mercoledì 3 ottobre 2012

Quando Nikolàj Leskòv scrisse "Lo scacciadiavolo"...

C'è un filo importante che unisce la casa editrice Mursia alla letteratura russa e alla Russia stessa. Come non ricordare, ad esempio, l'autentico best-seller di Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio, da Mursia pubblicato dopo il no di tanti altri editori che in seguito si saranno mangiati le mani, dal momento che il libro ha venduto milioni e milioni di copie. Ma sono storie che lasciano il tempo che trovano: un best-seller, in fin dei conti, nasce all'interno di una sigla editoriale e quindi anche dall'alchimia tra autore, titolo e editore. Curioso piuttosto che da qualche anno a questa parte si faccia fatica a intravedere il cosiddetto "best-seller di qualità" all'orizzonte, un titolo che sfondi il tetto di un certo numero di copie vendute. Certo, libri che vendono tante copie esistono, ma quanti passeranno le quattro (4!) milioni di copie di Bedeschi? Pazienza, non ne faremo una malattia. Sono tuttavia fenomeni da studiare, anche in assenza. Forse il passaparola virale da social network non è così penetrante come i consigli di lettura tra conoscenti e amici di un tempo. Ma torniamo a Mursia e alla Russia. La letteratura russa, quella che si cita sempre, dalla quale si può attingere quasi a occhi chiusi, quella che forse oggi si fa fatica a leggere (o a rileggere), è una costola importante del catalogo della casa editrice milanese. I grandi nomi di quella letteratura non mancano. E così accade che passate traduzioni, come quelle indimenticate di Ettore Lo Gatto, approdino a nuovi formati. Succede con la collana "Il picciONE" che ospita Lo scacciadiavolo di Nikolàj Leskòv (pp. 54, euro 3,90).

Leskòv ha pressoché ovunque legato il proprio nome alla narrazione delle vicende della Russia zarista. Lo scrittore, nato a Gorochovo nel 1831, fu anche giornalista. Non stupisce un certo sapore che forse non sarebbe dispiaciuto a Petronio. Tale quadro si ravvisa anche nel nostro breve racconto proposto in solitaria, dove, nello spazio di poche pagine, tocchiamo comunque alcuni capisaldi della sua arte narrativa e alcuni bersagli della sua ironia: la classe benestante, "timorata di dio", il clero (costante della sua produzione), qui nelle vesti di alcune suore incartapecorite dal bigottismo. Il tutto è tenuto assieme dalla figura del protagonista, un giovane studente che cerca di farsi largo in vista di una promettente carriera in città. Il ragazzo è letteralmente spedito dalla madre a farsi "benedire" dal potente zio, il quale si rivelerà un ricettacolo dei peggiori vizi e nefandezze. Impossibile non ravvisare la ben nota "arteria" satirica dell'autore, che qui sembra porci in una condizione di navigatori di un'indagine della società russa, un vaso sanguigno pulsante, vivido, largo proprio come siamo stati talvolta abituati dalla grande letteratura dell'Ottocento. Il rapporto tra letteratura e società nel Diciannovesimo secolo è per tanti versi il binomio per antonomasia (pensate solo ai narratori francesi, senza far nomi). Eppure c'è qualcosa in questo racconto leskoviano che pare sfondi qualche porta presente, di questa Russia meno lontana di quel che potremmo credere. Una nazione-continente che, più di altre forse, ma comunque assieme ad altre, vive sulle contraddizioni del suo sviluppo, sulle antinomie della sua geografia fisica, politica e morale. Non si tratta qui di fare il solito giochino di attualizzare un racconto che è diventato un classico. Non ce n'è affatto bisogno, se di classico si tratta, e poi subentrerebbero altri fattori, di natura squisitamente linguistica, persino prosodica, o letture importanti come quelle del formalismo russo e di Benjamin, letture che certo hanno lasciato un segno. Qui vorremmo soltanto richiamare l'attenzione su un racconto che dalla ragnatela delle parentele (la madre, il figlio, lo zio), tratto importante della sua arte e della letteratura russa più in generale, s'apre su un intero mondo di uomini che non possiamo pensare di conoscere davvero, anche quando passano sotto l'ombrello rassicurante di trite etichette come quelle dell'ignoranza crassa. Leskòv allora porta a termine i suoi exempla senza salvezza evidente, eredi quasi di un teatro che prodigiosamente sa prendere sia da Plauto e che da Terenzio, con la profondità della sua arte e narrazione, lasciando a bollire sul fuoco della lingua e dello stile il magma delle relazioni della società (società, parola squisitamente ed esclusivamente Ottocentesca?), le quali, come fasci di luce, dal centro della sua scrittura, dipartono allargandosi ai nostri spazi, alle nostre odierne relazioni tra simili, in Russia come negli Usa, in Norvegia come in Sudafrica. Un classico è allora anche un'opera che si pone in una spazialità ampia, prima ancora che in una temporalità sterminata. Ma queste sono cose forse risapute.

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