sabato 31 marzo 2012

da "I begli occhi del ladro" di Beppe Salvia

Una poesia da # 1

Un anno fa partiva questa cosa che ho chiamato Librobreve. Forse è tempo di rinnovare la formula, innestare nuovi modi di postare, di tornare più spesso alla poesia, ad una poesia di volta in volta proveniente da un libro breve che citerò e, quando non appartenente a un poeta italiano, proposta in una traduzione che sarà sempre specificata. Un modo di postare rapido, per riprendere in mano poesie, singoli libri (di recente pubblicazione, passati oppure fuori commercio) e occuparvi lo spazio di lettura di un oroscopo mattutino.











Era diventato difficile trovare le poesie di Beppe Salvia, poeta romano morto prematuramente, il cui nome è indissolubilmente legato a quella fondamentale stagione di poesia sorta attorno al calore della rivista "Braci", da lui fondata nel 1979. Fortunatamente, qualche anno fa, rimediò la casa editrice Il ponte del Sale di Rovigo, assieme a Pasquale Di Palmo. Il libro I begli occhi del ladro (pp. 160, 2004, euro 13) fu un'antologia importante, che interruppe un silenzio durato anni su uno dei più interessanti poeti italiani.

Beppe Salvia, I begli occhi del ladro, Il ponte del Sale, 2004










"Sillabe"

Adesso io ho una nuova casa, bella
anche adesso che non v'ho messo mano
ancora. Tutta grigia e malandata,
con tutte le finestre rotte, i vetri
infranti, il legno fradicio. Ma bella
per il sole che prende ed il terrazzo
ch’è ancora tutto ingombro di ferraglia,
e perché da qui si può vedere quasi
tutta la città. E la sera al tramonto
sembra una battaglia lontana la città.
Io amo la mia casa perché è bella
e silenziosa e forte. Sembra d’aver
qui nella casa un’altra casa, d’ombra,
e nella vita un’altra vita, eterna.




martedì 27 marzo 2012

"Al limite boschivo", tre racconti di Thomas Bernhard

Questi tre racconti di Bernhard uscirono nel 1969. In Italia fu Guanda a proporli, nel 1981, poi Bernhard divenne quasi interamente un autore conteso tra Adelphi e SE, con qualche incursione einaudiana. A inizio anno Guanda però è tornata in libreria con un bel dittico,  e i tre racconti contenuti in questo Al limite boschivo. Entrambi brevi, entrambi belli. Nel primo caso è curioso constatare la riproposizione del libro semplicemente ri-titolato (precedentemente era uscito nella traduzione di Claudio Groff con il laconico titolo originale di Ja... titolo che si comprende soltanto all'ultima parola-sillaba del libro), mentre nel caso de Al limite boschivo si tratta di una riproposizione della traduzione di Enza Gini (pp. 80, euro 10) di tre racconti che, assieme a Perturbamento, furono tra i principali volani del decollo di Bernhard nel nostro paese. In questi brani c'è già molto del narratore (ma anche prolifico autore teatrale) che magari avrete letto altrove, soprattutto in quel mutuo relazionarsi tra luoghi chiusi e luoghi aperti, in cui l'autore austriaco, a mio avviso, offre gli esiti più alti della prosa. E questo che accade anche in Kulterer, il primo racconto, in cui l'omonimo protagonista, carcerato modello, vive il vuoto e l'angoscia degli ultimi momenti di reclusione, ne L'italiano, dove al centro ci sono le relazioni dietro le quinte di un funerale celebrato in campagna e infine nel terzo racconto, che offre il titolo al libro e che rimanda a un tema ricorrente in Bernhard, quello del suicidio (tema sin troppo "facile" per l'autore della distruzione e dell'autodistruzione). Il tema del suicidio poi unisce idealmente il dittico di libri di cui dicevo in apertura, compreso quindi quel Ja/che ritrova nei boschi, nelle passeggiate, nell'interazione tra aperto e chiuso, nel senso dei luoghi, una delle cifre più interessanti ascrivibili a Bernhard.


Assomigliano ai boschi alcuni libri di questo autore sospeso tra ossessioni tautologicamente ricorrenti e riuscite variazioni: proprio come nei boschi accade tutto, di tutto, quando apparentemente non accade nulla. Così come c'è un mondo - il mondo - nella ripetizione di un gesto abitudinario, o nel conteggio dei passi (tema ripreso da uno dei più celebri ammiratori italiani di Bernhard, Vitaliano Trevisan). Luoghi che assomigliano spesso a istituzioni totali goffmaniane (anche quando non lo sono), istituzioni che ritornano nei suoi libri (qui nel racconto di Kulterer, altrove, ad esempio, nell'ospedale de Il respiro). 


Ancora oggi, a leggere e rileggere Bernhard, possiamo rimanere toccati nello spirito, dall'incedere cronachistico che, con una regolarità impressionante, non di rado sconvolge e squassa e possiamo rimanere tramortiti dall'incontrarsi-scontrarsi-evitarsi dei protagonisti della sua prosa. E tutto avviene in uno spazio che ha i contorni, la luce, i muri, le planimetrie e l'odore ipotetico di prigione, dove progressivamente sembra venir meno il respiro e il passo (i passi) e dove pare salvarsi soltanto la scrittura, come ricordava Aldo G. Gargani (inciso: un filosofo che ho avuto la fortuna di conoscere e di cui mi pare si parli troppo poco, nonostante la morte tutto sommato recente). Nel suo La frase infinita. Thomas Bernhard e la cultura austriaca ci si avvicina a questa forma di salvezza nella scrittura. Aggiungerei che, all'inverso di una lezione latamente espressionista, non scorgeremo mai il grido o l'urlo nella disperazione di questo autore, piuttosto un inspiegabile credito offerto al racconto e allo scrivere, all'affermare a tratti quasi didascalico, come quei sottotitoli dei romanzi ai quali ci ha abituato, come l'effetto prodotto dai "raccontini" de L'imitatore di voci. 


Bernhard è oggi un autore da leggersi accanto a Handke. I due sono molto lontani ma sembrano illuminarsi reciprocamente, se avvicinati. Tra i due giganti austriaci ci sono sicuramente molti aspetti interessanti da chiarire e confrontare, anche se per il pubblico italiano non sono ancora disponibili studi dedicati di una certa consistenza. Sembra impossibile, con tutto quello che si pubblica. Ma così è.

mercoledì 21 marzo 2012

L'antologia poetica dedicata a Franco Zagato

Ripescaggi # 12


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Una recensione che non ricordo bene dove uscì. Rimane comunque una recensione di un bel libro, giustamente dedicato a un poeta e traduttore da molti dimenticato: Franco Zagato, Antologia poetica, Amos Edizioni, 2003, € 10,00.
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Un libro “che ferma un percorso poetico durato cinquant’anni”. Così l’editore nella breve nota che introduce alla lettura di questa antologia di Franco Zagato (1937-2000). Una nota di un amico, che però non deve far passare in secondo piano il merito dell’importante iniziativa di questa giovanissima casa editrice veneziana (www.amosedizioni.it). Da tempo, infatti, trovare i libri di poesia di Zagato era diventato pressoché impossibile.

Chi era Franco Zagato? Fu anche scrittore e giornalista. Traduttore di Marziale, Federico Garcia Lorca, Rafael Alberti e Gregory Corso. Una collocazione precisa di Zagato poeta viene dalla curatela e dalle note di Giovanni Turra, che ci ricorda, dapprima, “il saldo con l’ermetismo”, l’apertura a esperienze europee e d’oltreoceano (Garcia Lorca e Ginsberg) in una seconda fase, e, infine, “l’adesione di Zagato a una poesia che sia espressione di un’appartenenza a una collettività, nel segno del miglior Pasolini (quello del dialetto e de Le Ceneri di Gramsci)”. In questo quadro delineato da Turra, c’è tutta la profondità attraversata da Zagato nella seconda metà del Novecento.

Fu poeta utopista: «Rigira la parola nel silenzio / e trasfigura il vortice girando / dal ventre delle origini remote / per ritrovare il suo essere eterno.», attacca Mi sto convertendo (in folla). E tuttavia fu poeta quant’altri mai vicino a toccare con mano il senso dell’impossibilità: «Se avessi ancora tempo / (quello sprecato / nella giovinezza!) / non ricomincerei. / Il solito bivio / nel migliore dei casi / strade parallele / che non si possono incontrare. / Come scelte dolorose / ogni-qual-volta-quando / il perdere e pagare / è condizione dell’avere. / Eleggere l’indifferenza / ma camminando in fretta, / capire quando è tempo / per non dover tardare / (l’anticipo è una perdita / e l’attesa logora sempre). / Se avessi tempo-tempus-vitae / forse ritornerei / camminerei il cammino / gli stessi passi / le stesse esitazioni. / Da un capo all’altro / inutile rincorsa / per non giungere mai.» La poesia, costruita a partire da due fortissimi adynata (figura dell’impossibilità, per l’appunto), contiene molta dell’amarezza e della riflessione poetante di Zagato e offre stilisticamente un’interessante pagina, dove è possibile scoprire l’interesse per le figure etimologiche e per quel “pluriliguismo ardito” evidenziato dallo stesso Turra. Una poesia per accordarci su quella voce, su quell’ironia e quell’“animo, sensibile e tenero, offeso da un amore impossibile” (Dario Bellezza).

giovedì 15 marzo 2012

Introduzione a Darwin di Telmo Pievani per "I filosofi" di Laterza

Piccola topografia libraria-sentimentale: nel mio incedere disordinato, farraginoso e maldestro tra le letture, comprese quelle di scienza e filosofia, ho sempre riposto non poche aspettative in una collana come “I filosofi” di Laterza. Credo si possa serenamente affermare che alcuni volumi sono riusciti più di altri; resta il fatto che, per chi non ha la possibilità di leggere e capire da solo le Enneadi di Plotino o tutta la produzione di Cassirer pur volendo avvicinarla per i più disparati motivi, questi libri, solitamente contenuti nelle dimensioni, possono costituire un buon "bignami" (così come non mi vergogno a dire che certe voci di Garzantina sono ancora insuperate per cura, sintesi e completezza). Per questo, non di rado, sono ricorso a questi libretti color arancione-antinfortunistica (oggi forse faticheremmo ad accettare questo colore, ma quella scelta audace di puntare su questo colore acceso fu forse una lungimirante mossa - vincente, si presume - di marketing editoriale).

Il numero 100 di questa collana, Introduzione a Darwin (di Telmo Pievani, pp. 194 con il consueto apparato cronologico, di storia della critica e della ricezione in Italia, euro 12), potrebbe fare persino notizia. Intanto 100 è un bel traguardo per una collana che prevede dei titoli che forse faticano a raggiungere il break-even entro un mese e mezzo dalla comparsa in libreria. E poi, Darwin filosofo? Già. Filosofo della scienza, filosofo della biologia. Filosofo. Chissà se tale scelta editoriale sarebbe stata possibile soltanto dieci anni fa. Oggi, attorno alla sua figura, si versano fiumi di inchiostro. Figura controversa, facile oggetto di fraintendimenti e strumentalizzazioni, Darwin necessitava di una collocazione sicura, come questa, lampante come il color arancione di quelle copertine. Colui che ha mutato radicalmente il nostro modo di intendere la natura, lasciando per strada una teoria potente e una serie impressionante di intuizioni, le quali si stanno rivelando via via di grande fecondità euristica, è per forza di cose filosofo.

Appurata quindi l’opportunità della mossa editoriale, che neanche troppo implicitamente suggerisce un potenziamento della presenza di Darwin nei programmi scolastici (proprio quando da più parti – mondo cattolico, seguaci dell’intelligent design ecc. - si cerca di mettere in discussione o addirittura ostacolare questa presenza), rimane da rassicurare sulla bontà del curatore del volume. E non spetta certo a me farlo, ma semplicemente ribadire quest'affidabilità, visto che Pievani ha dedicato a Darwin studi così larghi e approfonditi che probabilmente, per lui, la vera sfida costituita da questa pubblicazione sarà stata la sintesi nel format rigido e collaudato di questa collana. Pievani aveva comunque già dato prova di essere ottimo divulgatore con il libro Teoria dell’evoluzione uscito per un'altra collana di divulgazione, “Farsi un’idea” de Il Mulino.

Il libro si percorre con un viaggio (metafora ficcante, trattandosi di Darwin!), si osserva come un albero da ammirare dalla radice alla punte estreme dei rami, nel susseguirsi delle stagioni del pensiero darwiniano e, nella scrittura, nel susseguirsi di paragrafi brevi, chiari, raggruppati in capitoli che segnano le tappe fondamentali dello sviluppo del suo pensiero e della sua teoria, fino alle aperture sul rapporto con la religione, ai legami con la critica, al neodarwinismo e alla sintesi moderna del suo pensiero. Un viaggio, dicevo, uno spostamento che come tutti i viaggi più importanti lascia un'impronta significativa e probabilmente irreversibile nel nostro modo di ragionare e vedere la natura. Nuove sono le aperture di Pievani ai testi meno noti della produzione darwiniana, spesso legati proprio ai suoi viaggi, come i diari, i taccuini, le lettere. Un universo ancora non del tutto esplorato sul quale una buona Introduzione, come è giusto che sia, getta con decisione i primi coni di luce.

sabato 10 marzo 2012

Marco Belpoliti racconta "La canottiera di Bossi"

Recensioni rapide #4
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"Recensioni rapide": due paragrafi fissi dove cerco di rispondere brevemente alle domande "che libro ho davanti?" e "perché vale la pena/non vale la pena avvicinarlo?" (solitamente resto su quelli che vale la pena). 
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Appare quasi come un filone quello inaugurato da Marco Belpoliti. Qualche anno fa era uscito Il corpo del capo, libro dove il rapporto triangolare tra Berlusconi-corpo-fotografia veniva sviscerato in maniera esemplare, con gli strumenti che l'intelligentemente eclettico studioso sapeva mettere sulla scacchiera. Dopotutto a Belpoliti siamo tutti riconoscenti per studi fondamentali come Settanta, Doppio Zero, Crolli, la curatela delle opere di Primo Levi e, ancor di più per chi scrive, per quel magnifico progetto di rivista che è "Riga" per Marcos y Marcos. Il filone politico al quale mi riferisco è anche un filone "corporeo" che, sotto certi aspetti, si poteva intravedere già in un bel libro minuscolo apparso per nottetempo nel 2008, Le foto di Moro, dove l'autore partiva da un'attenta analisi delle foto dello statista democristiano diffuse dalle Brigate rosse. Se ci soffermiamo poi su un certa centralità del corpo, allora riusciamo pure a inserire il più recente Pasolini in salsa piccante, studio di Belpoliti che meglio di altri ha provato a riposizionare un intellettuale italiano tra i più controversi e imprescindibili, sopravvalutato forse in alcuni frangenti (per quel che mi riguarda penso soprattutto alla sua narrativa) e sottovalutato per altri (Scritti corsari e Lettere luterane). La canottiera di Bossi è allora quasi una logica conseguenza di questo percorso che allinea politica-corporeità-immagine-brand e restituisce il personaggio Bossi ad una certa tradizione iconografica (un capitolo si intitola "Marlon Brando a Varese"!), gestuale, antropologica (l'eterno Fascismo italiano di cui parlava Sciascia oppure la tradizione del "vitellone" italico).

Per chi ha letto Il corpo del capo questo libro fa il paio perfetto con l'altro emisfero dell'ex maggioranza politica di questo paese e ci avvicina a comprendere il fenomeno-Bossi con una strumentazione rinnovata. Non è scontato che uno studioso del calibro di Belpoliti si sia messo ad analizzare la figura di Bossi. Per troppi anni il fenomeno Lega è stato sottovalutato ingenuamente da un certa frangia di operatori della cultura o intellettuali, se tale parola ha ancora qualche senso oggi; poi abbiamo iniziato a vedere studi come quello di Ilvo Diamanti. Per chi ama Belpoliti si tratta dell'ennesima conferma del suo talento, come dicevo di una metodologia d'indagine mai ingenuamente eclettica. Per chi ha snobbato Bossi con imperdonabile sufficienza è un buon pretesto per riflettere, così come questo libro costituisce parimenti un buona occasione di riflessione per i molti fan del senatur. Insomma, non mancano certo i motivi per avvicinare La canottiera di Bossi (Guanda, pp. 105, euro 8.50).

giovedì 8 marzo 2012

Un'intervista inedita a David Foster Wallace di Ostap Karmodi

Recensioni rapide #3
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"Recensioni rapide": due paragrafi fissi dove cerco di rispondere brevemente alle domande "che libro ho davanti?" e "perché vale la pena/non vale la pena avvicinarlo?" (solitamente resto su quelli che vale la pena). 
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Ostap Karmodi è un giornalista russo che ha avuto la fortuna di intervistare il grande scrittore americano morto all'età di 46 anni nel 2008. Quest'intervista, ora edita da Terre di Mezzo (pp. 56, euro 5, traduzione di Sara Crimi), si dipana lungo il continuum tra arte e intrattenimento (mi verrebbe da chiedere: come parliamo di un autore come Simenon in questo continuum?), la situazione della letteratura americana, una certa ingenuità nella concezione della realtà da parte di tanta popolazione degli Stati Uniti. Ma l'interlocutore russo è per Wallace un'insolita spalla per avvicinare Tolstoj o Dostoevskij, più rapidamente Victor Pelevin, o per lasciare parlare il giornalista, in un gioco invertito e divertito in cui l'intervistatore diventa intervistato. Karmodi sa tenere un'intervista e sa rispondere quando intervistato...

Si tratta di un buon libretto per avvicinarsi a David Foster Wallace, se si è incuriositi dalla sua opera e se titoli come Infinite Jest, Una cosa divertente che non farò mai più o Brevi interviste con uomini schifosi non suonano nuovi, oppure un libretto perfetto per entrare in una dimensione interstiziale della sua riflessione se già vi siete avvicinati ai suoi libri. Quando ad esempio Wallace parla del lavoro di pittrice della moglie apre, nell'apparente tono dimesso della discussione, uno squarcio molto interessante, anche se poi non lo percorre fino in fondo. Vale la pena seguirlo quando racconta serenamente certe sue mancanze, del suo rapporto con le traduzioni, con i media e la percezione delle realtà locali del mondo rispetto al racconto dei media di oggi, dell'evoluzione morale. Forse trascurato dall'intervistatore il Wallace non meno interessante attratto dai sistemi formali, il matematico. Ma è anche questo un libro breve, come gli altri di cui si parla qui.

lunedì 5 marzo 2012

Altri 15 titoli in libreria

Librobreve in libreria #9

15 nuovi titoli, libri brevi e interessanti per 15 motivi diversi. Novità, riproposizioni in collane economiche come il caso di Don Delillo, poeti da seguire come Longega, dialoghi tra giganti come quello tra Xingjian e Magris, o lettere come quelle di Édith Piaf o quelle tra Paul Celan e "Teddie" Adorno. Libri che ci conducono in tanti posti. Libri che incrociano l'aspetto locale con accadimenti epocali, come nel caso del libro di Francesco Selmin, Nessun “giusto” per Eva – La Shoah a Padova e nel Padovano, edito da Cierre, al quale sarebbe bello dare il giusto risalto, il giusto peso. Il libro di Selmin affronta infatti le vicende degli ebrei padovani e del loro stazionare nel campo di concentramento di Villa Contarini Venier a Vo' Vecchio, sui Colli Euganei, una vicenda pressoché sconosciuta ricostruita dal lavoro impagabile di chi sa fare "storia locale" nel senso più ampio (e conseguentemente meno... locale) del termine. A dire la verità, a me sembra che a volte siano molto più "locali" certi libri di storia di largo respiro ma, sotto sotto, uccisi da un approccio stantio al loro oggetto di studio.















1. Andrea Longega, Finio de Zogar, Il ponte del sale
2. Imre Kertész, Io, un altro. Cronaca di una metamorfosi, Bompiani
3. Don Delillo, Punto Omega, Einaudi

4. Gao Xingjian, Claudio Magris, Letteratura e ideologia, Bompiani
5. Stefano Levi della Torre, Laicità, grazie a Dio, Einaudi
6. Helga Nowotny, Giuseppe Testa, Geni a nudo. Ripensare l'uomo nel XXI secolo, Codice
7. Julie Otsuka, Venivamo tutte per mare, Bollati Boringhieri
8. Alessandro Bertinetto, Il pensiero dei suoni. Temi di filosofia della musica, Bruno Mondadori
9. Francesco Selmin, Nessun “giusto” per Eva – La Shoah a Padova e nel Padovano, Cierre
10. Dino Buzzati, I miracoli di Val Morel, Mondadori
11. Édith Piaf, Mio azzurro amore, Archinto
12. Theodor W. Adorno, Paul Celan, Solo, con me stesso e le mie poesie. Lettere 1960-1968, Archinto
13. Czesław Miłosz, Trattato poetico, Adelphi
14. Marina Cvetaeva, Le notti fiorentine, Voland
15. Davide Sapienza, La musica della neve. Piccole variazioni sulla materia bianca, Ediciclo

giovedì 1 marzo 2012

Ritorna "L'uomo nell'Olocene" di Max Frisch













"Si dovrebbe poter fabbricare una pagoda di crackers, non pensare a niente e non udire tuono, né pioggia, né lo sgocciolio della grondaia, né il gorgoglio tutt'intorno alla casa. Forse una pagoda non viene, ma la notte passa." Così l'incipit di Der Mensch erscheint im Holozän, opera tarda di Max Frisch, che fa la sua comparsa nel 1979 per Suhrkamp. Due anni più tardi, Einaudi propone questo breve racconto dell'autore zurighese nella traduzione di Bruna Bianchi, optando per una semplificazione del titolo, semplifazione che anche oggi rimane (L'uomo nell'Olocene, pp. 110, euro 17, con una prefazione di Sergio Nelli). Eppure il titolo originale afferma, agisce, come in un alone di scoperta dato dal verbo "erscheinen"; quello italiano descrive, toglie il verbo "apparire/comparire", diventa quasi un titolo da saggio di paleontologia (e sarebbe interessante allora capire quale uomo compare nell'Olocene, visto che gli studi di paleontologia datano la comparsa dell'uomo molto prima di questo periodo, però bisognerebbe introdurre il concetto di evoluzione, laddove "comparsa" e "evoluzione" non vanno apparentemente d'accordo).

Il signor Geiser, vedovo pensionato, vive nella Valle dell'Onsernone, postazione sperduta del Canton Ticino. "Il signor Geiser ha tempo", precisa Frisch sin dalla prima pagina, ed è grandiosa, oltre che fondamentale nell'economia della narrazione, questa affermazione semplice e inattuale. Il vecchio protagonista rimane isolato per un'alluvione che fa franare tutto ("[...] il tronco pende a rovescio con la corona sfracellata, le nere radici si spalancano nell'aria e la roccia è esposta a nudo, gneis o scisto, altrove puddinga"), con problemi basilari di sopravvivenza (luce, provviste), e convive con l'isolamento progressivo causato della perdita della memoria. Nel racconto di Frisch rinveniamo una rarissima capacità di narrare la vecchiaia, la sua fragilità, le vertigini di certe riflessioni che possono giungere in passeggiata al protagonista, in una geografia puntuale che avvista Berzona, il passo della Garina e il Monte Calmo, e altresì in una geografia di oggetti, citazioni, memorie di paleocatastrofi naturali, di orologi che si fermano (nella nazione degli orologi per antonomasia). La nostra è allora la lettura di un racconto sul tempo devastato e desolato, perduto, frammentato e mai più rimesso assieme. Cocci e ciottoli di tempo.

Il signor Geiser ha tempo, dicevamo. Il signor Geiser si sta spogliando del proprio tempo. Il signor Geiser prova a incollare frammenti di megatempo con bigliettini (oggi sarebbero post-it) che influenzano anche curiosamente l'impaginazione tipografica del racconto: appunti sulla sezione aurea, annotazioni di storia locale (costruzione di una mulattiera nel Settecento, catastrofi, gli anni delle alluvioni), sulle ere geologiche, sul cancro del castagno, su parole di dizionario, sull'origine dell'uomo, su "treni (SBB) con coincidenza a Bellinzona" (un salto a Giardino, cenere di Danilo Kiš ci può stare), schede sui dinosauri e la loro estinzione o sulla deriva dei continenti. Sergio Nelli posiziona bene quest'importante libro all'interno della produzione dell'autore svizzero, di cui, proprio nel 2011, ricorrevano i vent'anni dalla morte (pure i cent'anni dalla nascita, ma appartengo a quella schiera che crede abbia più senso ricordare le ricorrenze della morte, non tanto quelle delle nascite): "[...] Testimonianza luminosa di questa resistenza e vera e propria invenzione narrativa sono i materiali esposti come graffiti in bella vista per un difetto di memoria del protagonista. Materiali che caratterizzano questo libro in modo fisico, visivo. Di che cosa trattano tali appunti, annotazioni, ritagli, sistemati qua e là? Di questioni cruciali sulle quali si esercita il vecchio vedovo in pensione, ex direttore di una ditta di Basilea: l'origine dell'uomo, la deriva dei continenti, le ere della Terra, l'estinzione dei dinosauri, la velocità del lampo, la formazione dei ghiacciai, il carattere dei tuoni, la debolezza mnemonica...". Diventa importante volgere il nostro sguardo, perfino appassionarsi, al percorso del protagonista, alla progressiva spoliazione di memoria affiancata al tentativo di ricostruzione del megatempo geologico, così evidente nel paesaggio o nel pensiero degli animali, loro sì pieni di anima: l'uomo - ci dice Frisch-Geiser sin dal titolo - fa la sua comparsa nell'Olocene. E la sua scomparsa? Chissà, intanto però possiamo credere che "Probabilmente saranno i pesci a sopravviverci, e gli uccelli".