domenica 30 settembre 2012

Giocondo Pillonetto e la sua "Penultima fiaba"

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #11













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Non sono rari i casi di poeti importanti ma completamente dimenticati dai circuiti della poesia. Questo fatto va ulteriormente a sostegno della tesi, a mio avviso concreta e corretta, che la poesia andrebbe continuamente riletta, per vagliarne nella lettura la grandezza, la tenuta, la trasformazione. Dico trasformazione perché credo si possa anche parlare di una trasformazione della poesia, non solo in termini di "ricezione", espressione che lasciamo volentieri ormai ai manuali scolastici. Un caso del genere è sicuramente rappresentato dal poeta trevigiano Giocondo Pillonetto, di cui qui ricordiamo il libro di poesia principale, Penultima fiaba, uscito nel 1983 da Vallecchi e, in ristampa poiché introvabile, esattamente dieci anni fa da Canova.
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La ristampa di Penultima Fiaba di Giocondo Pillonetto (1910-1981) da parte dell’editore trevigiano Canova nel 2002 (pp. 128, euro 12.50, credo di difficilissima reperibilità) costituì senza dubbio un piccolo evento editoriale in campo poetico. Consentì infatti di riavvicinare l’opera di un autore schivo e appartato, quasi sempre lontano dai principali circuiti della lettura o delle antologie, e che in vita scelse di non pubblicare.

Il libro segnalato, già oggi nuovamente irreperibile, comprende le poesie uscite postume da Vallecchi nel 1983 e una sezione di inediti. Ricco è l’apparato critico, dove potrete (potreste, è il caso di dire) trovare i preziosi contributi di Gianfranco Bettin, Fernando Bandini, Silvio Guarnieri, Luigi Milone, Aldo Piccoli, Mario Rigoni Stern e David Maria Turoldo. Data la rarità di fonti critiche sulla poesia di Pillonetto, questi brevi scritti rappresentano davvero un ventaglio notevole.

L’amico Andrea Zanzotto in più momenti si era battuto per il ritorno in circolazione della sua poesia. Oggi, come dieci anni fa e oltre, le parole di Zanzotto diventano fondamentali per ricostruire la personalità (non solo poetica) di Pillonetto, un rispettosissimo ritratto dell’autore, oste nella vita di tutti i giorni al suo paese (Sernaglia della Battaglia, nel trevigiano, non lontano da Pieve di Soligo), ma anche sindaco “un poco anarchico e poco ossequente” (Rigoni Stern) nei durissimi anni del dopoguerra. Come non ricordare poi, ad esempio, la profusione di sforzi relativamente alla tragedia dell'emigrazione, le “Feste di fine inverno”, di Carnevale in sostanza, da lui organizzate per salutare i compaesani che tornavano all’estero a lavorare dopo le festività natalizie. Sua iniziativa fu anche la costituzione della prima Comunità degli Emigranti, che aveva il fine di aiutare a riportare in patria chi era caduto nel lavoro all’estero. Ha davvero senso allora riprendere qui una sua poesia appartenente alla serie intitolata All’emigrante:

ALL’EMIGRANTE – 4


Ma per il povero
anche la morte
è buona mercede
ed è l’ultimo sogno
immacolato
ove disgela il dolore innocente
e rifiorisce la virtù sofferta
della molta bontà
per l’altrui vita.

(1955)

Sarebbe abbastanza insulso insistere qui sui riferimenti letterari di un poeta probabilmente sconosciuto anche ai lettori più attenti. Se avrete la fortuna di scovare questo libro, vi basterà leggere gli ottimi “ricordi” degli autori già citati per capire che il suo laboratorio poetico accoglie davvero un tempo immenso di poesia, nonché temi tra i più fondanti della letteratura del Novecento. Basti pensare all'apertura al dramma dell’emigrazione già ricordata (in questo aiutato sempre da Zanzotto, altra personalità che non abbassò mai la guardia sul peso sociale di questo tema, anche perché sperimentata in prima persona) o al tema delle stagioni di comissiana memoria.

Ho scritto “laboratorio poetico” a ragion veduta. Pillonetto ha letto, riletto e corretto le proprie poesie per tutto l’arco della vita. Quasi sempre chiude la poesia con una data tra parentesi. In un certo senso la sua opera incarna alla perfezione l’idea "dell'autore di un solo libro". Quel tratto di incompletezza e imperfezione ma, allo stesso tempo, di durata e fiduciosa attesa, così vivo e presente anche nel titolo Penultima fiaba, ci spinge di riflesso a chiederci cosa possa essere “l'ultima fiaba”. Qui la reticenza del silenzio irrompe e si dispiega il veleggiare di un mistero. Penultima fiaba è un titolo che riporta a quella trasformazione della poesia di cui accennavo sopra nell'introduzione e di cui Pillonetto s’è fatto voce, corpo e vita, proprio con il lavoro, con il suo labor e con il suo laboratorio.

MISSILISTICA


Notte
placido missile
inconsciamente adduci
la mia coscienza
nella gravità dei sogni
imponderabili
mentre i fiori son chini
sotto le foglie
come sotto l’ale
gli uccelletti.
Ma ancor sempre ritorno
paracadutato dall’alba
sulla trepida terra.
    Forse la morte
    mi scaglierà
    in orbite
    di là del sole
    di là delle ombre.

(1960)

sabato 22 settembre 2012

da "Al vòuşi e altre poesie in dialetto romagnolo" di Nino Pedretti

Una poesia da #10

Cinque anni fa, nella Bianca di Einaudi, usciva una ricca raccolta delle poesie di Nino Pedretti Al vòuşi e altre poesie in dialetto romagnolo (a cura di Manuela Ricci e con note di Dante Isella e Raffaello Baldini, pp. 240, euro 14,50). Fu una pubblicazione importante, che metteva letteralmente nero su bianco la grandezza di un altro grande dialettale del Novecento, morto prematuramente a Rimini nel 1981 (era nato a Santarcangelo nel 1923). L'introduzione di Manuela Ricci è una grande porta aperta sull'avventura della poesia in dialetto romagnolo, un universo fonico che meglio di altri pare abbia saputo rinnovarsi (non dimentichiamo ad esempio il poeta, germanista e teorico della traduzione Giovanni Nadiani, attivo anche con il suo Faxtet). Manuela Ricci conosce molto bene la materia e la lettura del suo contributo è raccomandabile. Così come, tra le due note di Isella e Baldini, particolarmente significativa diventa quella dell'amico Raffaello, una nota-ritratto, capace di prepararci ad accogliere, con pochi cenni alle grammatiche dell'ascolto, la poesia di Pedretti. Ecco, un piccolissimo consiglio: leggete prima le poesie, naturalmente, al massimo per prima leggete la nota di Baldini che è posta in chiusura, la quale quasi predispone ad un ascolto, poi godetevi la competenza di Manuela Ricci e infine le poche parole di Dante Isella, che come sempre sono in grado di creare dei ponti poetici e critici che collegano la vita e l'opera di Pedretti il quale, va ricordato, fu anche traduttore (Sylvia Plath).

Il libro principale, Al vòuşi, che offre il titolo a questa antologia einaudiana, uscì nel 1975 con una prefazione firmata da Alfredo Stussi, a testimonianza del vivo interesse delle più raffinate intelligenze linguistiche verso la lingua "alta" dei dialetti (nel senso scherzoso e convinto di un Meneghello che parla del proprio dialetto a confronto della lingua di Shakespeare), attraversati da una materia poetica che spesso è tra le più infernali tra quelle reperibili. Ma è così, in fondo: vi ricordate il macinino (mascinino) de Er caffettiere filosofo in Belli? Qui, in queste pagine, abbiamo ritrovato già Luciano Cecchinel. E la lista potrebbe proseguire. Anche in Pedretti questa materia non manca. Tuttavia la scelta di oggi si orienta altrove...

(Anche stavolta, data la brevità delle poesie, propongo due testi che, tra l'altro, nel libro appaiono vicini.)













LA NÈIVA


Stasèira
ò vòia d’arcundè
l’odòur dla nèiva
e al préim fróffli
inzèrti te zil
cumè di gaótt furistír
ch’i vén ènca da néun.


La neve.    Stasera / mi punge un ricordo: / l'odore della neve. / E i primi fiocchi / incerti nel cielo / come uccelli forestieri / giunti anche da noi.


GEOGRAFÉA


Ad là ad cal pórti
ch’a n s’arvéva mai
ad là ad che silénzi
dòu ch’e’ nascéva e’ vént
la maréina de mònd
dréinta una stèisa
un lómm t’una pòzza d’aẓórr,
una geograféa.


Geografia.    Al di là di quelle porte / che mai erano schiuse / al di là di quel silenzio / dove nasceva il vento / la marina del mondo / dentro una distesa: / una luce in spera d'azzurro, / una geografia.

venerdì 14 settembre 2012

Virginia Woolf e Walter Sickert. "Una conversazione" da Damocle Edizioni

Quando trascorrono settant'anni dalla morte di un autore solitamente i diritti decadono e pressoché ogni editore può decidere di pubblicare e tradurre una data opera. Così è successo recentemente per Francis Scott Fitzgerald e anche per Virginia Woolf. Nel primo caso l'evento è coinciso con un processo di ritraduzione dei suoi principali successi, in parte auspicabile (così come sarebbe auspicabile una ritraduzione di tanta narrativa americana tradotta in italiano nel dopoguerra). Per Virginia Woolf invece ci attendiamo qualche incursione coraggiosa, come questa Conversazione pubblicata dell'editore veneziano Damocle (pp. 88, euro 12, introdotto e tradotto da Vittoria Scicchitano), che rappresenta la prima apparizione in italiano (con testo originale non a fronte, bensì in coda) di un importante saggio dedicato alla pittura di Walter Sickert.

Il saggio della Woolf si inserisce nell'ormai mirabile solco che vede quest'editore veneziano degno di larga attenzione, e non soltanto per i preziosi libri d'artista che ha via via seminato lungo la sua via. Mi si lasci citare soltanto alcuni autori in catalogo, a testimonianza di una linea editoriale veramente indipendente dalle chiacchiere: Elisa Biagini, Ernesto Calzavara, Luciano Checchinel, Dragan Dragojlović, Eva Taylor. Lo scritto, la Conversazione, è una delle tante situazioni in cui la penna di uno scrittore (e quale scrittrice, in questo caso!) rileva le principali linee di forza di un'opera di un pittore. Mi pare raramente accada il contrario, e forse bisognerebbe indagare su quest'aspetto, su questa illuminazione non sempre biunivoca tra chi prevalentemente scrive e chi prevalentemente scrive con il colore o altri materiali. Rappresenta inoltre uno scritto che fa davvero luce sulla controversa e mai sciolta treccia tra arte e vita, una spirale che ora vede prevalere l'una ora l'altra corrente sinusoidale, in un gioco di incroci, sovrapposizioni e attorcigliamenti mai inquadrabile per intero. Contributi anche brevissimi come questo della Woolf riescono per un istante a fermare questa treccia, a spaccare in quattro il capello di cui è fatta, inoltrandosi in quell'autostrada a più corsie: le corsie della letteratura e quelle delle arti visive. Forse, in questi casi, faremmo sempre bene a tornare a un grande studioso della letteratura inglese e delle arti visive, a un grande studioso tout court. Penso naturalmente a quel Mario Praz di cui, neanche a farlo appositamente, recentemente è stato riproposto Mnemosine. Parallelo tra la letteratura e le arti visive.

Così Sickert, che ha madre anglo-irlandese e padre tedesco-danese (nasce in Baviera, a Monaco, nel 1860) diventa quasi un pittore pre-benjaminiano, e ci lascia scovare avvolti nel silenzio, anche attraverso le parole della Woolf, quegli stessi materiali che poi Benjamin introdurrà nei suoi Passages di Parigi molti anni dopo. Il secolo a cui guardano è lo stesso, prima di entrambi c'era stato Baudelaire. Dopo di loro, un altro pittore che è morto soltanto un anno fa, Lucian Freud, che di Sickert sembra aver ereditato qualcosa... la treccia continua, si complica, se volessimo introdurre un altro irlandese come Francis Bacon.

martedì 11 settembre 2012

Reiner Kunze e "Gli anni meravigliosi"

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #10












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Per me non si tratta di una rilettura, ma di una primissima lettura. Lo dico perché la rilettura ha percorsi e risorse sue, inalienabili, diversamente dalla prima lettura. Ma dato il successo che questo libro conobbe nella seconda metà dei Settanta, per qualcuno potrebbe trattarsi di una vera e propria rilettura. Per questo lo propongo all'interno delle "riletture" di Librobreve. Non so poi se Reiner Kunze possa essere considerato un classico. Sicuramente è un autore importante, un poeta che merita di esser riaperto (e magari torneremo anche sulla sua poesia tra un po'). Il libro di prosa di cui parlo invece, pur in catalogo, sembra ormai di quasi impossibile reperibilità. Non è pensabile che un editore come Adelphi tenga in vita tutti i libri pubblicati, sarebbe insostenibile, anche se, il linea teorica, per la particolare concezione dell'arte dell'editoria e del catalogo della casa editrice milanese, forse avrebbe senso che il catalogo fosse sempre, nella sua interezza, in vita. Una concezione che risale forse a Kurt Wolff. A tal proposito, facendo simili ragionamenti, mi è tornato in mente un saggio apparso una decina d'anni fa su Adelphiana, L'editoria come genere letterario, ora reperibile su web a questo indirizzo. Lo trovai e lo trovo tuttora interessante.
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Nella DDR la poesia era una cosa seria, sentita, seguita. Il lascito di poeti che hanno vissuto nella Germania dell'Est è tuttora vivo, da perlustrare, forse persino più echeggiante di quello che proveniva dall'altra parte della cortina. Reiner Kunze (1933) scrisse poesie molto belle. Scrisse anche delle prose, a volte brevissime come le sue poesie, confluite in un piccolo libro molto fortunato che nel 1977 si aggiudicò il Georg Büchner Preis, tra i massimi riconoscimenti letterari tedesco-occidentali. Die wunderbaren Jahre, uscito l'anno prima, conobbe infatti un successo immediato, quasi folgorante. Venne presto tradotto in molte lingue. In Italia se l'accaparrò Adelphi, che affidò la traduzione a Guido Smeducci (1978, pp. 109, costava L. 3500 la copia in mano mia). Gli anni meravigliosi rappresenta il libro dell'abbandono della DDR da parte di Kunze, stabilitosi poi in Baviera. E non poteva essere diversamente, dati i contenuti dell'opera. All'epoca, si capisce, l'interesse che simili libri potevano riscuotere era ben maggiore. Queste prose in punta di piedi, apodittiche, ironiche e inclinate nel dettato apparivano come un'apertura su un mondo sconosciuto, misterioso. Oggi probabilmente sono altri i muri e le cortine che alzano il livello di interesse dei lettori e conseguentemente il successo commerciale di un libro. Eppure credo ci siano più ragioni per leggere e rileggere libri come questo e, dal punto di vista di un editore, motivi per riproporli senza rischiare di essere demodé, non da ultimo la bellezza intrinseca di cui vibrano.

La dissidenza esercitata da Kunze non fu tra le più agguerrite. Tuttavia, per i contenuti di questo libro, nel 1977 Kunze fu espatriato. Non so se il successo del libro, all'epoca, fosse imputabile anche alla composizione formale, una sorta di libro di vignette senza disegni montate abilmente dall'autore-regista-padre che osserva il percorso della figlia, o dal regista-editore passato alla vicina Cecoslovacchia, da dove Kunze fa filtrare il fiore di quel verso (Kunze tradusse molta poesia ceca). Kunze sembra nascondersi dentro queste prose brevi e frammentate, eppure è così visibile, anche quando compie determinate scelte tipografiche di impaginazione come nella prosa Concerto d'organo (Toccata e fuga). Ipotizzo risieda anche in questa convivenza di poeta e narratore la scaturigine della forma originalissima di questo libro, cadenzata su piccoli sussulti di stupore e scoperta. La frammentazione, intonata anche dal susseguirsi dei titoli delle singole prose-poesie, restituisce efficacemente la saturazione di una mancata meraviglia, in antifrasi col titolo del libro, l'ipercombustione di ogni gesto e di ogni desiderio che diventa così un principio di soffocamento anziché l'attacco di un respiro, come in questa Sette anni:

Impugna un revolver per mano, dal petto gli pende un mitragliatore-giocattolo.
«Cosa dice tua madre di queste armi?».
«È stata lei a comprarmele».
«Per farne che?».
«Contro i cattivi».
«E chi è buono?».
«Lenin».
«Lenin? E chi è?».
Si sforza di pensare, ma non sa rispondere.
«Non sai chi è Lenin?».
«Il capitano».

sabato 8 settembre 2012

Fabio Franzin e "Il groviglio delle virgole"

Ripescaggi #15












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Ecco un altro ripescaggio, una recensione a Il groviglio delle virgole di Fabio Franzin (Ascoli Piceno, Stamperia dell’Arancio, 2005, pp. 64, 8,00). Fu un libro importante in lingua (come il recente Canti dell'offesa, qui recensito). Si tratta di un volume piccolo che si colloca prima di un lungo e importante "ciclo" di scrittura in dialetto che ha legato il nome di Franzin all'insieme di voci più meritevoli d'attenzione nel panorama italiano contemporaneo. La recensione che segue uscì sulla rivista "Semicerchio", nella bella rubrica dedicata alla poesia italiana curata da Fabio Zinelli.
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Il groviglio delle virgole è un titolo ossimorico, che mischia un piano figurativo ad uno testuale. Così è anche la poesia di Franzin, nel suo mettere un ordine linguistico dentro una sfilacciata materia tra le intermittenze del sentire. Nel componimento che dà titolo al libro è fin troppo facile ritrovare qualcosa che possiamo considerare alla stregua di una dichiarazione di pensiero-poetica: «oltre la rete che sempre c’è / che sempre separa il dolore / dalla gioia, oltre quel recinto / arrugginito le mute macerie / del mio scrivere maturano / ortiche, vive virgole e papaveri. / / Il cumulo si erge come un’oasi / depredata, sopportando il gesto / obliquo e incessante della pioggia. // Le grida sono schegge di vetro. // Gli incanti travi marce, spezzate // e le utopie pietre coperte dal muschio. // Il silenzio è il telaio di una finestra / addossato al nulla nell’insistenza / precaria di un suo sempre più assurdo, / sempre più misterioso equilibrio».

Ci sono scelte linguistiche che aprono continuamente ‘cassetti’ nella poesia di Fabio Franzin, ma fanno questo in stanze-poesie profondamente diverse l’una dall’altra, creando così un effetto di novità ottenuto con quanto è già assodato dal punto di vista lessicale. Il ‘muschio’, ad esempio, copre le pietre nella poesia già riportata, mentre fa da letto alle noci nella bellissima poesia di poco seguente: «verde è il mallo delle noci / adagiate sopra il muschio / dietro la grande casa abbandonata. // Penso a quei tonfi attutiti / nell’ombra perenne dove riposano / memorie di donne e di pollame. // I tre alberi persistono nel rito / antico di una fruttificazione destinata / a marcire, beccolata, qua e là, dalle gazze. // In quei tre alberi ritrovo l’ostinato, / discreto bussare – con le nocche infreddolite – / al portale di feltro dell’amore». Il passaggio pendolare dalla terza alla prima persona, da oggetto a soggetto, così evidente nel testo citato, è una cifra ricorrente nella tessitura di questi versi. Più che a una versione contemporanea del correlativo oggettivo di memoria eliotiana-montaliana, siamo di fronte a una sintassi che si fa essa stessa correlativo oggettivo di una situazione psicologica di volta in volta rinnovata.

Questo libro avrebbe potuto anche portare il titolo di un saggio dell’antropologo Marc Augé: Rovine e macerie, soprattutto ripensando a quei punti dove lo studioso francese afferma che le macerie di oggi (architettoniche od esistenziali) non hanno più il tempo di diventare rovine, vale a dire quanto di più efficace possa esistere per riportare per un attimo l’uomo in una dimensione di tempo puro, ‘non databile’, perduto, lontano dalle accelerazioni e dagli aggiustamenti impressi dalla storia. L’arte solamente può riuscire nel tentativo di ritrovare quel tempo. Il parallelo saggio-poesia chiama a raccolta le potenzialità della scrittura nel ritrovare il tempo perduto delle diverse epoche dell’esistenza, o, lasciando Proust per Leiris, delle età d’uomo. Nel componimento Natura leggiamo: «si sono impressi / nel palmo delle mani / i fulmini. O sono forse il calco / fossilizzato di radici, di rami? // Poi l’autunno accoglie l’inverno. // Il tuono riecheggia fra i ricordi / e l’edera si attorce al vecchio / tronco della parola. // [...] Foglie secche sono ammucchiate contro / i piedi. Il silenzio arde sotto il costato. // Le prime piume, sulle scapole, / sono scure. Il muschio, sulla lingua, si stacca, secco, a scaglie». Si sarà notata una terza occorrenza della parola ‘muschio’, questa volta integrata in un contesto di corporeità, in una chiave assai lontana dalle precedenti.

Il volume si è aggiudicato la XVI edizione del Premio Nazionale di Poesia ‘Sandro Penna’ per l’inedito. Del miglior Penna Fabio Franzin ha sicuramente ereditato la pressione (o il peso, se così si può dire) con la quale lo sguardo si posa sulle cose. È una questione di dosaggio di energia e di attenzione.

sabato 1 settembre 2012

Tullio Pericoli attraverso l'albero

Forse per meccanismo di autodifesa, quando mi è capitato di visitare alcune delle grandi e soverchianti gallerie d'arte come la National, la Tate o il Prado, ho dovuto, come tutti suppongo, adottare un passo rapportato al tempo a disposizione, con l'idea-speranza di ritornarci. Poi, tra le altre cose, ho dovuto (sempre a causa di quello strano meccanismo di autodifesa), ma soprattutto fortemente voluto, soffermarmi su un elemento ricorrente in tanti dipinti, per creare una sorta di percorso nel percorso, dove possibile: nel mio caso questo elemento ricorrente, continuamente ricercato, era costituito dall'albero. In sostanza, proporsi di osservare un quadro nel complesso, un panneggio, ma in special modo indugiare sugli alberi, spesso di sfondo. Accadeva questo. Hanno mistero gli alberi in pittura, nella storia dell'arte così come nella vita. E mi ha sempre conquistato l'albero in pittura, tanto quanto gli alberi veri. Se si parte ammirando un'opera di Giorgione o di Cima da Conegliano, ad esempio, credo non si possa che convenire. E poi l'albero porta con sé, in tronco-rami-foglie con vuoti d'aria e radici da immaginare, qualcosa che ha a che fare (vedere) con le strutture radicali del nostro cervello, della visione, della conoscenza. Non potevo pertanto resistere davanti alla primizia autunnale costituita da questo libro di Tullio Pericoli appena uscito da Adelphi (pp. 80, euro 8) con il titolo emblematico di Attraverso l'albero, alla maniera in cui, qualche anno fa, non avevo potuto resistere ai suoi Ritratti, volti-paesaggi usciti sempre da Adelphi in un volume assai più corposo. Ho pensato che conoscere e approfondire Tullio Pericoli "attraverso l'albero" poteva entusiasmarmi, facendomi rivivere, nello spazio di un palmo di una mano, quei percorsi lunghi dentro le gallerie d'arte attraverso la mano di un solo artista.

Lo spunto, come spiega Pericoli stesso nella breve introduzione, viene dalla richiesta di un editore tedesco, Hanser di Michael Krüger, di illustrare il racconto L'uomo che piantava gli alberi di Jean Giono. Pericoli ci racconta anche come trovasse urtante il termine "illustrare": il racconto di Giono era già così bello e ricco di movimento che non c'era bisogno di illustrare un bel niente. Il libro alla fine uscì (lo trovate nel catalogo Salani), ma da lì partì anche questa "piccola storia dell'arte" attraverso l'albero e attraverso Pericoli, come recita il sottotitolo, dove è possibile scoprire con quante e quali forme la pittura l'abbia rappresentato e come l'albero sia radicalmente servito alla pittura. Nelle pagine che seguono la breve prefazione allora troviamo tutta la profondità geologica del tratto e del colore in Pericoli, alle prese con la rivisitazione analogica di alberi di Giotto, Paolo Uccello, Bosch, Leonardo, Magritte, Hokusai, Rousseau, Klee e molti altri. Questo è dunque "libro da libro", nato grazie a quella richiesta di illustrare un già perfetto e compiuto racconto, e diventa un compendio della forma albero, un breve viaggio nel tempo lungo dell'arte e nelle forme che hanno restituito la meraviglia arborea del mondo. 

Personalmente mi sono chiesto spesso se esistano dei buoni studi di base sull'iconografia (o iconologia, nel senso del Ripa) e quindi studi via via più approfonditi su questa costante dell'arte (e del pensiero) universale. L'albero attrae alla filosofia, all'arte e alla poesia. Naturalmente anche alla scienza, anzi, forse primariamente alla scienza. Forse non ho cercato a sufficienza, ma non mi è parso di trovare granché (se ne conoscete qualcuno, vi sarei grato per una segnalazione). Per questo motivo credo dobbiamo salutare con slancio questo piccolo libro, che s'affaccia nella vicina stagione autunnale per diventare un perfetto tascabile, utile a ricucire il nostro rapporto con questi abitanti del pianeta e della storia dell'arte, in un piccolo viaggio che è arte a sua volta. Il volume diventa così un riconoscimento dell'arte di Tullio Pericoli "attraverso l'albero", un itinerario che passa per le stazioni di Botticelli o Van Gogh, con quell'orientarsi del segno che sa vivere oltre i tracciati tassonomici che vanno da Teofrasto a Linneo (alberi, a loro volta), per arrivare a stringere idealmente le mani di un altro grande disegnatore come Saul Steinberg, da Pericoli tanto amato e che, a protezione, chiude il libro di cui vi ho parlato e la stessa prefazione di Pericoli (la sola cosa "da leggere" del libro). Sarebbe bello che questo viaggio proseguisse, magari in un libro corposo, come i Ritratti. Chissà cosa combinerebbe allora Pericoli partendo dalla Sant'Elena di Cima da Conegliano, da quell'albero misterioso alla sua sinistra...