giovedì 28 giugno 2012

Poesia Contemporanea. Undicesimo quaderno italiano di Marcos y Marcos

Recentemente è uscito Poesia contemporanea. Undicesimo quaderno italiano per la solita e benemerita Marcos y Marcos (pp. 285, euro 17; direte che 285 pagine non possono dar vita a un "libro breve" eppure, a suo modo, questo è un libro breve), una pubblicazione giustamente attesa, dal momento che di qua sono spesso transitate le voci più promettenti e sillogi importanti. La cura è di Franco Buffoni, mentre le prefazioni ai singoli poeti sono firmate da nomi di rilievo del panorama critico e poetico (Giancarlo Alfano, Rosaria Lo Russo, Paolo Morelli e Carla Vasio, Uberto Motta, Fabio Pusterla e Fabio Zinelli).
Ho chiesto a ciascuno degli autori un testo e, unitamente a questo, brevi risposte ad una microintervista composta di quattro domande. Li ringrazio tutti nuovamente, da qui, per la collaborazione e la simpatia. Mi auguro arriviate sino in fondo, anche se il post è lungo. Ma vale davvero la pena arrivare fino in fondo stavolta.

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YARI BERNASCONI











Una conversazione con T. (frammento)

«Un giorno bombardarono le baracche dove stavamo.
Io ritornavo da un colloquio col mio vestito bello,
l’unico, e una giacchetta beige. Scarponcini puliti.
Cominciammo a scavare, a cercare nel fango
la nostra roba. Ma tutto era stato inghiottito.
Io sembravo un pulcino, tra le macerie:
un punto bianco. Alla fine, sporca e ricoperta di terra,
chiamai mio padre. Non avevamo ritrovato nulla.
In quel momento ci appartenevano soltanto
le nostre ossa».



1. Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
Indipendentemente dall'avventura comune del Quaderno, dico senz'altro Osnabrück di Mariagiorgia Ulbar.
2. Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
Senza pensarci troppo (che è anche, credo, l'unico modo per rispondere): Gli strumenti umani di Sereni, alcune cose di Fortini, Lavorare stanca di Pavese e Bocksten di Pusterla. Ma uno dei primissimi libri di poesia letti – o quantomeno sfogliati – è la traduzione dell'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master (scoperta a casa, su uno scaffale).

3. In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
Forse in tedesco (anche se sarei tentato di rispondere: in qualsiasi lingua a me incomprensibile).
4. Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
Come il silicio per la crosta terrestre.

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AZZURRA D'AGOSTINO













Lago di Suviana

Una passeggiata poco prima di buio, fiori che non si sfanno
nella pineta scricchiolante e un bacino
d'acqua scura dove tremola il doppio del mondo.
Nei tuffi del cane, nei bastoni levati per gioco,
gente coi piedi a bagno, pescatori,
un ragazzino nel silenzio delle fronde. 
Così è questo, l'altro volto del male
un tempo breve, un sollievo elementare.


1. Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
 Non è l'ultimo ma mi ha lasciato il segno: La steppa e altre poesie di A. Tarkovskij.
2. Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
Le primissime scoperte son stati tre grandi classici: Leopardi, Ungaretti, Montale e non in quest'ordine.
3. In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
Mi è successo recentemente di vedere una poesia tradotta in giapponese. Vedere gli ideogrammi e non capirci niente credo sia la cosa più inaspettata.
4. Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
La goccia di un rubinetto che perde.

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FABIO DONALISIO










there is a crack in everything, thatʼs how the light gets in
l.c.

ci sono cose spalancate
o socchiuse
magari spifferi, anche sibili
solo il saldo è concetto contabile
o, sia pur di conti, resa
il sigillo è roba di dio
(ovvero colui che vieta, non dice ma disse)
e la luce, ovunque
entra dalla crepa


1. Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
Riletto in questi giorni Macello di Ivano Ferrari. Ripropone intatta la violenza nuda e la capacità di incarnare e scarnificare. Grande sfida quella che sto ingaggiando con Sanjut de stran di Luciano Cecchinel, di cui, da dialettofono nordico ma occidentale, sto cercando di estrarre il succo dal legno. Restando in zona, plaudo agli endecasillabi di Francesco Targhetta, con cui la dialettica ormai è longeva. Un “scusate il ritardo”: Giuliano Mesa. Un “simile-dissimile”: l'ultimo Giovenale. Un appello: leggere Sui campi di battaglia di Nicola Peretti.
2. Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
I primordi, i prodromi. Se proprio devo sceglierne uno, Giorgio Caproni. Tutt'attorno, asserragliati: il Montale tardo e secondario, il Sereni degli Strumenti, Antonio Porta tutto, Pagliarani in vena di brevitas. Poi Ivano Ferrari ancora, arrivato un pelo dopo ma rimasto forse ancora di più, e il Planaval di Stefano Dal Bianco. Due stranieri vivi: Simon Armitage e Durs Grünbein. Un grande vecchio: Leopardi. Un insospettabile: Foscolo sepolcrale. Un “cantante”: Leonard Cohen (ma anche Mick Jagger, Iggy, Cave, Waits, Joey Ramone, per altri motivi). Un poeta in prosa: Roberto Bolaño.
3. In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
L'inglese che so, e il tedesco che non so, forse. Vorrei vedere i miei accenti seguire schemi quantitativi e i miei sostantivi flessi. Credo suonerei bene in latino, quindi. In cinese per l'effetto che fa il cantato tonale. Per il piemontese mi sto attrezzando da solo. Vedremo con che esito.
4. Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
La metrica è come memoria olfattiva, per me. La riconosci, la annusi con l'emozione, non con il raziocinio. C'è un periodo per educarla, degustarla con l'orecchio. Poi la possiedi senza coscienza e se la cerchi non la trovi.

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VINCENZO FRUNGILLO














Da La parte mancante

[...]
Ma tentare, bisogna tentare,
perché il vuoto valga per ciò che vale,
resti una variante, sia lo sguardo pulsante,
ci distragga per un solo istante, ci porti a fondo,
ci porti a trasformare il tempo in spazio,
in camere e strofe, ci ricordi le parole,
la nostra scommessa finale. "Una volta Celan
chiese al maestro l'ultima parola.

Heidegger rimase scosso da tanta innocenza".
Ripeto la formula, una semplice equazione:
                non si dice ciò che ci precede.
E allora si pone sulla bilancia la propria vita
(e la propria morte), chi tenga in equilibrio il tutto
non si conosce; la chiamo meccanica pesante
questo stare fermi a guardare il sistema di leve
in cui siamo entrati senza far rumore.


1. Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
Biografia sommaria di Milo De Angelis.
2. Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
Arthur Rimbaud, Osip  Mandel’štam, Vladimir Holan, Hölderlin, Tasso, Milo De Angelis, Elio Pagliarani.
3. In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
Tedesco, anche se alcune mie strofe sono già state tradotte in questa lingua.
4. Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
L'agrimensore di Kafka.

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ELEONORA PINZUTI













P’t [post]

Mi rialzo in quest’autunno
scalzo il senso delle tracce
(ardo? agghiaccio? serve?).
Io non fui l’erba,
o la foglia che s’assottiglia,
ma la soglia sempre sospesa,
forse la chiglia.
Ho picchiato in tutti gli angoli del labirinto,
rivisto nelle pozze
le trame, riletto il palinsesto.
Ho adesso muscoli dolenti,
ossa crocchianti,
la rabbia come patina sui denti.
So per certo che la trama è, non vista, nelle glosse.
Che il sentiero è rilkiano, fatto di sassi bianchi,
di sinossi sulla piega della carta.

Mi rialzo. E tolgo ad una ad una le schegge.
Non sono altro che tatuaggio, simbolo,
la polena sulla barca.

Quello che mi interessava di più, in questo testo, era esprimere il tratto biografico, le cadute, le impossibilità, i dolori: si tratta di una interrogazione al “destino”, evidenziato dal mitologema della barca e variato sul gender femminile (la polena). L’ho intarsiato di citazioni dalla tradizione lirica novecentesca per legarlo sia alla filologia, che ha formato la mia giovinezza (le glosse, la trama, la sinossi, il palinsesto), sia a quel meta-scrivere (Rilke e il suo Lettera a un giovane poeta; Le Labyrinthe du monde della Yourcenar) che è, per me, a qualche livello, la metafora stessa della vita e dell’intero libro di Èsodi.


1. Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
Il più recente è Antonella Anedda, Salva con nome, comprato qualche giorno fa. Ma ogni libro lascia addosso dei segni, dei glifi.
2. Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
Primissime letture, alle elementari: Leopardi, La quiete dopo la tempesta. Pascoli con Myricae e Petrarca alle scuole medie. Torno sempre alla versificazione italiana (da Dante a Caproni) e ai temi della poesia europea.
3. In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
Forse in Giapponese, lingua che sembra unire una vocalità melodica alla pittura, ai “mondi in grafia” degli ideogrammi.
4. Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
Mi piace paragonare la metrica al suono delle onde. Per me la metrica perfetta dovrebbe avere quella ritmicità, quella cadenza. E anche quelle burrasche, quelle impennate. Sarà che sono nata sul mare….

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MARCO SIMONELLI










Condominio Magnolia 

La casa nuova mi piace è più grande c’è un ampio salone
c’è anche la stanza per un fratellino 
nel condominio se l’ascensore si rompe ti tocca salire le scale
e un giorno ho portato alla mamma i sacchetti su fino in cima 
le ho dato una mano a portarli all’ottavo piano 
ma quando una volta mi sono affacciato
faceva paura vedere gli omìni piccini picciò 
però non ho pianto mi sono affacciato soltanto una volta
faceva paura pareva cadessi e forse è cascata persino
la mamma dell’altro bambino che vive più sotto

non è che è cascata si è proprio buttata 
è successo mentre dormivi ed era in ciabatte e vestaglia 
diceva da tanto che urlava che povera donna il marito
è quello che ha sempre la borsa di pelle e fa il ragioniere
credo lavori in piazza puccini ma mamma ma mamma
ma come faceva? ma non ci pensava ai bambini?

è malata! è come la pazza del terzo piano che butta
i sacchetti della nettezza dalla finestra! 
va sempre a comprare la birra ne porta su pacchi 
ma quando la vedi non glielo dire mi raccomando
ma quando una volta tornavo da scuola non ho fatto in tempo
a entrare nell’ascensore ho pensato è maleducato 
non aspettare una signora anche se pazza
però quella sembrava normale soltanto puzzava un po’ di sudore 
e io stavo zitto non lo sapevo che dire avevo paura e pensavo
non è che la pazza adesso m’ammazza?

io non lo so come mai se n’è andato il marito
la vedi la panda in fondo al parcheggio? tu guarda è un rottame

in effetti non ha i finestrini né i seggiolini neppure il volante
è tutta vernice scrostata è stato il marito a lasciarla così
tu pensa da quanto quella macchina è lì 

un giorno da qui me ne andrò per entrare in un coma
abbracceranno il mio corpo più morto che vivo e pesante
poi chiederanno una sedia perché non possiamo portarlo
dall’ottavo piano facendo le scale con la barella
è troppo rischioso perdiamo del tempo prezioso
spostalo tienilo eccolo legalo sgombra la stanza
ché fuori ci aspetta l’autoambulanza.  


1. Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
Voluntary Servitude di Mark Wunderlich. Non è esattamente l'ultimo che ho letto ma senza ombra di dubbio l'ultimo che mi ha costretto a pormi un bel po' di domande.
2. Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
Avevo sedici anni quando andai per la prima volta in libreria per comprare due libri di poeti italiani: erano Proclama sul fascino di Dario Bellezza e Vuoto d’amore di Alda Merini. Forse hanno lasciato un segno nel senso che il mio lavoro, ultimamente,  sembra costruirsi intorno ai temi dell'omosessualità e del trauma. Il poeta che non smette di lasciare il segno però è Dante, ad ogni lettura. Temo sia inevitabile, soprattutto per un fiorentino.
3. In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
Ho avuto la fortuna di vedere miei testi tradotti in francese, inglese, tedesco e spagnolo. Mi piacerebbe veder tradotto un mio testo in russo, giapponese o arabo, una lingua insomma anche visivamente più distante dalla mia.
4. Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
Direi che la metrica è una trivella cesellata a mano che penetra un terreno all'apparenza abbastanza desertico.

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MARIAGIORGIA ULBAR












Sono solo un uomo piccolo,
mi rimetterò in cammino
perché fermi stanno solo i morti
e mi vergogno a farmi accogliere da loro.
Andrò sul fondo, sulla sabbia
dove vivono le salme e i relitti
le stanze sotto, le silenziose parti;
voglio andare a vedere di che colore sono
a sentire quale idioma escogitano
lì dove sembra che parlare non si possa.



1. Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
Dico di quello che sto leggendo: Il grasso di lepre del poeta bosniaco Abdulah Sidran (Edizioni Casagrande), che raccoglie le poesie scritte tra il 1970 e il 2009. Un’immersione nella storia di Sarajevo, ma anche nel paesaggio e nell’immaginario dell’Europa dell’est, che è una parte di mondo che amo e mi attrae. E quella di Sidran è il tipo di poesia che ho voglia di leggere ora, una poesia che racconta, aderente alla realtà e con improvvisi vertiginosi stacchi di metafora. Come la poesia epica.
Poi ci sono le letture e riletture di Amelia Rosselli, Sandro Penna e Osip Mandel’štam, che mi accompagnano in maniera costante.

2. Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
Appunto, come detto, Rosselli, Penna e Mandel’štam che lasciano continuamente il segno, insieme a certi versi di Pavese, Montale, Cardarelli, Cavalli e, tra gli stranieri, Bachmann e Eliot. Tra le primissime letture in versi: l’epica, l’Inferno di Dante, il Faust di Goethe (letto a 16 anni con pretese di leggerlo in originale, roba da pazzi!), La vita è sogno di Caldéron de la Barca, la prima Merini, anche.
3. In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
Sicuramente in tedesco. Ma poi inglese, francese, spagnolo, urdu, afrikaans, rumeno, russo, hindi, armeno, turco… Tutte! Non è presunzione, è che le lingue e i passaggi e gli scambi tra esse che avvengono con la traduzione sono quanto di più interessante e stimolante ci sia per chi scrive e ha una formazione linguistica.
4. Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
Due similitudini: l’endecasillabo è come la mamma italiana: sempre legati e sempre a tentare di staccarci, di creare la frattura  e di non lasciare che controlli tutto ciò che facciamo. E poi: la metrica come modo di camminare, andatura: cadenza ritmica e progressione, insomma qualcosa che ti tira avanti, una “macchina” fatta di muscoli volontari e involontari.

sabato 23 giugno 2012

"10 modi per imparare a essere poveri ma felici" di Andrea Pomella

Recensioni rapide #6

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"Recensioni rapide": due paragrafi fissi dove cerco di rispondere brevemente alle domande "che libro ho davanti?" e "perché vale la pena/non vale la pena avvicinarlo?" (solitamente resto su quelli che vale la pena). 
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Pregiudialmente non acquisterei mai un libro con un titolo simile. E in effetti non è un libro che ho scelto io. Tuttavia, questo 10 modi per imparare a essere poveri ma felici di Andrea Pomella (Laurana, pp. 144, euro 11,90, con una nota di Marco Rovelli) è un libro che vale la pena avvicinare. Il titolo non è felice perché suona troppo self-help. E questo non è un libro tra i tanti della categoria self-help. Ho dovuto ricredermi perché tratta argomenti quasi tabù ed estremamente complessi con una scrittura drammaticamente semplice ed efficace. Inutile nascondere che si tratta, a suo modo, di un instant-book figlio della crisi, figlio del senso di depauperamento che viviamo, degli anni passati (e forse dei tempi presenti) vissuti davvero al di sopra delle nostre possibilità. E la sua tempestività è forse la caratteristica da salutare con più attenzione. Questo non è un libro di facili consigli, come quel titolo potrebbe lasciare intendere. Molto meglio prendere a esempio alcuni titoli delle 10 tesi di Pomella per capire come si dipanerà il suo ragionamento (Custodire anziché consumare, Non nascondere i segni della povertà, Diffidare dei sogni di fortuna, Nascere dalla parte giusta del Mediterraneo, Nessuno lontano dalla verità può dirsi felice). Ed è un ragionamento che evita accuratamente certe secche dove è facile incagliarsi quando si discute di povertà e ricchezza, PIL e felicità, nuove e vecchie forme del capitalismo mondiale.

Ecco, se anche voi superate la resistenza del titolo o se invece magari siete attirati proprio dal titolo, sappiate che questo libro finisce per essere una lettura "arricchente" per un motivo semplice e originale: non vi troverete favolette o storielle trite sulla povertà. Sarete avvicinati da una prosa che evita facili piagnistei e guarda coraggiosamente in faccia la nostra condizione, i nostri desideri, le nostre paure il relazione al tema fondante della povertà e al neanche tanto velato terrorismo che si insinua in qualsiasi occorrenza della parola denaro. Marco Rovelli, nella nota iniziale, ricorda il "discredito sul denaro" che secondo Simone Weil avrebbe potuto essere la leva di una nuova stagione. Senza necessariamente parlare di discredito, basterebbe riscoprire la natura del denaro, il suo piano denotativo di "moneta di scambio" prima ancora delle incrostazioni delle sue connotazioni menzognere. Ragionare in modo molto "spiccio" sul denaro, questo forse basterebbe. Semplicemente risalire al motivo della sua nascita. Aggiungerei riscoprire persino le virtù di una scienza oggi tanto demonizzata, la finanza, che invece dovrebbe ritornare a essere linfa e non droga. Avremmo dovuto partire a far questo molto tempo fa, prima che persino un gruppo rock arrivasse a cantare "Money it's a crime / Share it fairly but don't take a slice of my pie / Money so they say / Is the root of all evil today / But if you ask for a rise it's no surprise that they're giving none away...". La chiave del ragionamento non è tanto nel denaro allora, ma nel riconoscere la complessità che muove da quelle due parole richiamate indirettamente anche dal titolo. Povertà e felicità. Potremmo ripartire anche da Seneca, se volessimo, e non basterebbero 10 modi, 10 anni, 10 tesi a restituire questa complessità che anche questo saggio, nella sua brevità, prova felicemente a scandagliare.

domenica 17 giugno 2012

"Cucarachas" di Lello Voce

Ripescaggi #14





 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Penso abbia più di dieci anni questa recensione. La memoria non dovrebbe tradirmi qui e posso andar sul sicuro nel dirvi che si tratta di un testo che usci sulla rivista "daemon", a ridosso della pubblicazione di questo romanzo di Voce (DeriveApprodi, 2001, € 9,30, su Ibs.it sembra ancora disponibile come remainder per chi fosse eventualmente interessato, data la difficile reperibilità).
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Cucarachas è la seconda opera narrativa di Lello Voce. Segue di un paio d’anni Eroina, primo romanzo che uscì per Transeuropa nel 1999. Il protagonista si chiama ancora Enrico, ancora un intellettuale tossicodipendente stavolta alle prese con un microcosmo carcerario che farà da scena per tutto il romanzo.

Raro (unico?) esempio di romanzo portato a termine sul web, in diretta on-line (su bel sito di Raisatzoom: Rai fa le cose per bene - e meglio - su Internet, a quanto pare) questo Cucarachas assume proprio la diretta degli eventi come importante elemento di derealizzazione. Il romanzo mette in scena le vicende di un tossico incarcerato alle prese con la quotidianità della cella del Braccio Agrigento, fatta di utopiche rivolte, riflessioni, soprusi, colloqui. I capitoli del libro sono – formalmente –  dieci lettere che Enrico rivolge alla madre.

La presenza di Teo, il raffinato e colto scarafaggio compagno di viaggio di Enrico, non va letta come una facile reminiscenza kafkiana o come un pretesto per mettere in scena il classico gioco dell’alienazione. Teo è l’asciutta presenza di una lucidità che appare come la grande assente nelle vicende narrate e che tuttavia, invece, riemerge assieme al vivo pulsare di un mondo esterno che trova collocazione nell’universo carcerario narrato dal protagonista. Sembra quasi che Voce instauri una prevalenza del qui (della circostanza) sull’io.

Gustosissime le pagine sulla PM che interroga Enrico, per la quale viene  coniato il verbo “fonosocializzare”, con riferimento alle continue chiacchierate al telefono cellulare che interrompono gli interrogatori. Ma questo è solo un punto di un lavoro che, a livello linguistico, cerca di incrociare e far coesistere svariate dimensioni lessicali, sintattiche e diverse densità. La circoscrizione della scena (il solo carcere) consente un reciproco trasformarsi dei tempi della narrazione in spazi e degli spazi dell’azione in diversi tempi. Questa, perlomeno, sembra una possibile chiave che armonizza la lettura.

Sono questi alcuni risultati di una prova narrativa che cerca apertamente di confrontarsi, anche dal punto di vista teorico e poetico, col problema della narrazione nel tempo contemporaneo. Tornano, talvolta, alla mente certi colloqui che, nel campo filmico-documentaristico, Voce intrattenne con Giacomo Verde sulle pagine di Baldus. “Non illuderti che io possa, o voglia, dirti qualcosa in più. Che possa consolarti d'innocenza, o tragediarti di colpa gravissima e inespiabile... Io non lo so, non ricordo. Sono il solito incapace, mi dispiace. Da ere immemorabili vivo in un tempo immobile, senza passato né futuro, tutto un susseguirsi di presente su presente, di fogli di un calendario già sfogliato che si riappiccicano uno sull'altro e poi, dopo, quando vorresti ricordare, non riesci più a scollarli l'uno dall'altro, tanto l'uno vale l'altro. Un susseguirsi continuo di ieri mascherati da domani. Come tutti gli altri. Come te. Presentificati tutti a morte. Il mio tempo come il vostro, che fate finta di poter ricordare, il mio reso soltanto più puntuale, aguzzo da qualche puntura giornaliera, ma, ahimè, vietatissima…”

martedì 12 giugno 2012

da "Speranza fredda" di Bei Dao

Una poesia da #7

Quando penso alla poesia cinese, inevitabilmente passo/cedo al pensiero della traduzione e della vicenda della poesia cinese in Italia negli ultimi decenni. Ritorno allora, immancabilmente, alla prefazione che Montale dedicò al fondamentale volume curato da Giorgia Valensin e dedicato alle liriche cinesi dal 1753 a.C. al 1278 d.C. e naturalmente a quell'immane lavoro di cura della traduzione.
Quasi dieci anni fa, per la cura altrettanto lodevole di Claudia Pozzana, Einaudi pubblicò Speranza fredda (pp. 134, euro 13), un libro di Bei Dao, tra i più importanti poeti cinesi contemporanei, nato a Pechino nel 1949.
Ora io non so davvero come suonino queste poesie in cinese. Le vedo, nella generosa versione con testo a fronte che Einaudi pubblicò e che da qualche settimana naviga tra scrivania e comodino. Le vedo soltanto, come posso vedere un'affissione pubblicitaria in cinese. Leggo la prefazione di Claudia Pozzana, così brava a condurmi davanti al pensiero radicale del poeta sulla poesia, alla sua concezione dell'assenza che risale fino a Wallace Stevens (un autore amato dai poeti cinesi d'oggi), della lontananza, della distanza (la traduttrice intitola il suo intervento proprio La lontananza della poesia. Introduzione a Bei Dao). Mi affido quindi alla sua traduzione per la poesia che ho scelto, non prima di avervi rinviato a uno studio dell'autrice uscito per Quodlibet, di cui qui trovate un breve ma significativo estratto.

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I gigli battono i piedi sulla seta dell'alba
i colombi declamano i sogni dell'umanità
in questo clima di svendite
sentiamo il tuono dell'oro

La libertà avanza con circospezione
il dolore della notte, dilatato dagli occhi di un gatto
diventa un gigantesco pneumatico
l'ombra delle nozze fa una svolta d'emergenza

Il nuovo dittatore eletto dai giornali
saluta con la mano fra le crepe della città
fumo di cucina che implora la guerra sale
fino al sole, a quest'ora apre il fiorista

sabato 9 giugno 2012

Sebastiano Gatto conta "Le sette biciclette di César"

Quel frequente rapporto di fascinazione, innamoramento tra un uomo più grande e una ragazza più giovane (ne ho parlato anche nella recensione a La suora giovane di Giovanni Arpino) ha molti esempi in letteratura. Così come l’agnizione è un espediente fondamentale di tutta la storia del narrare, pensate soltanto al teatro antico. Il racconto lungo di Sebastiano Gatto intitolato Le sette biciclette di César (Amos Edizioni, pp. 84, euro 9) riesce a fondere questi due luoghi importanti del narrare in una forma tutta nuova, finanche a sfiorare soltanto quell’altrettanto teatrale motivo dell’incesto.

Il protagonista conduce una vita sufficientemente normale, è impiegato in un ospedale dell’area veneziana (leggete questo racconto come una nuova efficace mappatura della Venice area, da Favaro a Mestre, da Venezia agli argini del Brenta). Vive e ha vissuto nei libri, tra i libri e la musica. Nel più banale dei momenti di una giornata lavorativa, la pausa-caffè alle macchinette, si scatena la vicenda che lo porterà all’agnizione finale. Qui incontra una ragazza di molti anni più giovane, in età universitaria. Ne descrive alla perfezione l’abbigliamento. Da questo momento in avanti per lui inizia una breve serie di incontri apparentemente casuali con lei. In realtà questi incontri casuali non sono, visto che sono architettati e favoriti dalla compagna (non solo di appartamento) di questa ragazza.

Per rispetto dei lettori non posso rivelare l’identità della ragazza incontrata alle macchinette del caffè, la quale giunge a scombussolare la vita di questo quarantenne che Tiziano Scarpa, nella quarta di copertina, vede “sospeso in una permanente transitorietà, come se le cose non fossero mai cominciate davvero. La verità è che era lui a non essersene mai accorto”. Ecco, mi avvalgo delle parole dello scrittore veneziano per lasciarvi intuire lo sconquasso al momento dell’agnizione (anche se abilmente Gatto non ce lo descrive, visto che conclude l’opera con la lunga lettera della giovane ragazza che porta a galla tutto il male della verità).

Forse avrete già intuito in quale relazione stanno il quarantenne e la giovane protagonista del racconto in piena età universitaria. Non è difficile. Quel che conta è portare alla luce il movente profondo di questa scrittura, un narrare che si salda, come dicevo in apertura, con una consolidata tradizione (non solo italiana), inserendo ottimi spunti di innovazione. Ad esempio, quel fin troppo didascalico uso della virgola che, da lettore, iniziava ad infastidirmi verso la metà del racconto, si salda alla perfezione con quell’inutile accuratezza formale che a volte alberga nelle nostre esistenze. Procedendo nella lettura, ho compreso che quelle virgole fin troppo scolastiche, fin troppo calibrate nella sua prosa, lì vicine ai pronomi relativi, in coppie a spezzare una subordinata, erano lo specchio migliore del finto ordine esistenziale e vitale che oggi ci sembra di tenere assieme, alla stregua del nostro protagonista (Scarpa parla di "viali delle sue frasi accurate"). Allora non bastano più ben calibrate virgole per tenere testa alle sempre più frequenti insubordinazioni della nostra identità e della nostra storia. Forse non basta più nemmeno la scrittura. Forse serve riscoprire una lettera, come quella che chiude il libro. Le lettere.

Per finire una nota sull'autore, che è nato a Mestre 37 anni fa. Oltre a essere traduttore dallo spagnolo (Julio Llamazares, Miguel de Unamuno) è anche poeta. Potete procurarvi il recente Horse Category, per il Ponte del Sale, e, se vi capita, non farvi sfuggire Padre vostro uscito da Campanotto nel 2000, uno dei più bei esordi poetici di quegli anni.

domenica 3 giugno 2012

"La veglia a Benicarló" di Manuel Azaña

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #9


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Torniamo a parlare di un libro (breve) inspiegabilmente introvabile, anche se capisco che l'inspiegabilmente sta solo nella testa di chi scrive e forse non in quella del mercato. Eppure, stavolta, parliamo davvero di un classico, un libro un tempo collocato nella mitica NUE segnata dalle righe rosse di Bruno Munari nella traduzione di Leonardo Sciascia e Salvatore Girgenti. Sarebbe bello confrontarsi anche sul perché certi libri escono completamente dalla circolazione. In tali casi, a maggior ragione se i libri sono brevi, i nuovi scenari aperti dall'editoria smaterializzata possono giocare un ruolo interessante e da inventare.
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A volte servirebbe provare a riprendere misura di quel che fu la Guerra civile spagnola nel contesto non soltanto europeo degli anni Trenta. Il suo precedere relativamente di poco lo scoppio della Seconda guerra mondiale talvolta fa sì che non le venga restituita la giusta luce, anzi, il giusto buio e la fa precipitare in un secondo piano del racconto storico che non è mai salutare. Eppure, solo per rimanere ai nostri libri, potremmo ripescare calibri importanti, come Omaggio alla Catalogna di Orwell, Per chi suona la campana di Hemingway, La speranza di André Malraux, la poesia di García Lorca o quello che resta forse il più bello tra i film di un regista oggi molto seguito come Ken Loach, Terra e libertà. Oppure, per chi è italiano, ricordarsi dei fratelli Rosselli, prima che dei fratelli Rosselli ("Oggi in Spagna, domani in Italia") si occupi chi italiano non è. In questo tentativo di riposizionamento di quella guerra, un libro senz'altro molto utile è il dramma teatrale La veglia a Benicarló di Manuel Azaña (La velada en Benicarló, Einaudi, pp. 144, attualmente fuori commercio). 


Azaña fu l'ultimo presidente della Repubblica prima della vittoria franchista del 1939 e dell'avvento del potere dittatoriale che ne seguì, per decenni. Il destino dell'autore oscillò dall'essere quasi ignorato a essere additato come uno dei principali artefici del caos che imperversò nella penisola iberica in quei tre anni. La tragicità e il terrore di questa guerra non sono passati nella percezione comune. L'editoria, le programmazioni televisive, il cinema hanno fatto molta fatica a restituire quel clima atroce che era l'anticamera del baratro. Oggi dovremmo leggere questo piccolo volume all'interno di un periodo, quello dell'entre-deux-guerres, che forse rappresenta un momento chiave per rivedere lo statuto della parola "intellettuale". Per fare quest'operazione - se si vuole fare, naturalmente - quegli anni furono ancor più significativi degli anni successivi alla Seconda guerra mondiale e della Cold War.


Il testo è un dialogo teatrale. La cornice scorre attorno a un viaggio in auto da Barcellona a Valencia (protagonisti un medico, due ufficiali, un ex deputato e un'attrice). Benicarló è il posto a metà del tragitto dove avviene la loro sosta, laddove sgorga limpido il dialogo sobre la guerra de España e dove s'aggiungono un ex ministro, un dirigente socialista, un avvocato e un propagandista. Una veglia che si conclude in tragedia con l'arrivo degli aerei all'alba e la distruzione dell'albergo. Le battute di questa veglia accorata, come ricorda Sciascia nella prefazione, sono tutte ragionevoli, mentre il bombardamento viene ad assumere la simbologia di "distruzione della ragione", tipica di quell'irrazionalità nella violenza che fu, assieme a molti altri fattori, la base di partenza dei poteri autoritari e dittatoriali che tennero in scacco l'Europa. Altri elementi fortemente simbolici appaiono il viaggio, ma soprattutto la veglia, così connaturata alla letteratura e filosofia spagnola (Di Loyola, Cervantes, Unamuno). Nel dialogo non troviamo personaggi comunisti ed anarchici. Questo fatto può sorprendere e ha fatto in realtà molto discutere. Com'è possibile non contemplarli? Questa mancanza forse si salda in parte con l'alterna fortuna critica dell'autore, di quest'uomo politico di lettere eletto presidente della Repubblica nel maggio del 1936 e "incarnazione della Repubblica", che alcuni hanno visto troppo dilaniato dal dilemma (in questo Sciascia lo avvicina a un personaggio dell'Espoir malrauxiana). Rileggere, riproporre questo testo significa rivedere le lacerazioni immani di quella guerra osservata e sentita in tutto il mondo degli anni Trenta. Ogni guerra civile è lacerazione tra le più grandi che la condition humaine possa registrare, questo è un fatto noto a tutti. Ma per le ragioni espresse sopra vale la pena ricordare chi ha vegliato sui grandi sonni della ragione del secolo scorso. O meglio: rileggere, vegliando.