un aforisma di Ortega y Gasset. De Marchi pare sposarlo appieno. Dietro reddito e salute ci sono la fantasia e la creatività che solo una costrizione data (le regole del guadagnarsi  da vivere su sfondo quotidiano del Nordest) sa mettere in atto, la forza di saper dire «Ognuno piange i propri morti. / Ciascuno il proprio / per non piangerne più nessuno».

lunedì 12 dicembre 2011

"Mia lingua italiana". Le riflessioni di Gian Luigi Beccaria


Le celebrazioni per il 150° anniversario dell'Unità d'Italia volgono al termine. C'è un aspetto importante che forse non ha avuto il risalto opportuno in tutto questo celebrare ed è quello legato alla lingua. Mia lingua italiana di Gian Luigi Beccaria (Einaudi, pp. 90, euro 10) prova a raccontare la traiettoria della nostra lingua italiana, la sua anomalia, la sua esplosione con le tre corone, la fondamentale canonizzazione bembiana, le imprescindibili discussioni del Manzoni e Ascoli assieme a Leopardi e Tommaseo nell'Ottocento, fino alle note posizioni novecentesche quasi stigmatizzate in quelle di Calvino e Pasolini, con Luigi Meneghello, Danilo Dolci, Carlo Levi e molti altri a far da importanti snodi di riflessione. Tanti sono i protagonisti della riflessione linguistica chiamati in causa. Ad essere sincero, m'aspettavo uno sguardo diverso sul Settecento, quel secolo così magnificamente avvicinato da Gianfranco Folena nei suoi studi (penso a L'italiano in Europa del 1983, tanto per capire cosa ha portato l'italiano fuori dai confini, ci può far bene). Questo libro è comunque - mi si passi il confronto - un buon "bignami" per chi vuole fissare le tappe fondamentali dell'italiano, compreso quell'incessante confronto con i dialetti che ha reso le discussioni passate ricche e a volte molto feconde (ecco allora entrare in causa Biagio Marin, Virgilio Giotti o lo stesso Italo Svevo). "Bignami" quindi nel senso della buona sintesi che vi si può trovare, non certo in quello della semplificazione o, peggio, dell'ipersemplificazione scheletrica.

Ho evitato però di parlare di 150° anniversario unitamente a una questione linguistica dichiarata. Non registro oggi una "questione linguistica" propriamente detta. Non so se qualcuno abbia una percezione completamente diversa da questa. Credo infatti che la questione linguistica si collochi, nel lungo percorso della nostra lingua, in quei crinali dove si è discusso, più o meno consciamente, attorno a un fondamentale concetto di Antonio Gramsci (ecco un altro grande linguista semidimenticato!): mi riferisco ovviamente all'egemonia. Se manca una riflessione sull'egemonia non può darsi una vera questione linguistica, così come se mancano delle precise tensioni morali e generazionali propriamente dette non registreremo una nuova stagione della "questione linguistica". Questa è una mia convinzione, probabilmente strampalata. Eppure io credo che non siamo molto lontani dal momento in cui torneremo a parlare di "questione della lingua".

Ma, come sempre, non sono qui per argomentare un'eventuale mia tesi poco interessante bensì per restituire il valore di un libro breve che, solitamente, reputo interessante. Mia lingua italiana sfodera una tesi forte, cioè che l'Italia debba moltissimo (tutto?) alla propria lingua, una lingua che l'ha fatta nascere subito grande, prefigurandone l'unità territoriale avvenuta molti secoli dopo (con un parallelismo medico mi verrebbe da chiedere se l'italiano soffra allora endemicamente, dato il potente esordio e crescita, di un'irreversibile scoliosi...). Scrive Beccaria che "sono stati i manoscritti, le lettere e non gli eserciti, a diffondere l'italiano". Il libro di Beccaria riporta un argomento complesso, stratificato, persino "strategico" sui molti livelli che questo tema chiama verso di sé e, quindi, tra le altre cose, sul rapporto con la tradizione letteraria, con la scuola, i flussi migratori, i dialetti, i media, la lingua della politica, l'inglese o il confronto con altri casi come quello tedesco, interessante, nella diversità, per la quasi simultaneità del processo di nation building. Se poi allarghiamo la visuale al problema delle "varietà" dell'italiano (con costrutti di sociolinguistica come varietà diamesica, diafasica, diastratica, diatopica, i gerghi, i linguaggi settoriali, la delicatissima relazione tra sincronia e diacronia nell'ambito del mutamento linguistico ecc.) comprendiamo subito la difficoltà di governare un argomento così delicato e sfuggente. Beccaria ci conduce alla fine della sua sintesi con la convinzione di un italiano che ha saputo dimostrare una straordinaria duttilità nei secoli. E soprattutto ci offre un'attenzione continua per l'uso della lingua, l'uso che come un grande giudice (o magistrato alle acque), lento e levigante, determina le anse del fiume della lingua, un corso d'acqua che ha perso i connotati torrentizi e che pare più simile oggi ad un più placido e apparentemente meno interessante fiume di pianura (qui le aperture sull'impoverimento linguistico, evidentemente). Ma quell'essere fiume di pianura è il risultato di uno scorrere che parte da lontano, di conoidi e strati di storia della nostra lingua che possono tornare in qualsiasi momento evidenti, tanto più se si riaccende un dibattito quantomeno accettabile sull'egemonia.

martedì 6 dicembre 2011

Le "Slow News" di Peter Laufer. Manifesto per un consumo critico dell'informazione

Ancora il modello e la "best practice" di Slow food tornano, indirettamente, a far parlare di sé. Un po' succede da tempo nell'editoria libraria e, ora, anche in un altro comparto dell'editoria, forse più strategico, quello delle notizie. A parlarcene è Peter Laufer, professore di giornalismo alla University of Oregon ma a lungo corrispondente dall’estero per NBC News, collaboratore del San Francisco Chronicle, Penthouse, Washington Post, NBC Radio e CBS Radio. Sempre nell'ambito media è stato consulente per l’UNESCO. Questo Slow News. Manifesto per un consumo critico dell'informazione (Sironi Editore, pp. 160, euro 17) è il suo secondo libro uscito in Italiano, dopo La battaglia delle farfalle. Reportage sulla creatura più fragile del pianeta tra criminali scienziati e collezionisti uscito sempre da Sironi l'anno scorso. Si tratta di un saggio brillante, un ricettario vero e proprio, perché quelle che Laufer propone, in omaggio a una ormai consolidata fisionomia della saggistica di matrice anglosassone (e soprattutto americana), sono ricette enucleate per digerire meglio tutte le notizie che quotidianamente ci vengono offerte in pasto, quel junk food nel quale siamo immersi. Non è poco, se consideriamo che Twitter è sulla cresta alta dell'onda, proprio quel Twitter che rappresenta la battaglia per l'istantaneità dell'informazione!

Il punto di partenza è sotto gli occhi di tutti. Viviamo iperconnessi, pronti a digerire scoop, infotainment, breaking news, approfondimenti, tematizzazioni, speciali romanzati. Le notizie ci attraversano in piattaforme multicanale, ci inseguono nei luoghi. A quale dieta mediatica dovremmo sottoporci secondo Laufer? Ogni nuovo device è poi trasversale, interfacciabile, integrato. Come faremo a separare il grano (le "vere notizie", Laufer crede esistano le vere notizie che meritano attenzione e ascolto) dal loglio (la fuffa, il grasso che cola, la sbobba)? Come faremo a scomporre e ricomporre una nuova piramide alimentare del consumo delle notizie? Ora, se a me venisse posta a bruciapelo una domanda del genere risponderei in maniera molto schietta: una scuola che funzioni sarebbe già un grande antidoto, vedo la formazione in primo piano. Ma forse questo è un pensiero antiquato, da secolo scorso. Se però avessimo una scuola non devastata, forse non ci sarebbe bisogno di un movimento Slow News che prenda come benchmark il crescente successo del movimento Slow Food. Questa mia rimarrà una convinzione senza riprova. Ma non parliamo di scuola qui, parliamo di una merce delicata come la notizia. Esiste davvero un criterio infallibile per parlare di qualità e quantità delle notizie? Forse bisognerebbe definire prima "notizia" (e Laufer opportunamente ci offre la sua definizione), così come bisognerebbe definire anche "fatto". Notizie e fatti non esistono al di fuori di una chiara volontà definitoria che serva anche a pacchettizzarli e spacchettizzarli per metterli in circolo e venderli.

Il ragionamento di Laufer parte inoltre da premesse condivisibili: abbiamo bisogno di una dieta mediatica più equilibrata, di regolare gli eccessi pericolosi per il nostro già traballante equilibrio psico-fisico, di masticare con calma e non ingerire vagonate di spazzatura. Le ricette sono interessanti perché sono appunto ricette, quindi tentativi, suggerimenti che si possono provare e "personalizzare" sulla propria pelle per saggiarne l'effetto (farsi bombardare e poi tornare al silenzio, selezionare le fonti, fuggire ogni accento sensazionalistico). Il punto interessante è dove Laufer ci invita a non mangiare solo il cibo preconfezionato, ma ci esorta a sfidare i fornelli e quindi a diventare protagonisti attivi dell'informazione (e Twitter in un certo qual modo ritorna a galla). C'è una bontà di fondo in queste ricette, c'è anche buon senso, se vogliamo. Il tentativo di renderci imbecilli preme ed è costante (ma che sensazione provate voi a sentire una radio locale che intrattiene con infotainment e canzoni da playlist? A me basta davvero intercettare quelle voci standard cinque secondi per provare un forte conato, per veder svanire irremediabilmente l'allegrezza di un mattino).

Con questo libro tra le mani nel pensiero mi è corso incontro Alfred Schütz, il filosofo sociologo austriaco delle realtà multiple, del Don Chisciotte e del problema della realtà, della costruzione intersoggettiva della realtà, il filosofo forse ancora poco studiato che rielaborò l'azione weberiana assieme alla fenomenologia husserliana, partendo dalla rilevanza della routine (routine com'è diventata quella della notizia, basti pensare alla famigerata agenda setting theory) e da quel velo comune tra gli uomini di "world taken for granted". Se tutto il mondo è frutto di costruzione e negoziazione continua degli attori, di una distribuzione della conoscenza nella società, allora anche quella merce delicata costituita dalla notizia merita forse una nuova stagione di analisi e studio, proprio per il suo essere routine e sfondo (Laufer esorta a evitare il "rumore di fondo", ineliminabile secondo il pionieristico e sorpassato modello ingegneristico della comunicazione), un'analisi che esca pure dalle meritorie ricette di Laufer, che, beninteso, rimangono un'ottima propedeutica, e che s'avventuri con slancio e coraggio in una filosofia inedita. Alcuni nomi-Virgilio già ci sono, basta saperli aprire alle pagine giuste, sapendo attingere e accostare con intelligenza come fece a sua volta Schütz: Erwing Goffman, Niklas Luhmann, Gregory Bateson e tanti altri. Lavoro per gli scienziati della comunicazione del ventunesimo secolo? Chissà. Glielo auguro.

sabato 3 dicembre 2011

"Nel buio degli alberi" di Gian Mario Villalta

Ripescaggi #5












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Credo che questa qui sotto sia stata una delle mie prime recensioni in assoluto, risale a dieci anni fa. Sicuramente fu la prima mia recensione che ospitò la rivista "Semicerchio" (un saluto amichevole a Fabio Zinelli, se mai capiterà di qua, con il quale accordai questo contributo). Il libro brevissimo in questione appartiene a Gian Mario Villalta e si intola Nel buio degli alberi. 48 pagine per le edizioni meritorie del Circolo culturale di Meduno. Con il senno del poi, credo sia stato il libro che ha dato il la ad un decennio importante della poesia di Villalta che passa per Vedere al buio (Luca Sossella) e il recente bellissimo Vanità della mente (Mondadori).
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Questo piccolo libro dell’autore friulano si compone di 20 brevi poesie, accompagnate da 3 tavole di Claudio Guerra. Villalta continua su vie già aperte altrove: la concentrazione sul sé autobiografico, l’attenzione e apertura ai richiami multidisciplinari ai quali la letteratura può rapportarsi (neuroscienze, etologia, antropologia del vicino, ad esempio), un lavoro incessante sulla memoria, lo sforzo per intendere di quale complessità (‘complessità’ non è contrario di ‘semplicità’) linguistica, testuale e visiva necessiti la rappresentazione dell’oggi. A muovere le poesie qui raccolte ci sono stimoli (‘deboli’, se così si può dire) che non si possono considerare ‘cause’ dei versi. Infatti, per il neurofisiologo Berthoz, citato da Villalta in apertura, è da abbandonare l’idea che i sistemi sensoriali ricevano stimoli. La loro funzione principale non è la ricezione bensì la simulazione dell’azione. Contro la rappresentazione cartesiana dello spazio, è ribaltata in attività la ‘tradizionale’ passività riconosciuta ai sistemi sensoriali. Si leggano allora l’iniziale Corro incontro alla terra, Perché ora vieni casa, antenna, vaso oppure Ruotano intorno al noce le cinque case. Il testo poetico non è mai una necessaria conseguenza di ‘un prima’ temporale («La parola sempre non vuole dire uguale / domani, / o che ripete questo giorno la sua luce / di rivelazione – / dico sempre e vuol dire che il colore / di questa giornata ha infiltrato i giorni / miei tutti, / si è ritrovato, nel passato, e in questa luce, / che lo ha conosciuto, / ha radunato il pensiero »). La materia temporale e la memoria si stemperano e coabitano nel mondo di questi stimoli (i quali possono essere anche assenze). La poesia nascente è allora ‘empirica’ nel senso che vive con la realtà di cui è parte e insieme tentativo di comprensione (ritmica, visiva, emozionale): «Posso aggiungere solo che incontro / sullo stradone ogni mattina / i pioppi, e uno per uno / fogliano lenti e insieme fanno il tempo. / Ogni giorno anche loro cambiano, / li indovino nel verde più intenso / (vorrei fermarmi, guardarli uno per uno) / e quando ritorno, ogni giorno, nell’altro senso, / li perdo – e allora penso: passano ». Le tensioni che la poesia di Villalta riflette sono quelle di una realtà che spinge all’attenzione costante verso la memoria e soprattutto verso il riposizionarsi inesausto di ogni momento del vissuto e del pensiero («Quello che sento diventare è sapore / e distanza che si piega nella mente. / Il tiglio è adesso tiglio veramente, / ogni goccia di pioggia nel suo nitore / è pioggia e goccia infinitamente»). Emanuele Trevi nella nota iniziale ipotizza che le poesie qui contenute disegnino «il mondo così come esso può essere descritto e pensato durante l’esercizio, gratuito e senza pretese, della corsa». La corsa diviene così una «tecnica d’alterazione» efficace alla comprensione degli spazi nonché al ritrovamento (perché di riscoperta si tratta, in senso quasi platonico) di una materia linguistica e ritmica personale, saldata in tale sforzo di comprensione. È molto probabile che sia l’azione (così Berthoz: «il cervello non costruisce lo spazio in maniera cartesiana e topografica, ma in unità legate all’azione») a interessare profondamente Villalta. Se ogni azione è anche spiegazione di qualcosa, allora la poesia è una pura azione se instaura con la realtà una corrispondenza di senso. Così non siamo noi a guardare ma diventiamo sguardo del movimento: «Ho meritato di sentire una rete metallica / traforata dall’aria, suonata dal prato intorno / scorrendo il suo orlo appuntito, / ho meritato di sentire la stagione perfetta / con le ginocchia e i muscoli del collo. / Non so quando è stato, il passato / era al mio fianco e non indietro, / non io a guardare ma diventare sguardo / del movimento – non lo so quando ho meritato / di morire».


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Solamente per dare un saggio di dove sia giunta la poesia di Villalta con l'ultimo Vanità della mente, riporto qui la poesia "Vero viso" contenuta in quest'ultimo libro uscito nella collana Lo Specchio di Mondadori.


Un viso, nell'opera degli anni, quando si compie?
Uscendo dall'adolescenza, quando pare fermarsi
per la prima volta, dopo tante prove e tentativi
di assomigliare a un parente, o a un amico, falliti?
Oppure quando passati i quaranta anni,
nel peso delle palpebre, nell'esimersi delle labbra,
nella tensione delle narici, il carattere,
le manie, vengono fuori, i vizi, la memoria
che adesso occupa il suo presente?
O quando, prima della devastazione, vi si imprime
l'ultima forma, semplice, riassumibile in poche linee
essenziali, l'effige, la caricatura?