venerdì 27 gennaio 2012

La collana "Piccola filosofia di viaggio" di Ediciclo

Storie di collane micro #5












Elemento caratterizzante del progetto grafico della collana "Piccola filosofia di viaggio" di Ediciclo è la freccia in stile segnaletica montana che punta a destra. All'interno di questa freccia sono racchiuse tutte le informazioni di copertina mentre, sullo sfondo, troverete sempre un'immagine di impatto legata alla tematica di viaggio affrontata.

Ediciclo, l'editore di "cose di bicicletta", ha da tempo intrapreso una metamorfosi che lo vede impegnato a proporre costantemente tematiche legate alla mobilità e al turismo cosiddetto "sostenibile", alle nuove forme di conoscenza degli spazi (in bici, ma anche a piedi). Per certi aspetti questa casa editrice ultraspecialistica potrebbe diventare una sorta di content provider per tutta una serie di tematiche che sono poi quelle che hanno decretato, in passato, anche il buon esito di un festival come Ciclomundi. Ha quindi tante carte in regola per farlo, ha forse - soltanto - un nome che pur sottolineando la ultraspecializzazione ne limita un po' lo sviluppo, restringendo l'orbita potenziale (in termini di naming si parla di un nome che crea un posizionamento restrittivo, un po' come Perlana che non serve soltanto per la lana o Prenatal che è anche...Postnatal).

Recentemente mi è capitato tra le mani La musica della neve di Davide Sapienza. Avevo seguito con interesse il suo lavoro-sforzo nell'attenta riproposizione delle opere di Jack London, da lui "caldeggiate" e tradotte (e solo come inciso, che gioia rivedere tempo fa da Adelphi, non per la sua cura ma per quella di Stefano Manferlotti, dopo una lunga assenza, Il vagabondo delle stelle, un libro tanto precocemente amato). Sapevo poi di altri suoi libri o reportage in ambiente esplorativo e montano. Questo libro, sottotitolato con "Piccole variazioni sulla materia bianca", è un racconto di neve, un viaggio nel colore bianco perfetto affidato al format di questa nuova collana dell'editore di Portogruaro denominata "Piccola filosofia di viaggio".

Ecco allora i primi piccoli volumi che, assieme a quello di Davide Sapienza ne fanno già parte o ne faranno parte a breve:

- Anna Laure Bloch, L'euforia delle cime. Piccole considerazioni sulla montagna e il superamento di sé;
- Jean-Pierre Valentin, Il mormorio delle dune. Piccolo elogio del deserto e di coloro che lo vivono;
- Sébastien Jallade, Il richiamo della strada. Piccola mistica del viaggiatore in partenza;
- Julien Leblay, Il Tao della bicicletta. Piccole meditazioni ciclopediche;
- Émeric Fisset, L'ebbrezza del camminare. Piccolo manifesto in favore del viaggio a piedi.

Tutto all'insegna del "piccolo" e breve quindi ma anche, per ora, all'insegna di una certa provenienza francofona degli autori tradotti. La collana si inserisce in uno spazio che è quello dell'editoria legata al viaggio, un settore a mio avviso da seguire con particolare attenzione proprio per la vicinanza e possibilità di ibridazione con le nuove tecnologie, comprese quelle sedicenti "smart" (anche per questo ho parlato di Ediciclo come potenziale content provider qui sopra). Se lo chiedono in tanti quale futuro incontrerà il libro, non solo Robert Darnton nel suo importante libro tradotto da Adelphi (Adelphi che, con un'operazione che ha un certo valore "simbolico", si è da poco affacciata sul mercato degli e-book). Penso che ad esempio leggere il Viaggio in Italia di Piovene con un supporto di AR (augmented reality) non debba più essere considerato uno scenario blasfemo. Da nessuno. La "realtà aumentata" potrebbe essere un'alleata per l'editoria di domani. Un editore come Ediciclo, su riflessioni simili, dovrebbe trovarsi in una posizione tutto sommato privilegiata e avvantaggiata.

lunedì 23 gennaio 2012

"Tentativo di esaurimento di un luogo parigino." La spossatezza di Georges Perec

Tentative d'épuisement d'un lieu parisien. Ecco Georges Perec in questo brevissimo libro proposto da Voland a trent'anni dalla morte dell'autore (pp. 64, euro 12, a cura di Alberto Lecaldano). Mi ha incuriosito quella parola "épuisement", come è stata tradotta in italiano, non solo dall'editore Voland, ma anche da altri. In effetti quella parola sta per esaurimento, ma anche per spossatezza. E sono questi concetti pertinenti alle quattro giornate trascorse da Perec, ora seduto a tavolini di bar ora su pachine in place Saint-Sulpice, disposto a spossare lo sguardo e a registrare per quattro giorni dell'Ottobre 1972 qualsiasi dettaglio captato dai propri movimenti oculari. (Un esercizio di scrittura che potremmo provare a fare tutti, avendo il tempo e la possibilità, un accumulo di dettagli e memoria che può ricordare anche quel personaggio di Borges, Ireneo Funes, "condannato" a non dimenticare nulla.)

Ma la realtà, la realtà-finzione di un luogo qualsiasi si può esaurire così? Non credo. Perec stesso adopera la parola "tentativo" nel suo titolo. Trovo sempre imbarazzanti, in un certo qual modo, queste descrizioni, questi accumuli, queste accanite restrizioni di visuale. Anche se, per contro, questo scorrere del tempo colto in dettagli, questo indugiare da macchina da presa, diventa, in maniera analoga a qualcosa che sembra stia accadendo nella fisica, un ridimensionamento della variabile tempo, una sua perdita di rilevanza. Naturalmente questa (progressiva?) esclusione di una variabile temporale è qualcosa che va tremendamente contro il senso comune (gli stessi riferimenti di Perec all'orologio sono qui tanti e continui). Ed è interessantissimo allora che questo scorrere di tempo aggrappato a uno sguardo che registra cose che nessuno solitamente nota, diventi il tentativo di "esaurire un luogo". Sembra quasi che Perec s'avvii a salutare quello che sarà lo spatial turn nei medoti di avvicinamento alla letteratura di oggi (spatial turn che tra l'altro è abbastanza attuale anche negli studi storici, studi del tempo per antonomasia; per la letteratura valga invece il consiglio di un bel libro curato da Flavio Sorrentino per Armando dal titolo Il senso dello spazio. Lo spatial turn nei metodi e nelle teorie letterarie). L'imbarazzo a cui mi riferisco allora è proprio questo miscuglio di non sapere: questo poco coraggio di uno sguardo spossato e aggrappato a tutto quel che scorre, questa rinuncia a priori ad una visione più larga, questo non capire ancora se la variabile tempo abbia perso parte del proprio peso in letteratura (se magari è letteralmente derelitta in seguito al capolavoro proustiano), se siamo già con un piede in a una nuova epoca di centralità dello spazio, spazio "temporalizzato" probabilmente. Nel caso più specifico di Perec poi, l'imbarazzo di cui scrivo sopra è chiedermi se "quello che generalmente non si nota", queste cose che potrebbero passare inosservate nella frenesia di una grande città, non siano invece oggi, in epoca di sguardi congestionati, cose che invece in molti notiamo:

"[...] In lontananza volo di piccioni.
Un mantello viola, una due-cavalli rossa, un ciclista.
Le campane di Saint-Sulpice cessano di suonare.
In lontananza, due uomini corrono. Un furgone della polizia frena di botto: la forza dell'inerzia fa chiudere la forza laterale, che una mano riapre e blocca.
Il caffè è pieno.
Passa un pullman affollato, ma non di giapponesi.
La luce comincia a calare, anche se si nota appena; il rosso dei semafori è più visibile [...]"

Questo di Perec resta appunto un tentativo. Qui è anche evidente la sua formazione sociologica, la passione documentaristica, il ritornare esplicitamente agli anni della formazione e degli esordi, allorquando nouveau roman e école du regard dettavano l'agenda in terra di Francia. Con questo esperimento, divenuto un classico, Perec sembra fornire delle "istruzioni per l'uso" per metterci alla prova. Allora tutti potremmo cimentarci in un tentativo di esaurimento di un luogo a nostra scelta finché la stanchezza non prenderà il sopravvento!

giovedì 19 gennaio 2012

"La suora giovane" di Giovanni Arpino

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #7




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Ognuno ha delle fisse. Coi libri poi sono sicuro ne scopriremmo delle belle. Io compro un libro di Arpino all'anno e da due anni faccio questo alla libreria Borri della Stazione Termini. Ho iniziato con L'ombra delle colline e quest'autunno ho messo l'indice su La suora giovane. Dalai sta riproponendo i suoi romanzi in edizioni più maneggevoli di un Meridiano. Il brevissimo La suora giovane è un libro splendido, rigoroso, perfetto.
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Romanzo breve del 1959 (ora per Dalai, pp. 128, euro 6,90), racchiuso in forma diaristica in una manciata di giorni a cavallo di un periodo natalizio. Antonio Mathis, il ragioniere quarantenne protagonista, vive la routine nell'ufficio, della fidanzata, qualche avventura con una collega, amante di corridoio. Tutto è calmo, piatto, adagiato sullo sfondo di una Torino invernale tratteggiata con una felicità pittorica fuori dal comune (buio, tram, alberi spogli, gelo, muri rovinati, nebbia: qui il paesaggio appare correlativo oggettivo della condizione di vita di Mathis). Tutto è calmo finché Antonio Mathis non intercetta alla fermata del tram lo sguardo di Serena, una giovane suora che gli lancia un lacerante richiamo d'attenzione e comunicazione. Inizia così una serie di strategie di avvicinamento che in realtà sono un cadere nella rete tesa da Serena, un'astutissima suora di origini contadine, con una vita già indirizzata dalla madre, desiderosa di sottrarla alla avvilente crudezza della vita contadina. Ma Serena è un personaggio squisito, nel senso etimologico, compiuto, che ha conservato un'astuzia e una vivacità straordinarie, tanto straordinarie da diventare, in presenza o in assenza (ad un certo punto farà perdere le proprie tracce), il vero protagonista, quasi il ghost writer del diario: arriviamo al paradosso di un diario scritto da Mathis ma in realtà dettato dalla grande figura e dalle azioni di questa giovane suora non ancora ventenne (metà degli anni di Mathis), scaltra e motivata a fuggire al proprio destino, in uno strano gioco circolare che vede il borghese Antonio cercare di scuotere la propria alienazione e la "genuina" Serena pronta a intercettare Antonio per aspirare ad un matrimonio borghese e fuggire i voti. Lui è un uomo con reputazione di uomo vero e equilibrato, ma in realtà pieno di paure. Lei appare forte e sicura, ma ammette esplicitamente un bisogno di protezione.

Sorprende come in poche pagine (in questa condensazione credo si possa dire che la forma diaristica abbia aiutato non poco Arpino) possiamo seguire il ragionier Mathis nel momento topico della prima parola rivolta alla suora, nell'incontro prolungato sul pianerottolo dell'abitazione del malato del quale lei si occupa la notte, persino in una squallida e svogliata vigilia di Natale trascorsa con la fidanzata Anna e i colleghi di lavoro, fino al magistrale, tirato e perfetto capitolo finale dove avviene una specie di agnizione in absentia resa possibile dal lungo colloquio di Antonio con la madre di Serena, laddove osserviamo il protagonista traslato da Torino alla campagna di Mondovì, in un cambio fisico netto di ambientazione che prelude a un finale apertissimo: qui Mathis scopre che Serena, di cui da tempo non aveva notizie e per la quale ha vissuto giorni d'angoscia, è partita per Ferrara, lasciandolo nel turbamento di decidere se seguirla o meno. Bellissima la scena finale in cui Mathis si reca in stazione dei treni e trova un cartellone di orari tutto unto e macchiato su Mondovì e uno pulito su Ferrara, la nuova residenza della giovane suora. Ma notevole anche la ricreazione del rapporto madre-figlia nella totale mancanza di interazione tra queste. Quest'aspetto è sicuramente un punto di forza de La suora giovane.

Questo romanzo si pone sin dalle prime mosse come romanzo di rottura dell'ordine, com'è ogni innamoramento. In questo è molto teatrale, pur nella sua forma diaristica così riuscita. Allo stesso tempo è un romanzo di un amore di cui non conosciamo l'esito, ma di cui conosciamo la scaturigine, il punto di incontro:

"Oggi, di colpo, ho capito cosa lei mi ha già dato: questa consapevolezza, questa capacità di vedermi come sono realmente, come sono sempre stato. Mi ha costretto a scoprirmi, ed ora so chi sono, quella pulce, quel niente travestito da uomo ammodo, quarantenne, rispettabile, buon partito".

Devastanti e illuminanti queste parole di Mathis, un uomo che senza l'incontro con Serena sarebbe destinato ad un desolante principio di conservazione in perfetta simbiosi con la squisita ambientazione invernale. Sublime poi la reticenza arpiniana sull'aspetto fisico di Serena. In fin dei conti lei è una suora, è velata, il libro si inserisce in una tradizione lunga, nel topos che passa anche per Piovene, Verga, e prima ancora per Manzoni, ripreso all'interno di queste pagine dal protagonista Antonio ma presto lasciato perdere, per incapacità di avvicinare una storia così vera, per incapacità di esser d'aiuto al protagonista. Ma si arriva sino a Diderot. Eppure, per tanti versi, Arpino sbaraglia questa tradizione-topos, con una manciata di pagine formidabili. Di Serena, del suo corpo, sappiamo pochissimo. Abbiamo qualche tratto del suo volto pallido, è chiaro che il ragioniere non prova desideri carnali per lei. Sappiamo anche cosa impara da tutta questa vicenda, anche se non sappiamo quale destinazione prenderà Mathis col treno in quella bellissima scena finale:

"Sono sicuro, adesso, di quello che voglio, proprio perché so cosa significa voler bene e la vita non è più fatta di ore che vengono a galla per poi sciogliersi una dopo l'altra".

Montale, che salutò questo breve libro come "capolavoro del suo genere", aveva forse visto nel personaggio di Serena una rivisitazione narrativa del proprio visiting angel? A Montale, come ad altri scrittori, capitava spesso di trovare e riconoscere nelle opere altrui qualcosa che aveva già in lavorazione nel proprio cantiere poetico, qualcosa sul quale aveva già scritto o qualcosa sul quale sarebbe prima o poi arrivato a scrivere. Questo è tutto sommato normale. Credo comunque rimanga intatta la sorpresa che, ora come cinquant'anni fa, la lettura di questo libretto arpiniano sa regalare. Stupefacente... nella brevità.

martedì 17 gennaio 2012

I primi 15 suggerimenti del 2012


Librobreve in libreria #8











Per iniziare l'anno ho voluto comporre una lista... equilibrata. E quindi troverete poesia, narrativa, poeti narratori (come la sorpresa di Milo De Angelis per Marcos y Marcos), saggistica di varia provenienza (filosofia, storia, paleontologia, la piccola perla del giovane Contini inviato a Ginevra che esce per Quodlibet), cose recenti e riproposizioni, come nel caso del celeberrimo saggio sul riso di Henri Bergson, per anni nell'Economica Laterza e ora anche nell'Universale Economica Saggi di Feltrinelli. Credo che questi 15 titoli suggeriti alle librerie che ospitano gli "angoli Librobreve" possano dare un assetto di partenza abbastanza stabile a questo (traballante?) 2012.

Come sempre, buone letture e un grazie alle librerie che continuano in questo esperimento di accenti di visibilità.

1. Milo De Angelis, La corsa dei mantelli, Marcos y Marcos
2. Salvatore Mannuzzu, La ragazza perduta, Einaudi
3. Paul Celan, Poesie sparse pubblicate in vita, Nottetempo
4. Raffaele Sardella, L'era glaciale, Il Mulino
5. Giorgio Manzi, Julia Rizzo, Scimmie, Il Mulino
6. Jacques Derrida, Gli occhi della lingua, Mimesis
7. Georges Perec, Tentativo di esaurimento di un luogo parigino, Voland
8. Durs Grünbein, Strofe per dopodomani e altre poesie, Einaudi
9. Anna Maria Ortese, Da Moby Dick all'Orsa Bianca. Scritti sulla letteratura e sull'arte, Adelphi
10. Gianfranco Contini, Dove va la cultura europea? Relazione sulle cose di Ginevra, Quodlibet
11. Andrea Zanzotto, Ascoltando dal prato, Interlinea
12. Ermanno Bencivenga, Oltre la tolleranza. Per una nuova proposta politica esigente, Bruno Mondadori
13. Anna Banti, Quando anche le donne si misero a dipingere, Abscondita
14. Henri Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Feltrinelli
15. Alessandro Gualtieri, Le battaglie di Ypres. Il saliente più conteso della Grande guerra, Mattioli 1885

giovedì 5 gennaio 2012

"I ricordi mi guardano". Le prose del Nobel per la letteratura Thomas Tranströmer

Recensioni rapide #3
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"Recensioni rapide": due paragrafi fissi dove cerco di rispondere brevemente alle domande "che libro ho davanti?" e "perché vale la pena/non vale la pena avvicinarlo?" (solitamente resto su quelli che vale la pena). 
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Qualcuno ha ironizzato che, in tempi di crisi, all'Accademia Svedese si siano guardati bene dal far fuoriuscire dal paese i cospicui proventi del Nobel per la letteratura, optando quindi per l'indigeno Thomas Tranströmer. Le sue opere di poesia erano già note al pubblico italiano grazie all'operato di un benemerito editore come Crocetti. I ricordi mi guardano (prontamente proposto da Iperborea per la cura di Enrico Tiozzo, pp. 96, euro 10) rappresenta invece l'unica opera narrativa del più importante poeta svedese vivente. Troviamo qui un viaggio a ritroso nel periodo fondamentale dell'infanzia-adolescenza. L'infanzia, nella similitudine tra vita-cometa percorsa dall'autore sin dalle prime battute, rappresenta la testa di questa cometa. I titoli dei singoli capitoli raccontano già molto di quello che possiamo trovare e scoprire in questo centinaio di pagine che ricostruiscono alcune scaturigini della sua poesia: Musei, Scuola elementare, La guerra, Biblioteca, Ginnasio, Esorcismo, Latino. Trovo interessante questa similitudine tra vita e cometa, con l'infanzia che rappresenta il nucleo-testa di cometa delle esperienze più compatte, epoca in cui il mistero del vivere cerca di trovare una propria collocazione, con una rarefazione progressiva (coda della cometa) costituita dagli anni che seguono l'infanzia, fino alla rarefazione pulviscolare - quando arriva e per chi arriva - della vecchiaia. Questa similitudine è ricca di implicazioni e dialoga apertamente con poeti di ogni epoca e latitudine.

Un libro del genere innesca un eterno interrogativo mai sopito, tra l'altro ripreso anche nella nota finale di Fulvio Ferrari: quanto è utile conoscere la vita del poeta per leggere e comprenderne appieno la poesia? L'interrogativo andrebbe forse aggiustato, se non capovolto, rivedendo il fondamentale nesso tra poesia e autobiografia: quanto ci è utile la poesia per comprendere l'autobiografia di un poeta? Nel caso di Thomas Tranströmer e di questi suoi ricordi veniamo a conoscenza dei momenti preparatori della poesia, di quegli accenti che probabilmente hanno caricato come una molla il grande salto della sua migliore poesia. Così come nella prosa finale, Latino, dove la riscoperta della forma, della splendida disciplina della metrica classica, prepara l'autore all'inevitabile riflessione sulla forma che ogni artista deve affrontare a viso aperto e con coraggio.

lunedì 2 gennaio 2012

"Umana gloria" di Mario Benedetti

Ripescaggi #9













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Mi soffermo un po' a ripescare recensioni del passato in questi giorni, ma forse non è così male. Anche se spero-conto di tornare presto a scrivere di libri recenti. Colgo l'occasione per augurare buon anno a tutti i visitatori del blog. Ripesco una recensione apparsa su daemonmagazine.it nel 2004. Si tratta di uno dei libri di poesia che ho più amato tra quelli di Mario Benedetti e, in assoluto, tra quelli dell'ultimo decennio. Mi riferisco a Umana gloria (Mondadori Lo Specchio, pp. 126, euro 12), un volume che vedeva la luce nel 2004, assai diverso da Pitture nere su carta, altro importante libro di Benedetti datato 2008.
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Umana gloria è probabilmente il miglior libro di poesia degli ultimi anni. Un ‘canzoniere’ che raccoglie gran parte delle poesie distillate da Mario Benedetti in piccoli libri pubblicati da altrettanto piccoli editori negli ultimi dodici anni.

L’uscita di Benedetti nella collana mondadoriana non deve far pensare a una canonizzazione editoriale tardiva di un percorso davvero avvincente. Questa pubblicazione, che si auspica dia al poeta friulano la meritata notorietà, nulla toglie e nulla aggiunge alla ventata di novità che la sua voce ha portato sin dall’esordio, con I secoli della Primavera (1992).

Il verso e la strofa di Benedetti spiazzano spesso il lettore. Il poeta non ha belle immagini pronte a colpire ma una non comune rapidità nel veicolare il proprio pensiero in una sintassi a dir poco originale, rallentata sovente dal verso lungo. Benedetti non ha paura di ciò che scrive, gli accostamenti più arditi di versi e strofe mai rischiano la forzatura. Tesse un intreccio di traiettorie di ricordi, di percezioni (acutissime nei luoghi) e di un’immaginazione vivissima. La bellezza della poesia si regge con l’equilibrio fragile di semplicità di dettato e complessità sintattica. Su quest’equilibrio si assestano i risultati più alti: «Mi guardi poco questa sera / viso su una bicicletta che arrivava / in un modo che a rifarlo / ci vorrebbero le persone e le cose / che mi facevano esistere allora. // Parte dei miei occhi è sotto la tua giacca, / parte nelle farfalle in cui si sfa il mobiletto. / Stanco di me mi chiedi di stare giù / nella figura delle donne nelle guerre, / giochi della sopravvivenza di una pelle cattiva. // Il cielo è grigio sul ferro della ringhiera, / le farfalle del mio piangere ci tengono lì. / E la voce che mi chiamava, dal tramonto usciva / e andavamo sul balcone a muovere i gerani. // Dalla nuvola si schiariva una figura, / da vicino io ridevo nella sua bocca. / Strade e visi uno dentro l’altro, / e era tutta la mia vita.»

L'atlante di Benedetti ha pagine limpidissime, che vanno dal Friuli-Slovenia a Milano (città dive vive e lavora), sino alla Bretagna. Luoghi, come posti dove pensare la vita, gli affetti, i morti, il tempo e la letteratura stessa (magari in citazioni più o meno nascoste), dove è ancora possibile praticare una radicale svolta della percezione e della parola: «Hanno gli occhi provati dal mare, dal grande cimitero marino. / Anche la fabbrica nucleare tiene le navi lontano / con i suoi tubi alti e chiusi, con il ferro di un porto innaturale. // La volpe stasera non è venuta, le galline aspettano la mattina. / La capra legata fa in modo di restare vicino ai due bambini e grida. // Mangiamo sempre dalla signora Auderville, io per ascoltarla: / Prévert era una persona di modi semplici, mangiava qui a volte. // Salendo, la casa è ciò che vogliamo vedere, / le ortensie, l’acqua che sgorga infinitamente nella canaletta di legno. // Piove. Il vento è quasi freddo. D’autunno come saranno / queste pietre con i nomi nel cespuglio di piccole rose? // A Brest è piovuto una volta per sempre. / Un viso, una corsa sono stati amati per sempre, per sempre. / Ti guardo dalla sabbia che sembra non finire nemmeno lì dove sei.»

Da tempo non leggevamo ritratti essenziali e intensi come quelli che si trovano in Stanca madrePer mio padre o Una donna e il suo bambino. Ciò che riuscirà a conquistare l’attenzione sarà, di volta in volta, la naturalezza di un’osservazione o la concretezza della fantasia. Alcuni momenti sono come illuminati da una genuina ingenuità e potrebbero lasciare interdetto chi è rimasto fermo (sì, letteralmente fermo), negli ultimi anni, a causa di un’indigestione di poesia tanto furba e ammiccante, nella lingua e nei contenuti. Benedetti non ha certo come idolo polemico questa poesia, anche se, indirettamente forse, riesce come pochi a calamitare il lettore riportandolo, con delicatezza, su binari piani, drammaticamente semplici: «Ho le mani che mi tengono alla ringhiera, / così come sono vestita, come in una fotografia / che si passa tra le mani / e viene fuori qualcuno che ancora può vivere tanto. // Ho le mani, vedi, come spiegarmi, il polsino / come una pelle con le righe che vengono fuori. // Ho uno sguardo di cose a cui piace stare lì un poco. / Lo zucchero, i piatti, e la promessa di tutto questo / quando qualcuno ride e c’è il cortile, / o piange, e tu gli parli, gli racconti in casa.»

Le poesie di questo libro hanno la capacità di arrivare dirette, sgorganti dal pensiero senza elaborazioni. Così dirette da porre subito la questione se la poesia debba intendersi come una promessa di verità, e, come tale, qualcosa di incisivo, invadente (nei pensieri), schietto da far male. E così una poesia può essere simile a un albero potato drasticamente, nel quale sono i rami più impensati a germogliare verità. Accade nel testo d’apertura: «Lasciano il tempo e li guardiamo dormire, / si decompongono e il cielo e la terra li disperdono. // Non abbiamo creduto che fosse così: / ogni cosa e il suo posto, / le alopecie sui crani, l’assottigliarsi, avere male, / sempre un posto da vivi. // Ma questo dissolversi no, e lasciare dolore / su ogni cosa guardata, toccata. // Qui durano i libri. / Qui ho lo sguardo che ama il qualunque viso, / le erbe, i mari, le città. / Solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi.»

È probabile che più di qualche lettore si avvicini a questo libro scoprendo quello che Celan chiamava “il mistero dell’incontro”. L’incontro con una poesia che non possiamo non fare nostra e che si radicherà presto nella nostra esperienza come una promessa di verità del pensiero e della parola. Nessun lettore troverà ostacoli nell’avvicinarsi a Umana gloria. Saranno piuttosto i lettori della critica a vedersi costretti all’urgente ricerca di nuovi strumenti, filosofici e retorici, per leggere in tutta la sua importanza questo libro. Per ora possiamo limitarci a ipotizzare questa ‘strana’ situazione, che può sembrare buffa, ma che in sé, per riflesso, già conterrebbe grossa parte del valore e dell’attualità di questo ‘canzoniere’. Il primo riservatoci dalla poesia italiana per questo inizio di secolo. Un inizio che fa ben sperare, ma che suggerisce anche di non sprecare subito tante parole. Una volta tanto la lettura e la rilettura delle poesie valgano davvero di più di qualsiasi paratesto. 
[recensione apparsa su daemonmagazine.it]