sabato 25 febbraio 2012

"La bella vista" di Umberto Fiori

Ripescaggi #11

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Dell'importanza della poesia di Umberto Fiori si scrive, ma forse mai abbastanza. Anche il suo lavoro critico andrebbe ripreso in mano. Qui ripesco una recensione uscita - mi pare di ricordare - sulla rivista "Atelier" poco dopo l'apparizione de La bella vista (Marcos Y Marcos, 2002, pp. 116, euro 11,60)
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La “bella vista”, che dà il titolo al poemetto della prima sezione e all’intero libro di Umberto Fiori, è un luogo ben tratteggiato nella nota in chiusura. A pensarci bene, la vista è anche il senso più sconvolto e sconvolgente nelle poesie di Fiori, sin dagli inizi con Case e Esempi. Pare del tutto naturale che il poeta faccia oggi occupare alla vista un posto privilegiato, in un titolo che suona come una rottura rispetto alle titolazioni secche delle altre raccolte poetiche (Case, Esempi, Chiarimenti, Tutti).

Né visivo né visionario (giusto per strozzare sul nascere certe diatribe già in voga a inizio Novecento, ad esempio, per Dino Campana), Fiori è il poeta che più di altri, in questi ultimi vent’anni, ha saputo mostrare come gli occhi, il ‘semplice’ vedere, possano rigenerarsi e rinascere a nuova vita. Con costanza severa e nessuna forzatura, la poesia di Fiori è riuscita ad inventarsi una comunità di lettori. Detto con un’espressione da rotocalco, Fiori è riuscito a farci vedere le cose (le case, soprattutto!) della nostra vita quotidiana sotto un’ottica nuova. Ha scelto la poesia per comunicare con parole elementari una personale conquista dello sguardo.

Il libro in questione sembra collocarsi ad una svolta. Smorzati gli accenti su certi temi, su certe ossessioni (almeno sulla carta, dato che dobbiamo credere che le ossessioni vere non ci abbandonino mai del tutto), Fiori ci indica a che livello di metabolizzazione sono arrivate le sue occhiate alla realtà, il suo verso detto con semplicità e la riflessione etica che, anche in questo libro, si appoggia su una metafisica del vedere: «Da allora, bella vista, più del tuo / saluto, più del tuo / cielo perfetto, / nella vita che cosa / ho mai saputo?»

Partendo dalla “Bellavista”, luogo reale e mitico al tempo stesso, Fiori rivede e riscrive una propria memoria spogliandosi di tutte le incrostazioni più terribili dello sguardo: «Tu mi hai insegnato tutto. / Insegnami a morire, bella vista. / A scomparire, / come tu sei scomparsa. // Fa’ che non sappia più cos’è / chiamarsi: / essere Piera, Gustavo, / nave, mare, muretto. // Insegnami a mancare, / a tornare invisibile, com’era / l’occhio in cui ti ammiravi.» L’enumerazione, prerogativa della poesia di Fiori sin dagli esordi, è qui giocata in senso negativo a dimostrare la sua insostituibilità all’interno del verso.

A La bella vista segue la sezione Idoli, da leggere a sigillo del poemetto: ‘idoli’ nel senso di immagini, oggetti o scene elevati a divinità provvisorie, portatrici di comprensione improvvisa, come in Ostacoli, sbarramenti: «[…] Platani, tetti, ragionamenti, / musi, facce, facciate / che state là / e mi tenete escluso, / io vi tengo per veri. // Stretti vi tengo. Io spero / soltanto in voi, / ostacoli, sbarramenti. // Un giorno, quando tutto si aprirà, / scenderemo abbracciati.» Una chiusa così può ricordare l’ultimo Montale, poeta ligure come Fiori e citato in epigrafe.

Statue, la terza sezione, così com’è stata pensata e scritta, abbozza una sintesi dell’opera, mettendo in scena quelle aporie contro le quali si scontra inevitabilmente un ragionamento poetico sull’essere, l’esserci, il vedere e il sentire quand’è radicale e pervasivo: «[…] Ma la statua / diritta sul piedistallo, / la barba ferma / nella gorgiera di bronzo, / il gioco che fa col mondo / chi lo capisce?». Protagonista della scena dovrebbe essere la statua. Invece il soggetto del periodo cambia, è posticipato nell’ultimo verso: è l’uomo protagonista, con la sua fatica a capire il gioco delle statue, oggetti, allegorie di uno iato tra quello che vive e quello che dura e lascia una traccia nel/del tempo. Le poesie Desiderio, Altro desiderio e Spesa vivono delle suddette aporie, rilasciando sulle pagine figure ossimoriche in una sorta di adynaton diffuso: «non diventare più», «assomigliarmi», «un passo immobile», «il sorriso di pietra». In Spesa il poeta ammette di riuscire ad amare solamente la «forma chiusa, piena, finita» delle persone che vede rientrare a casa la sera, «il contegno di marmo, liberato dal tempo, dallo spreco». Salvo poi concludere: «Insegnami, tu che lo sai, l’altro bene / che si dovrebbe volere.» Una chiave per rileggere tutta la sezione (e l’opera poetica di Fiori nella sua interezza) ci viene della poesia Totem: «Sgorga e scorre la vita, / ma sta / rigida come un tronco secco, / l’origine.»

Il libro si chiude con Due allegorie che ribadiscono una spiccata preferenza (amore?) per le forme chiuse, cristallizzate, massimamente riconoscibili. Al circo e Scivolo sono sempre scene di vita, cose viste in una giornata qualsiasi, pronte a concretizzarsi in un concetto che qui sembra essere quello della sacralità dell’infanzia, con accenti che potrebbero mettere d’accordo Giacomo Leopardi e Giorgio Gaber.

Fiori non è un nuovo crepuscolare e la sua poesia non può rimanere, metaforicamente, un parlare al muro (titolo di un suo libro del 1996, contenente sedici poesie e otto tavole di Marco Petrus). La poesia di questo cinquantaquattrenne continua a presentarsi a noi come un esercizio, nel senso più ricco del termine: non si popola di belle parole, situazioni curiose, sentimenti improbabili. Piuttosto prepara, allena a vivere nelle cose. Talvolta avvicinare un pittore a un poeta può rivelarsi interessante e utile. Ecco: leggere La bella vista con in mente certi quadri di Giorgio De Chirico può divenire un esercizio significativo. E viceversa.

mercoledì 22 febbraio 2012

"Perciò veniamo bene nelle fotografie", il romanzo in versi di Francesco Targhetta



Francesco Targhetta ha scritto un "romanzo in versi", come recita il sottotitolo della copertina minimal di Isbn edizioni. Già qui ci si potrebbe trattenere a lungo. Ma la bellezza di questo libro è nel suo stare serenamente e spensieratamente incollato in questa forma abbastanza rara. Perciò veniamo bene nelle fotografie (Isbn edizioni, pp. 248 - ma pagine di versi, perciò è un libro breve, un libro breve bello, perciò ne scrivo -, euro 19,90) è un titolo che nasce spontaneamente dal fatto che "non si muove nessuno qui", a richiamo, strategico per la narrazione, di quell'immobilismo che diventa specchio di un'angoscia impastata di ironia crepuscolare. L'autore è poeta, il suo libro dal titolo programmatico e bino di Fiaschi è sicuramente incubatore di questa scrittura che oggi possiamo apprezzare più estesamente. Non da ultimo è un eccellente curatore. L'esperienza del dottorato (nella vita in italianistica), chiamata in causa a più riprese nel romanzo (anche se qui il dottorato è di storia), nel suo caso è sfociata in una curatela de Gli aborti di Corrado Govoni per l'editore San Marco dei Giustiniani. Targhetta rimane poeta anche qui, nel romanzo: cercate certe rime interne irresistibili, certi innesti lessicali inaspettati che allargano il vocabolario senza mai essere stucchevoli (anzi, con una naturalezza che a tratti ha dell’incredibile), sentite battere i piedi metrici del suo verso, quando questo libro vi esploderà tra le mani, negli occhi e nei ricordi, meglio ancora se con l'autore condividete anche l'anagrafica oppure se avete figli nati in quell'epoca (Targhetta, trevigiano, è del 1980 e nella fenomenologia delle merendine che ci regala potrebbe riconoscersi trasversalmente una generazione, magari ridendo, sorridendo, forse un po' amaramente).

Pensavo a un testo dei Massimo Volume mentre mi avviavo a rapide falcate alla fine della lettura. Da qui, album Lungo i bordi del 1995 (precisione d'obbligo, l'autore è anche una felice penna di cose di musica): "Vivo in un posto dove tutto quello che accade / sembra accadere per caso / Una strada attraversa il paese / Il paese è quella strada / Nessuno ha scelto di vivere qui / Ma c'è qualcosa che ci trattiene / Perché anche se non c'è amore / a volte / a volte c'è qualcos'altro." Credo sia accaduto per quell'incatenarsi di luoghi e amore, di casualità-strade-vie (con una precisione toponomastica e topografica al millimetro), il senso di una fuga-rivolta etica e generazionale strozzata e quel "qualcosa che ci trattiene", nonostante l'assenza dell'amore, del lavoro (amore e lavoro, temi portanti e combinati nella tradizione musicale e poetica italiana!). L'amore non è protagonista in questo romanzo in versi, eppure è continuamente presente, quasi come calco, nei racconti della vita d'appartamento, negli angoli e negli scorci patavini, nei tramonti intravisti tra i palazzoni, nelle impeccabili descrizioni degli appartamenti universitari (provate a dire se non è così, mai due bicchieri uguali nello scolapiatti, certi cibi, certi odori), nei racconti delle chiacchierate con le puttane, nel battere e descrivere palmo a palmo la provincia trevigiana per una supplenza di terza fascia, nelle intersezioni con la musica (grande protagonista) suonata, ascoltata o comperata come il cd degli Wire prima di un ricevimento genitori.

Provate a leggere questo libro, provate a vedere se non riconoscete un urlo strozzato, quasi un'imprecazione contro le devastanti bettonelle che hanno soppiantato ovunque i sassi (…"le bettonelle ci annienteranno" / dirai allo psicologo un giorno), nei ferocissimi rapporti di vicinato, nell’aggressiva edilizia residenziale (in prosa abbiamo visto qualcosa di analogo nei temi, ma profondamente differente negli esiti, nel bel libro di Giorgio Falco, L'ubicazione del bene). C'è uno sguardo del poeta-romanziere tutto da scoprire su case, strade, palazzi, tramonti, segni della Prima guerra mondiale (quasi un palinsesto) mescolati magari a insegne di mobilifici prossimi al fallimento. E c'è sicuramente il rapporto con la generazione che è venuta prima, quella di padri e madri premurose che però hanno contribuito allo squasso. E non c'è psicanalisi che tenga qui, nemmeno tra generazioni, anche quando l'incontro tra queste avviene in quello strano crocevia che diventa una sala insegnanti. Per chi conosce queste zone del Veneto alcuni passaggi diventano presto indimenticabili. Come questo:

Percorrendo la statale per Feltre
all'altezza di comuni dipinti
di cartelli stradali, puoi trovarti,
sopra un cavalcavia, alla stessa 
altezza della scritta IperLando,
subissando mobilifici dismessi
che mimano, su sfondo prealpino, 
scenografie di film canadesi:
              senti, come una pioggia,
dall'auto e il finestrino abbassato,
il sapore del pino e della gaggia
mescolarsi al tarassaco di marzo, 
al bicarbonato, al denso smog
screpolato sui muri
e su case con parabole in terrazzo,
        e poco vale leggere 
pubblicità per averne indicazioni
sulla propria dispersione, perché
siamo dappertutto, ma più che altrove
nei bar per gli immigrati, in cabine
telefoniche reduci di guerra,
negli aerei di compagnie low cost
che falliscono nel pieno di un volo,
e ci sovrastano, a qualunque ora,
facendo angoli di quaranta gradi
   con i nostri tragitti provinciali -
ma essere fiacchi è un lavoro per altri, 
che a farlo ci troveremmo spacciati,
come gli uccelli contro le barriere
                   lungo le tangenziali.
Perciò percorri queste praterie
di outlet e benzinai self service:
per andarti a conquistare, al di là
di quaranta chilometri
             di frazione secessioniste,
uno spazio per caso svuotato
da una prof ruzzolata dal bus.

C'è anche un saper stare in equilibrio nel non facile tema del precariato in questo bel libro. Non era facile e va riconosciuto il merito all'autore di non aver impattato sul precariato zigzagante tra università e supplenze. Il terreno era scivoloso, il marketing del precariato, così vivace in ambito editoriale, era in agguato e solo la verità di certi versi l'ha aggirato, magari tornando spesso su quello che rimane, su quel che rimane ad esempio di un’amicizia:

   Dal treno, delle volte, come dalle
provinciali più trafficate, vede,
Teo, quei negozi di sculture
e di statue da giardino,
            i padri Pio con il dito punitivo,
            un putto che piroetta su cornucopie
            portafiori, le ninfe neoclassiche,
            e ancora anfore, vasi e colonne,
e gli cresce, furtivo, il sospetto,
                                   che sia meglio
stare fermi così, immobili, dentro
            e fuori, e poi, magari,
qualcuno si accorgerà com’è brutto
sanguinare, di nascosto,
     come le madonne.

La caduta verticale di questi versi che parlano ai sensi è in realtà un viaggio orizzontale nello spazio di una regione e di una ragione che fatica a collocarsi, a trovare il proprio adattamento ad un presente dalla pelle strinata, dove manca lubrificazione in tutti i gangli, è un’immersione in poesia e in storie che ci riguardano da vicino. Forse, se leggiamo questa bella sorpresa editoriale di inizio anno, anche noi

[…]      tutti torniamo a casa
    con le vene degli occhi
  che si abbinano meglio ai fanali
                   dei tram.

giovedì 16 febbraio 2012

"Le cose che dico adesso" di Alberto Garlini

Ripescaggi #10











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Un ripescaggio, ancora una volta di poesia. Il libro di Alberto Garlini Le cose che dico adesso (Nuovadimensione, 2001, pp. 75, euro 8,26 euro, con una prefazione di Claudio Damiani) fu una piccola rivelazione all'epoca in cui lo lessi. Questa recensione, mi par di ricordare, uscì una decina di anni fa sulla rivista Tratti.
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«Parto dalla concretezza di un sentimento, più spesso degli altri quello amoroso e poi dilato lo sguardo, noto le interferenze, le relazioni. Ogni cosa parte da un movimento vettoriale che va da me alle cose, c’è bisogno di questo movimento, che non è nemmeno un dialogo, ma un aspettare e lasciarsi invadere». Così Alberto Garlini parla, nel numero 3 della rivista daemon, di alcune sue poesie, ora uscite col titolo Le cose che dico adesso nella collana di Nuovadimensione diretta da Gian Mario Villalta. A considerare l’imbarazzo e il pudore che, per altri poeti, esiste in simili tentativi di spiegazione del proprio lavoro, dobbiamo dire che il nostro appare in possesso di un’invidiabile consapevolezza. Non è difficile convenire con l’autore, da lettori.

Mettiamo a confronto le parole dell’autore con un pezzo dalla prefazione di Claudio Damiani e cerchiamo di farle reagire assieme: «La pace delle cose, ci dice Alberto, è qualcosa forse di nostra invenzione. Le cose sono in pace perché stanno, sono prima e dopo di noi, ma la loro quiete è apparente. In realtà si muovono, è come un pulsare, un respiro […]».
Damiani centra giusto un aspetto primario della poesia di Garlini: la pace, o meglio, il rovistare della poesia attorno ad una possibile comprensione della pace: «Tutte le immagini che mi vengono incontro / sono col sole la strada che porta a Latisana. // La visiera del cappello dell’operaio abbronzato, / il mazzo di fiori appoggiato al platano bianco. // Insieme se le vedi sono cose che brillano. / Insieme sono tutto il dolore del mondo. // Stanno qui intorno e sembrano in pace.»

I titoli delle sottosezioni di cui questo libro è composto ci conducono a un aspetto centrale della poesia di Garlini: Ricordi, Nomi, Luoghi, Istanti, non sono altro che indici di ciò che ha portato queste poesie a manifestazione. Il poeta non armonizza disparate e disordinate percezioni (ricordi, persone, luoghi, ecc…) che giungono come un’onda. C’è qui un lasciarsi invadere più che un evadere dalla realtà. Diventa centrale,  necessariamente, l’assetto metrico che serve a trovare e regolare la giusta ampiezza, la frequenza, il periodo di quest’onda entrante e invadente.
La poesia di questo parmense (ma friulano d’adozione, da parecchi anni) sembra voler procedere con una ricerca metrica peculiare (a tratti ricorda la lassa pavesiana), attenta all’accostamento di unità che potrebbero ricordare i piedi latini. Questo senza voler trovare una definizione, ma, più che altro, per segnalare una direzione, una cadenza che possa accompagnare la lettura di questi componimenti. « […] Siamo gli stessi spazi che abitiamo, niente di più e di meno, / il pallone che segue la sua traiettoria nell’aria / e oltre il corpo. Qualcuno grida se da lontano lo tocco. // Le cose viste scompaiono in fretta / ricordandole immaginiamo ciò che non siamo.»

Questo spunto metrico ci permette di parlare anche di questa poesia come un piccolo tentativo di lasciarsi alle spalle certa modernità novecentesca. E c’è bisogno oggi di questo tipo di tentativi, tanto più se appaiono promettenti e riservano ampi spazi all’accoglienza di dinamiche aderenti a una stretta riorganizzazione (non armonizzazione) del vissuto:  «E se volevo giocare, allora ho giocato / ma come restando indietro alle cose della vita. / Non ho l’equilibrio di quelli che si immischiano / ci sono ancora parole che non dico per rispetto. // Preferirei che tu restassi a vedere i nostri sguardi, / solo loro, nel racconto che costruiamo la mattina, / il parcheggio, il cotone, lo specchio della vecchia credenza, / la candela spenta che è rimasta lì. Il sonno sui corpi. // Pensavo l’altra sera di essere felice nel miracolo, / ma la strada che faccio la devo fare e serve coraggio, / l’orologio ticchetta la notte più forte dei respiri. // Non voglio rattristare la vita degli altri. // Scendere fuori da qui, sul ghiaietto, e la radio / per non pensare alle cose che non ci sono, a quello / che si dice ma non è detto. Cadere da solo.»

Sarebbe assurdo cercare di parlare di questo libro solo in riferimento a certe caratteristiche metrico-linguistiche e a certe pesantezze novecentesche che Garlini cerca di superare (anche perché sarebbe corretto elencare quest’eredità del secolo scorso con precisione). È però vero che con in testa questi, seppur vaghi, pensieri, possiamo apprezzare meglio angolature e rilievi della sua scrittura ed entrare, è il caso di dirlo, nella sua frequenza d’onda:  «La mano sopra il piede continua la preghiera, la spezza. / La lingua assieme al tempo di me dietro che stringo la pelle. // Ho tenuto la mano sul piede una sera d’ottobre, intera. / Era lei che correva, colava il cielo giallo, la maglia con la lana. // Prima al bar studiavamo i modi alti dell’alba per darci piacere.»

venerdì 10 febbraio 2012

Dova va la cultura europea? Il "magistrale rendiconto del raduno suizo" di Gianfranco Contini

Anno 1946. Il mondo della cultura si raduna a Ginevra per la prima edizione dei "Rencontres internationales", iniziativa nata sulla spinta di un gruppo di intellettuali ginevrini consapevoli della non procrastinabilità della ripresa del dialogo in un continente sdrucito. Per l'Italia c'è un cronista d'eccezione, Gianfranco Contini, che trascriverà un "magistrale rendiconto del raduno suizo" (le parole appartengono a Montale e si ritrovano nel carteggio di Eusebio e Trabucco) per la "Fiera letteraria". Il breve ma densissimo testo era ormai addormentato nei ripostigli del passato. Fu il compianto Michele Ranchetti, durante un appuntamento al centro studi Fortini di Siena, a suonare la sveglia sull'importanza di quel contributo pressoché dimenticato. E così, come ricorda Luca Baranelli nella nota introduttiva, questo volume (Quodlibet, pp. 64, euro 9) diventa anche l'omaggio della casa editrice di Macerata al "suo" Ranchetti (di Ranchetti è la cura della collana Verbarium, dove trovarono posto gli scritti di Renato Solmi, oggi purtroppo difficilmente reperibili).

Sono molti i punti che l'intelligenza critica del trentaquattrenne Contini sfiora nel suo breve reportage-analisi. Inizialmente ne ricavo tre. 1) Si inizia con l'incredibile e ingenua mancanza della politica in un congresso che si definisce dedicato allo "spirito europeo", quasi la cultura trovasse nella propria giustificazione "un alibi e un pretesto all'inazione". Qui, nel mettere il dito nella piaga, Contini conclude che "sarà lecito senza peccato di demagogico vocabolario chiamare reazionaria una cultura che, giunta alla sua presa di coscienza, si rifiuti di convertirsi in azione". 2) Scandalosa è poi l'assenza di Cristo inteso come logos: se "Cristo non è cultura", come affermava Carlo Bo in Italia, "è un po' più grave che la cultura non sia Cristo" replica Contini. 3) E quindi c'è l'incapacità, colta subito dal grande critico, di sollevare e mettere in evidenza il senso profondo delle esperienze resistenziali e del loro significato radicalmente "religioso".

Il libretto allora diventa oggi un pungolo, un dito puntato sul tema perdurante della vera o presunta decadenza europea, tema che affonda radici in pensatori ormai distanti decenni se non secoli. Contini, che ha da poco concluso la lotta partigiana dell'Ossola, sa come far vibrare una prosa che si apre in molteplici direzioni ed è persino in grado di captare a caldo il senso ultimo del sacrificio della stagione resistenziale appena terminata, di metterlo in relazione con quello "spirito europeo" che avrebbe dovuto essere il filo conduttore dell'incontro ginevrino; e lo sa fare probabilmente molto meglio - dalla sua "semplice" postazione di cronista - di tante affermate personalità chiamate a relazionare in quel primo appuntamento dei "Rencontres". In questi passaggi chiave si comprende meglio l'invito di Ranchetti a ripubblicare questo scritto, angosciosamente attuale. Se il tema della decadenza d'Europa si trascina da tantissimo tempo, solo oggi pare che il declino economico in atto sia davvero un declino in primis culturale. L'Europa dovrebbe semplicemente chiedersi dove sta andando, ma non lo sa fare, non sa porsi le giuste domande. Sono discorsi noti: se l'idea di nazione è forse giunta al capolinea, almeno sotto certi aspetti, se il tarlo persistente di un certo nazionalismo rischia di combinare seri danni anche nell'Europa attuale, è altrettanto vero che a oggi non si profila all'orizzonte alcuna alternativa desiderabile (tant'è, ad esempio, che stiamo rivivendo oggi l'eterno e mai risolto problema geopolitico del centro). Le stelle di maggiore magnitudine sono senza dubbio Lukács e Jaspers, richiami diretti ai fari del Marxismo e dell'Esistenzialismo (a proposito di esistenzialisti, gustosa l'uscita di Croce che, invitato e messo di fronte ad una possibile calata di Sartre sul suolo ginevrino, si domandò: "E allora che ci andiamo a fare?" unita a una profonda diffidenza di Contini verso l'esistenzialismo italiano). Pur scomponendo le aporie e insostenibilità di certe posizioni di entrambi, e pur prendendone anche le distanze, il giovane critico è saldamente con Lukács.

La lettura è anche opportunità di scoperta di un Contini che, in seguito, faremo più fatica a ritrovare. Si dimostra infatti un narratore e ritrattista insospettabile, brillante, che con pochi tratti restituisce visi, capigliature e posture dei principali protagonisti: Francesco Flora rappresentante per l'Italia, Julien Benda che nell'entre-deux-guerres aveva scritto proprio del rapporto tra intellettuali e potere ne La Trahison des Clercs, riedito proprio in quel 1946, i già citati Karl Jaspers e György Lukács, lo stucchevole George Bernanos definito addirittura "clown perfetto" o "energumeno", Maurice Merleau-Ponty, il futuro direttore dei "Rencontres", Jean Starobinski, o l'inglese del gruppo, Stephen Spender, al quale è dedicato un importante paragrafo. Tutto ciò rende la lettura ancora più memorabile. Se poi aggiungiamo l'entusiasmo delle riscoperte che la buona editoria sa ancora regalare, capirete perché stiamo parlando di un libro la cui importanza oggi è inversamente proporzionale al volume occupato. Ma ricordare cosa rappresenti Contini per la cultura italiana ed europea è lavoro sterminato e non è cosa qui fattibile (basti però ricordare la sua formidabile fucina di allievi, con in testa - almeno per chi scrive - una figura raramente ricordata nei dibattiti ma eccezionale come Giovanni Pozzi, che si spinse a definire questo breve contributo cronachistico un moderno "conte philosophique"). Questo libello ci consente di capire perché a trentaquattro anni il giovane Contini si candidava ad una posizione di grande rilievo nel panorama europeo anche sul versante politico: "come non accorgersi che un certo culto di Virgilio (della bellezza immobile, prodotto oggettivo, con sede fisica) ha correlati politici inevitabili?". Proprio su questo versante, già pressante in questa precoce cronaca svizzera, ritorna Daniele Giglioli nel contributo che chiude il volume, intitolato "Pedagogia della forma". In tutte queste pagine aleggia il profumo di quel fiore reciso che fu, in Italia, il Partito d'Azione, l'eco di quei vagiti che preludevano a un lavorio dinamico sui valori, sulla dialettica a essi collegata e collegata persino a quella "critica degli scartafacci" o "critica della varianti" che ha reso celebre il lavoro del Contini critico. Un lavoro che, per ritornare brevemente al "religioso" di cui sopra, si collega persino all'etimo forse più attendibile di religio, che, come ricorda Giglioli sulla scia di Benveniste e del suo Vocabolario, può essere ricondotto a relegere (Cicerone) anziché a religare (Lattanzio, Agostino). "Religioso" come contrario di negligente quindi. Come ricorda opportunamente Giglioli, religiosità come aver cura, come fuga dalla trascuratezza e quindi come responsabilità.

Dove va la cultura europea? Un titolo-domanda che dovrebbe, oggi come allora, provocare una scossa tellurica.

(Interessante questa pagina web del sito dei "Rencontres Internationales de Genève", con la possibilità di download dei pdf degli atti delle varie edizioni.)

sabato 4 febbraio 2012

Quell'incantatore di Nabokov













In molti - e non soltanto in Italia - attendiamo le sue Lectures on Literature per poterlo leggere diffusamente su Austen, Dickens, Flaubert, Stevenson, Kafka, Proust e Joyce. L'edizione critica in inglese dovrebbe essere in orizzonte (per ora si trova solo quella di inizio anni Ottanta con la prefazione di John Updike) e si presume verrà prontamente tradotta in italiano e, quasi certamente, un po' ovunque. Nel frattempo, tuttavia, non mancano le proposte o riproposte di libri più o meno noti dell'entomologo collezionista di farfalle nonché autore di Lolita. Si attenua così, almeno in parte, quest'attesa ormai prolungata del Nabokov critico. L'incantatore (già per Guanda nel 1987, ora uscito da Adelphi, pp. 116, euro 14 in una versione rinnovata sempre a cura del figlio Dmitri) non avrebbe dovuto esistere. Si tratta del classico libro che nella testa di un autore è distrutto per sempre e invece riappare tra le carte, a distanza di decenni. 

Stavolta vorrei parlarvi di un libro raccontandovi delle sue vicissitudini che sono tanto curiose e importanti quanto la narrazione di questo triangolo tra un uomo dell'Europa Centrale, "un'anonima ninfetta" e la figlia dodicenne di questa. Il libro, una sorta di pre-Lolita come Nabokov stesso ebbe a dire, prende forma nel 1939 a Parigi, in russo, lingua nella quale Nabokov scrisse per molti anni prima di abbracciare l'inglese (lingua della sua prima governante a San Pietroburgo e lingua dell'esilio universitario negli Stati Uniti). Nabokov ci racconta, nella nota del 1956 posta in apertura, che lesse il racconto in una notte di coprifuoco "foderata di carta azzurra" (precauzione antiaerea per oscurare le finestre) a un gruppo d'amici. Non piacque e fu per questo che distrusse il manoscritto. Questo racconto, che nelle parole dell'autore costituisce il primo "palpito" di Lolita, non abbandonò mai del tutto Nabokov, che, sempre nel 1956, lo ricordava più breve, di una trentina di pagine appena. Quel palpito tornava comunque a visitare Nabokov che, in inglese, si stava accingendo a scrivere l'opera sua più nota:

[...] La ninfetta, che ora aveva sangue irlandese nelle vene, era più o meno la stessa ragazzina, e permaneva anche l'idea di fondo del matrimonio con sua madre; ma per il resto era una cosa nuova, a cui erano cresciuti in segreto gli artigli e le ali di un romanzo.

L'unico esemplare superstite de L'incantatore comparse nel 1959 in una sessione di riordino di carte e schede condotta assieme alla moglie Véra. Nel frattempo Lolita era già stato scritto (in inglese) e pubblicato (in francese) per le edizioni Olympia Press di Parigi nel 1955. Le pagine dell'esemplare superstite non erano 30 bensì 55. Nabokov, nella nota datata 1959, ci racconta di aver riletto immediatamente e con grande piacere quel "bel brano di prosa russa, preciso e limpido, che con un po' di attenzione potrebbe essere reso in inglese dai Nabokov". Cosa che fece il figlio Dmitri con la versione inglese del 1986 e quella italiana, già citata, dell'anno successivo.

La storia di questo Ur-Lolita la lascio al lettore. Stavolta mi interessava restituire qualcosa che ha a che fare con il destino e i percorsi dei libri, spesso avvincenti come poche altre storie. E, data la brevità del libro, vi consiglio di non tralasciare la nota finale di Dmitri Nabokov, che ci aiuta ad entrare nelle traversie di un traduttore e curatore d'eccezione.