mercoledì 22 febbraio 2012

"Perciò veniamo bene nelle fotografie", il romanzo in versi di Francesco Targhetta



Francesco Targhetta ha scritto un "romanzo in versi", come recita il sottotitolo della copertina minimal di Isbn edizioni. Già qui ci si potrebbe trattenere a lungo. Ma la bellezza di questo libro è nel suo stare serenamente e spensieratamente incollato in questa forma abbastanza rara. Perciò veniamo bene nelle fotografie (Isbn edizioni, pp. 248 - ma pagine di versi, perciò è un libro breve, un libro breve bello, perciò ne scrivo -, euro 19,90) è un titolo che nasce spontaneamente dal fatto che "non si muove nessuno qui", a richiamo, strategico per la narrazione, di quell'immobilismo che diventa specchio di un'angoscia impastata di ironia crepuscolare. L'autore è poeta, il suo libro dal titolo programmatico e bino di Fiaschi è sicuramente incubatore di questa scrittura che oggi possiamo apprezzare più estesamente. Non da ultimo è un eccellente curatore. L'esperienza del dottorato (nella vita in italianistica), chiamata in causa a più riprese nel romanzo (anche se qui il dottorato è di storia), nel suo caso è sfociata in una curatela de Gli aborti di Corrado Govoni per l'editore San Marco dei Giustiniani. Targhetta rimane poeta anche qui, nel romanzo: cercate certe rime interne irresistibili, certi innesti lessicali inaspettati che allargano il vocabolario senza mai essere stucchevoli (anzi, con una naturalezza che a tratti ha dell’incredibile), sentite battere i piedi metrici del suo verso, quando questo libro vi esploderà tra le mani, negli occhi e nei ricordi, meglio ancora se con l'autore condividete anche l'anagrafica oppure se avete figli nati in quell'epoca (Targhetta, trevigiano, è del 1980 e nella fenomenologia delle merendine che ci regala potrebbe riconoscersi trasversalmente una generazione, magari ridendo, sorridendo, forse un po' amaramente).

Pensavo a un testo dei Massimo Volume mentre mi avviavo a rapide falcate alla fine della lettura. Da qui, album Lungo i bordi del 1995 (precisione d'obbligo, l'autore è anche una felice penna di cose di musica): "Vivo in un posto dove tutto quello che accade / sembra accadere per caso / Una strada attraversa il paese / Il paese è quella strada / Nessuno ha scelto di vivere qui / Ma c'è qualcosa che ci trattiene / Perché anche se non c'è amore / a volte / a volte c'è qualcos'altro." Credo sia accaduto per quell'incatenarsi di luoghi e amore, di casualità-strade-vie (con una precisione toponomastica e topografica al millimetro), il senso di una fuga-rivolta etica e generazionale strozzata e quel "qualcosa che ci trattiene", nonostante l'assenza dell'amore, del lavoro (amore e lavoro, temi portanti e combinati nella tradizione musicale e poetica italiana!). L'amore non è protagonista in questo romanzo in versi, eppure è continuamente presente, quasi come calco, nei racconti della vita d'appartamento, negli angoli e negli scorci patavini, nei tramonti intravisti tra i palazzoni, nelle impeccabili descrizioni degli appartamenti universitari (provate a dire se non è così, mai due bicchieri uguali nello scolapiatti, certi cibi, certi odori), nei racconti delle chiacchierate con le puttane, nel battere e descrivere palmo a palmo la provincia trevigiana per una supplenza di terza fascia, nelle intersezioni con la musica (grande protagonista) suonata, ascoltata o comperata come il cd degli Wire prima di un ricevimento genitori.

Provate a leggere questo libro, provate a vedere se non riconoscete un urlo strozzato, quasi un'imprecazione contro le devastanti bettonelle che hanno soppiantato ovunque i sassi (…"le bettonelle ci annienteranno" / dirai allo psicologo un giorno), nei ferocissimi rapporti di vicinato, nell’aggressiva edilizia residenziale (in prosa abbiamo visto qualcosa di analogo nei temi, ma profondamente differente negli esiti, nel bel libro di Giorgio Falco, L'ubicazione del bene). C'è uno sguardo del poeta-romanziere tutto da scoprire su case, strade, palazzi, tramonti, segni della Prima guerra mondiale (quasi un palinsesto) mescolati magari a insegne di mobilifici prossimi al fallimento. E c'è sicuramente il rapporto con la generazione che è venuta prima, quella di padri e madri premurose che però hanno contribuito allo squasso. E non c'è psicanalisi che tenga qui, nemmeno tra generazioni, anche quando l'incontro tra queste avviene in quello strano crocevia che diventa una sala insegnanti. Per chi conosce queste zone del Veneto alcuni passaggi diventano presto indimenticabili. Come questo:

Percorrendo la statale per Feltre
all'altezza di comuni dipinti
di cartelli stradali, puoi trovarti,
sopra un cavalcavia, alla stessa 
altezza della scritta IperLando,
subissando mobilifici dismessi
che mimano, su sfondo prealpino, 
scenografie di film canadesi:
              senti, come una pioggia,
dall'auto e il finestrino abbassato,
il sapore del pino e della gaggia
mescolarsi al tarassaco di marzo, 
al bicarbonato, al denso smog
screpolato sui muri
e su case con parabole in terrazzo,
        e poco vale leggere 
pubblicità per averne indicazioni
sulla propria dispersione, perché
siamo dappertutto, ma più che altrove
nei bar per gli immigrati, in cabine
telefoniche reduci di guerra,
negli aerei di compagnie low cost
che falliscono nel pieno di un volo,
e ci sovrastano, a qualunque ora,
facendo angoli di quaranta gradi
   con i nostri tragitti provinciali -
ma essere fiacchi è un lavoro per altri, 
che a farlo ci troveremmo spacciati,
come gli uccelli contro le barriere
                   lungo le tangenziali.
Perciò percorri queste praterie
di outlet e benzinai self service:
per andarti a conquistare, al di là
di quaranta chilometri
             di frazione secessioniste,
uno spazio per caso svuotato
da una prof ruzzolata dal bus.

C'è anche un saper stare in equilibrio nel non facile tema del precariato in questo bel libro. Non era facile e va riconosciuto il merito all'autore di non aver impattato sul precariato zigzagante tra università e supplenze. Il terreno era scivoloso, il marketing del precariato, così vivace in ambito editoriale, era in agguato e solo la verità di certi versi l'ha aggirato, magari tornando spesso su quello che rimane, su quel che rimane ad esempio di un’amicizia:

   Dal treno, delle volte, come dalle
provinciali più trafficate, vede,
Teo, quei negozi di sculture
e di statue da giardino,
            i padri Pio con il dito punitivo,
            un putto che piroetta su cornucopie
            portafiori, le ninfe neoclassiche,
            e ancora anfore, vasi e colonne,
e gli cresce, furtivo, il sospetto,
                                   che sia meglio
stare fermi così, immobili, dentro
            e fuori, e poi, magari,
qualcuno si accorgerà com’è brutto
sanguinare, di nascosto,
     come le madonne.

La caduta verticale di questi versi che parlano ai sensi è in realtà un viaggio orizzontale nello spazio di una regione e di una ragione che fatica a collocarsi, a trovare il proprio adattamento ad un presente dalla pelle strinata, dove manca lubrificazione in tutti i gangli, è un’immersione in poesia e in storie che ci riguardano da vicino. Forse, se leggiamo questa bella sorpresa editoriale di inizio anno, anche noi

[…]      tutti torniamo a casa
    con le vene degli occhi
  che si abbinano meglio ai fanali
                   dei tram.

3 commenti:

  1. Beh queste poche citazioni dei versi mi bastano per incuriosirmi..... grazie! Lucia

    RispondiElimina
  2. Ci sono dei versi fortissimi, che non ti lasciano, bravo Francesco Targhetta!! Leggetelo se vi capita, Martina

    RispondiElimina
  3. Abbiamo segnalato il tuo blog in un post del nostro dedicato,guarda un po', ad un libro breve :-)
    http://gruppo_lettura.blog.tiscali.it/2012/02/25/citazionando-da-miss-lonelyhearts-di-nathanael-west/

    RispondiElimina