giovedì 22 novembre 2012

"Mac(')ero", l'esordio di Marco Scarpa

C'è un'inquietudine di fondo che lega alcune esperienze di scrittura poetica, soprattutto tra i più giovani? Mi chiedevo semplicemente questo, apprezzando la prova d'esordio del poeta trevigiano Marco Scarpa, intitolata, con un uso inconsueto dei segni tipografici, Mac(')ero (Raffaelli, pp. 100, euro  12). Ci troviamo davanti un titolo che sembra quasi condurre, ironicamente, a quello che è spesso il destino di tutti gli esordi di poesia (il macero) e opporre, avversativamente, quell'istanza di presenza contenuta anche nella chiusura della poesia intitolata Rifiorire: "La prima cosa da fare / è ammettere di essere vivi". Ma in quale paesaggio si colloca questa poesia? La cruna dell'ago necessario, il passaggio obbligato per amare fino in fondo questa poesia, è rappresentato da Eugenio Turri, il grande geografo chiamato in causa un paio di volte nelle epigrafi delle sezioni, con frammenti da quella opera eccezionale tra le altre che fu Il paesaggio e il silenzio. In una di queste epigrafi, Scarpa estrapola una parola che attraversa per intero l'asse della sua scrittura: "Di giorno in giorno tutto si consuma, anche le cose costruite hanno il giorno dopo il segno di un'usura, un'usura del visibile, il primo annuncio del loro diventare detriti, deiezioni della storia".

Poesia e deiezione. Ecco i due punti sui quali scorre un asse portante di questo libro. La deiezione in Turri (e in Scarpa) sembra porsi in equilibrio difficile tra le sue valenze multiple in ambito medico, geologico e filosofico. E se in poesia non mancano grandi esponenti per ciascuna di queste singole valenze, poche volte si è provata una sintesi che non sia facilona e cascante. Questo poeta, per tentare l'impresa, sembra aver assorbito il succo migliore dei dettati di Grünbein e della sua bravissima traduttrice italiana, Anna Maria Carpi, e che sia andato oltre le case e i muri di Umberto Fiori

Farci scala e salendo, corpo
che muta, si estende, eretto
si danna, nulla più di una piana
priva d’acqua nel ritorno distesa
nulla più di sgranare la fame
                            per troppo cibo.

Se Grünbein – lo abbiamo scritto – ha lasciato un segno, il corpo diventa orientamento, la nostra unica arca per trarre in salvo gli spazi dall’alluvione disordinata dei tempi

Tengo le caviglie distanti da terra
le mani sudate per sfoghi accennati
mentre il groviglio si cuce a sussurri
la voglia ardente di calpestare
la vita, l’ambire alla presa, vibrare
e mai dome le dita, strozzare quel poco
che so e che uso per stare a galla.
Questo io vivo ed è come il salto
in alto con l’asta, solo che atterro
male e rimango disteso a lungo.

Alcune poesie sono caratterizzate da un movimento in due tempi, scandito anche tipograficamente con allineamenti diversi, con una seconda parte posta tra virgolette. Questa intelaiatura appare una mossa indovinata, un insolito convincente filtro tra reale e irreale, come in questa

L’altra ragione, quella che rimane muta
muta il piccolo che s’insinua nelle fessure
quelle mancate, sfuggite alle correzioni
vaghe ed imprecise, casuali.

“Controllo le linee verticali, gli stimoli
le cime degli istinti ma le linee stese
sgusciano tra i piedi, perdono la pelle
fanno scivolare i miei problemi a valle
tra i sassi dove alle dita non basta lo spazio
lo scanso, dove la spinta è impedita”.


Non è facile vivere, provare a vivere all’altezza del proprio tempo e dei propri tempi. Questo Marco Scarpa lo sa bene e lo sa dire bene, soprattutto in una sezione come Masserizie, apostrofata da una bella citazione da Sanguineti (“Bisogna averci un po’ di voglia di morire, / per aderirci, al vivere.”). Tale consapevolezza è limpida in poesie come questa

La beffa alle mani, lo smacco alla presa
mancata all’incastro, scivolata
tra le forme squadrate delle pareti,
ai margini spinte le pene, le frasche
scostate senza peso, i bordi allungati,
periferie che del centro
                            nutrono l’ingorgo.

Ritorno per un istante a Turri. Il paesaggio di queste poesie è una presenza potente, pur in una discrezione che non diventa banale sfondo o background predisposto allo show di fotogrammi detritici, dei crolli, della malattia. In questo paesaggio pare sia già tutto accaduto, eppure vige un principio di attesa che rilancia, tra la resa e la disfatta che non escono allo scoperto ma che stanno rintanate “[…] tra le pietre più basse, quelle / su cui frana tutto e da lì non si spostano”.  

Sebastiano Gatto, nella sua bella e utile prefazione (non è scontato che una prefazione a un libro di poesia sia utile!), parla del “libro delle cose rimaste, delle cose salvate e delle fondamenta (tanto in senso metaforico, quanto in senso letterale) su cui ricostruire. Ma perché l’esito sia tale, perché davvero le macerie possano trasformarsi in fondamenta, c’è bisogno di esperire fino in fondo un tempo e uno spazio dolorosi e incerti, il tempo e lo spazio necessari a scoprire se tra le rovine si annidi qualcosa da cui ripartire.” Non è scontato nemmeno che qualcosa da cui ripartire esista per forza, ma è a questo punto che si pone in tutta la sua importanza la deiezione, in tutte le sue valenze, quel binomio riuscito di questo esordio in cui riusciamo già a intravedere molto e altri importanti passi della scrittura di Marco Scarpa (sia detto in chiusura, un binomio lacerante, a suo modo doloroso, come guidare un'auto al mattino dopo aver letto e fatto proprie le pagine di Turri, dal suo paesaggio al suo silenzio).

3 commenti:

  1. questo è un esempio di recensione utile. Grazie.

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  2. Poeta che sembra interessante, grazie per questa segnalazione. E.

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  3. Grazie ad Alberto per la recensione contestualizzata, attenta, utile (spero)e grazie per la visibilità in uno spazio virtuale pieno di maestri, stimoli, riferimenti.

    Marco



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