mercoledì 31 ottobre 2012

da "Ai poeti" di Emanuel Carnevali

Una poesia da #12

Il mio incontro con la prosa e la poesia di Emanuel Carnevali passa per Emidio Clementi e i Massimo Volume: anno 1995, album Lungo i bordi, la canzone "Il primo dio" (sotto vi rimando al video). Poco dopo, in una libreria trovai una copia assai malandata de Il primo dio (Adelphi, 1978, ancora reperibile). In seguito anche Fazi fece qualcosa di quest'autore (Racconti di un uomo che ha fretta). Da un paio d'anni il vero lavoro di riproposta di questo autore fiorentino va registrato dalle parti di Pistoia, in quelle edizioni Via del Vento che come un largo ombrello riparano spesso dalle piogge dell'oblio. Chi la conosce sa che parliamo di una casa editrice perfettamente in tema con questo blog (tutti libri brevi, brevissimi) e costantemente attiva nella riscoperta di testi inediti o rari. Sfogliate il catalogo, dove ogni libro costa 4 euro, e allora capirete; pensate soltanto, per citare un esempio, al Georg Heym che ha recentemente proposto per la cura di Claudia Ciardi, traduttrice che a breve risponderà su queste pagine ad un'intervista. Heym è un autore inspiegabilmente trascurato, così come il suo illustre curatore italiano Paolo Chiarini, tra i massimi esperti italiani di Espressionismo tedesco, scomparso soltanto due mesi fa.

Tra i libri della casa editrice ritroviamo ben tre titoli dedicati a Emanuel Carnevali: Il bianco inizio e altre prose memorabili, Corteo di personaggi a Villa Rubazziana e il recentissimo Ai poeti. Credo ritorneremo almeno su uno dei primi due titoli (prosa), ma vorrei iniziare dalla poesia e dall'ultimo titolo menzionato, una selezione di diciotto testi che esce in questi giorni per la cura e traduzione di Elio Grasso, in occasione del settantesimo anniversario della scomparsa (Manuel Carnevali era nato nel 1897 a Firenze e morì nel 1942 strozzato da un boccone di pane, dopo una lunga sofferenza per encefalite letargica, manifestatasi già nel 1922).

Ciò che spesso ricordiamo di Carnevali è legato all'emigrazione in America nel 1914, all'inglese imparato per la strada o sulle insegne, svolgendo i lavori più disparati e che divenne la lingua della sua scrittura. Molte le etichette e i nomi che si spendono, da "maledetto" a "black poet", a erede di una linea che passa per Rimbaud e Dino Campana, rafforzata dalla stima di cui beneficiò in vita (Kay Boyle, Robert McAlmon e Ezra Pound su tutti). Ma proprio come spesso accade con questi aloni, non è cosa nociva ritornare semplicemente ai testi, coadiuvati da iniziative editoriali puntuali, come queste delle casa editrice pistoiese (Ventus taedium fugat il bellissimo motto). In fin dei conti, non bisogna dimenticare che con Carnevali l'Italia ha una testa di ponte importante nel movimento modernista americano che annovera autori come Waldo Frank, Carl Sandburg, Ernest Walsh e Williams Carlos Williams.

 













QUASI UN DIO


Sto morendo alla mercé di questo caldo
ma potrebbe esser peggio.

Amo mia moglie
ma dovrei amarla di più

Amo la mia ragazza ma il suo amore dovrebbe essere più universale.
Soltanto una parola la descrive ma non so quale sia.

Tutto è più breve di qualcos'altro:
tutto è più uguale a Dio di qualcos'altro.

C'è competizione nel caos,
una cosa molto stupida.

Sono dubbioso come un ramo di salice
che curvo ammicca all'acqua.

Ammiro il diavolo perché lascia le cose incompiute.
Ammiro Dio perché tutte le completa.


(Ottobre-Dicembre 1931)


ALMOST A GOD

I am dying under this heat
but there may be worse.

I love my wife
but I should love her more.

I love my sweetheart but her love should be more universal.
One word describes her but I do not know which word.

All shorter than something else:
All is more God-like than something else.

There is competition in the chaos,
which is very foolish.

I am in doubt as a bent willow branch
nodding to the water.

I admire the devil for he leaves things unfinished.
I admire God for he finishes everything.



Come anticipato, permettetemi questo rimando musicale, visto che la "riscoperta" di Emanuel Carnevali deve molto anche alla musica dei Massimo Volume e a questa canzone "culto" in particolare.



sabato 27 ottobre 2012

da "Senza polvere senza peso" di Mariangela Gualtieri

Una poesia da #11

Nel primo decennio degli anni Duemila Mariangela Gualtieri ha pubblicato libri di poesia importanti. In molti ricorderanno Fuoco centrale, così legato alla sua fondamentale e fondante esperienza con il Teatro Valdoca, di cui ricorrerà il trentesimo anniversario della fondazione proprio nel 2013. La mia scelta oggi però cade in Senza polvere senza peso del 2006, libro-antenna di voci e figure che segna un tono nuovo della scrittura. La sezione del libro che ho apprezzato più di tutte resta Acqua rotta S. Mamante, mese d'agosto 2003, dove una scrittura che diventa quotidiana e concentrata chiama a raduno tutta la potenza e le stagioni che appartengono al suo dettato. La poesia che oggi ho deciso di riportare appartiene alla sezione Voci tempestate del 1999-2000. L'ho scelta anche per quelle ripetizioni e anafore che - mi pare - nella poesia di Mariangela Gualtieri assumano un colore del tutto nuovo e inascoltato, qui sì forse caricate dalla vita per il teatro di chi le ha scritte. (Molto bella anche la poesia scelta per la copertina della Bianca Einaudi, ma per leggere questa è sufficiente cliccare sull'immagine della copertina.)



Perché credo ancora nel segreto
ficcato dentro una foglia o un frutto
se credo alla tua faccia di ragazzo
spettinato, se credo a tutto, a tutto,
è per avventurarmi anche il lunedì
quando le sale sono chiuse e
sembra così lungo il tempo
così abbandonate le creature del mondo.
Se credo se credo se rido alle cose
invisibili, se chiedo le cose impossibili,
se mi batto col vento, se sbando di
continuo, se mi affanno,
è il mio gioco battagliero
di indispettire quel cielo ostinato
che si nasconde dietro al nostro cielo.
Mostra solo i suoi buchi di luce
quando dormiamo.

mercoledì 24 ottobre 2012

La "Great Ideas Series" di Penguin: l'arte tipografica veste i classici formato breve

Monografie collane micro #7

Stavolta perlustriamo un po' l'editoria fuori dai confini. Lo conoscete tutti il pinguino qui accanto? Penso di sì, visto che si tratta dell'emblema della casa editrice più nota al mondo (non ho dati certi, ma credo di non sbagliare se la definisco così). Penguin ha fatto scuola, in molti sensi: per gli autori, per le antologie, per i paperback, per la grafica editoriale iconica. Con la "Great Ideas Series", una collezione di classici "brevi", in vendita all'altrettanto iconico prezzo di £ 4,99, ha semplicemente dimostrato una volta ancora le infinite risorse dell'arte tipografica nella creazione delle copertine. Potete capirlo facilissimamente nella pagina dedicata nel sito di Penguin, navigando tra le cinque serie di testi sinora pubblicati. L'artefice è un grande della progettazione grafica, David Pearson, il quale stavolta sembra essersi superato in un progetto dalle premesse nient'affatto facili: vestire una collana di piccoli libri di nomi arcinoti quanto ingombranti (e forse, alla fine, poco letti) e contraddistinta dal nome semplice e complesso di "Great Ideas". Sono copertine eccezionali, efficaci, e bisogna riconoscere che non è mai facile innescare un'idea grafica che dia vita a centinaia di copertine del genere, tutte legate ma tutte con una grande e profonda autonomia.

Prendete ad esempio The Work of Art in the Age of Mechanical Reproduction di Benjamin, quella di Sun-Tzu o di The Myth of Sisyphus di Camus, o quella grandiosa di On Liberty di Stuart Mill. Sono copertine che fanno sorridere, per quell'intuizione di fondo davvero "smart" che racchiude però decenni di riflessione grafica e secoli di cultura tipografica. Notate infine anche l'intelligente uso del colore, a contraddistinguere ciascuna delle cinque serie finora uscite. Non vi resta altro che perdere dolcemente qualche minuto navigando qui (se girate in una libreria italiana ben fornita vi accorgerete di quanti editori nostrani le stanno imitando).












lunedì 22 ottobre 2012

"La mosca e il funerale" di Andrea Bajani

Andrea Bajani, nella nota conclusiva, afferma di aver scritto La mosca e il funerale (Nottetempo, pp. 80, euro 6) in diciotto ore, intervallo di tempo nel quale si è limitato a qualche sosta fisiologica e poco altro. Limitato anche il lavoro di lima. E quel che ne risulta è un racconto piacevolissimo e sorprendente. Il narratore è un piccolo bambino, nipote del nonno di cui si sta celebrando il funerale. Oreste, il defunto, in omaggio ad una convinzione che ormai sembra passata a senso comune, è più vivo dei vivi. Al funerale partecipano ovviamente uomini vestiti da guardie del corpo e donne vestite da girasoli, la sorella Alice, di soli tre anni, i famigliari, un prete che nel bel mezzo della cerimonia mette tutti in imbarazzo chiedendo di salire a dire qualcosa per il povero Oreste e un vecchio disperato che piange a dirotto. Quest'ultimo, l'elemento di disturbo-sorpresa del racconto, esce e rientra, fino a quando non giunge qualcuno a recuperarlo definitivamente e a scusarsi con i presenti, informandoli che costui aveva semplicemente sbagliato funerale. Chissà che cosa pensano le mosche dei nostri funerali e di questo strano ballo collettivo scoordinato di diverse generazioni che si innesca davanti a un morto... In effetti, a ben vedere (e a ben scrivere, cosa che ha dimostrato di saper fare Bajani, anche con le precedenti prove), le cerimonie funebri sono spesso un miscuglio di strazio e imbarazzo, di dolore e grottesco, proprio per la peculiare "risoluzione" del rapporto terreno con una persona che ci ha lasciati. Il punto di vista "basso" e la presenza scenica dei due bambini, equipaggiati - pure loro! -  di occhiali da sole acquistati in edicola all'ultimo minuto (di Winnie The Pooh per lui e di Hello Kitty per Alice) diventa antifrasticamente piedistallo privilegiato per fare continui zoom su questo nonsense comunemente accettato del funerale, allorquando tutti indossano appunto occhiali da sole e facce di ceramica. 

A molti di noi sarà capitato da bambini di partecipare alla cerimonia funebre di un nonno e per molti questa è coincisa con il primo impatto con quello che facciamo della morte (non tanto con la morte stessa). Il piccolo protagonista di questo libretto è addirittura un veterano, visto che ha partecipato anche a quello della nonna, e ora guarda con una certa comprensione la sorella Alice, alla sua prima esperienza. Non è improbabile che in voi possano allora risuonare quelle controllate allucinazioni che il bambino intavola nel dialogo serrato con il nonno "lì dentro" la bara, il ricorrere di quel tic linguistico del defunto riguardante proprio le mosche e la merda. A molti poi sarà capitato di riflettere sugli occhiali da sole, immancabili protesi ottiche di questi momenti, e qui ironicamente paragonati a tanti pannelli solari in grado di sorreggere il fabbisogno energetico dell'intera città. Come è facile vi ritroviate sulle facce di ceramica, sul prete e sul breviario delle sue frasi, che poi spesso sono raffazzonate e raccattate all'ultimo minuto intervistando i parenti del defunto, in un'operazione in extremis non diversa dall'acquisto degli occhialini-gadget per i bambini. Ciò che colpisce in questo racconto di Bajani è lo sguardo indulgente e feroce, eppure mitigato, e come questa mitigazione dello sguardo avvenga in una cornice di pulsante rivisitazione della memoria e dei suoi palpiti e silenzi. Alla fine, quella mosca del titolo coincide quasi con i voli di pensiero di quel piccolo protagonista che, arrivati in fondo, vi conquisterà.

giovedì 18 ottobre 2012

"Contro le radici". Maurizio Bettini e l'analisi della metafora "arboricola"

Contro le radici è un piccolo libro appartanente all'interessante collana "Voci" de Il Mulino (pp. 107, euro 10). Non è recentissimo, è del 2011, ma la cosa positiva di un blog come questo è che di un libro si può parlare senza patemi anche quando non è freschissima novità oppure titolo dimenticato, di cui caldeggiare la rilettura e la ripubblicazione. L'ha scritto Maurizio Bettini, brillante filologo e fautore, in Italia ma non solo, di quel fecondo innesto dell'antropologia nello studio del mondo antico. Nelle primissime pagine è già chiarissimo da dove parte e dove intende arrivare quest'efficace pamphlet: "[...] viviamo immersi in un'antropologia (reale) dell'omologazione e ce ne creiamo una (immaginaria) della differenza". Siamo tutti più simili, a Rio de Janeiro come a Pechino, e allora necessitiamo di crearci un'identità per differenza, attraverso una tradizione, spesso inventata. La chiave di volta dell'intera argomentazione di Bettini, che poi trova il fondamento nel peculiare e lungo percorso del filologo-antropologo, è nell'analisi e, per molti versi, nell'attacco al paradigma arboricolo delle radici oggi vigente. Per spiegare l'identità si ricorre spesso a quest'immagine (pericolosa) delle radici. Ricorderete ad esempio le polemiche sulle parole da usare nella nascente Costituzione Europea e la diatriba sull'opportunità di far riferimento o meno alle "radici cristiane" del continente. La diffusione del paradigma-metafora arboricolo delle radici è trasversale, però non rende giustizia della complessità del mondo attuale, dei delicati equilibri elastici che si frappongono fra quelle tre parole-chiave del sottotitolo: tradizione, identità, memoria. La prima è spesso inventata, la seconda è conseguentemente una creazione ad hoc e qualsiasi operazione riguardante la terza assume da sempre contorni fragilissimi e delicati, visto che si ricorda ciò che si decide di ricordare e ciò che si vuole ricordare. Anche in questa cornice possiamo allora leggere le pagine sul compito, davvero proibitivo, del nuovo disegno del sistema dell'istruzione e dei testi-saperi da conoscere e studiare.

Data la vaghezza di qualsiasi discussione sull'identità, Bettini riconosce, quasi a malincuore, la necessità del ricorso ad una metafora per poter parlare con maggior rispetto delle distanze, maggior giustizia e prensilità di quelle tre parole del sottotitolo. E allora, opponendosi all'immagine statica e verticale dell'albero radicato nella terra (torna spesso nel testo l'analisi dello statuto fondativo di una scuola lombarda di ispirazione leghista), Bettini propone l'immagine orizzontale, mobile, torbida (ma anche limpida) del fiume. La metafora del fiume, che comunque l'autore accetta come male minore, è più rispettosa del flusso di storia che va a costituire il reale. Se la facciamo nostra, possiamo allora vivere una tradizione senza esserne ossessionati o, peggio, prigionieri. La memoria, allo stesso tempo, non è una sorta di mappa data una volta per tutte nella quale orientarsi per leggere passato, presente e futuro. Più probabile che diventi una mappa in divenire, che si collochi come mappa di una soggettività nuova, senza ossessioni, rivendicazioni e vendette identitarie, che tenga al riparo tutti da quel determinismo delle radici che compare ogni qual volta cediamo ad una narrazione che s'affida alla metafora arboricola. Si ricava subito allora l'importanza del passaggio del fiume sul suolo, di ciò che ha orizzontalmente accolto, delle anse create - aggiungo io delle sfumature visibili tra letto, greto, golena, paleoalvei, della differenza tra fiumi di risorgiva e fiumi di montagna - e poi degli affluenti che ha progressivamente accolto nel suo bacino, della morfologia che ha contribuito a creare e di quella che ha incessantemente distrutto e rimodellato. Fuor di metafora, ritroviamo la complessità giustamente estrema nel dover maneggiare quelle tre parole del sottotitolo, che hanno creato spesso devastazione ogni qual volta si sono trasformate in vessillo. A tal proposito Bettini ricorda quel che è accaduto in Ruanda tra Hutu e Tutsi. Le cause di quel genocidio e di quell'odio sono diretta discendenza delle percezioni "di differenza" introdotte, ingigantite e avallate dal colonialismo tedesco e belga, sfociate in un genocidio allucinante e terribilmente controverso, dove tutta la cosiddetta Comunità Internazionale ha pesanti responsabilità (il tema era stato già brillantemente trattato in uno degli interessanti lavori di Michela Fusaschi, Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, del 2000). Il caso del Ruanda (ma ce ne sono altri) è un caso limite e ci riporta dritti ai temi ribollenti nel titolo e sottotitolo: in nome delle radici, dell'identità, delle tradizioni sono stati perpetrati i misfatti più inauditi. Questo al grado massimo, mentre al grado minimo o iniziale (se così ci accontentiamo di chiamarlo), in nome delle radici, si rischia sempre di perdere una lettura "buona" del reale, preparandosi a covare una lettura autenticamente "cattiva". Lascio a voi la comprensione di questa coppia di antonimi forse banali (non mi viene per ora una coppia di contrari più adatta, al momento). La tranquilla, idilliaca e statica metafora arboricola è forse più pericolosa di un fiume torbido in piena. L'invito di Bettini a tenere alta la guardia è stato consegnato a questo breve libro e passa a noi in tutta la sua estrema complessità, proprio in un tempo triste ribollente di revival folcloristici e rievocazioni storiche (ma vi siete mai soffermati, ad esempio, sull'assurdità del concetto paradossale di "rievocazione storica"? E quanti soldi sembrano esserci per queste "rievocazioni", a partire dagli impeccabili indumenti che indossano i figuranti). Noi dovremmo forse individuare i nostri giganti e salire ancora una volta sulle loro spalle, per capire meglio il tratto di fiume che ci ha portati qui, per fuggire o guadare i paradossi della tradizione e dell'ossessione identitaria.

sabato 13 ottobre 2012

"La persona e il sacro" di Simone Weil

Simone Weil ha spesso lasciato a scritti brevi alcune delle sue più profonde e durature riflessioni, saggi contenuti e talvolta incompiuti, pagine per le quali la parola "saggio" diventa a dire il vero stretta e dove l'inclinazione del pensiero e della prosa segna un cambio di direzione sensibile, non solo all'interno della sua breve parabola esistenziale, ma anche per la storia della filosofia largamente intesa. L'abbiamo già registrato in queste pagine, qui, e ora torniamo a farlo con La persona e il sacro, scritto durante la guerra, nel biennio 1942-1943, ora ospitato nella collana Biblioteca Minima di Adelphi (pag. 78, euro 7, con una nota finale di Giancarlo Gaeta). Il testo appartiene ai celebri Écrits de Londres et dernières lettres e in italiano si trovava già ne I moralisti moderni (Garzanti, 1959), libro-antologia a due di Elémire Zolla e Alberto Moravia. Sin dalle prime battute Simone Weil introduce il lettore a seguire i passi di un ragionamento che, pur nella brevità, toccherà moltissimi punti:

"Ciò che per me è sacro non è né la sua persona né la persona umana che è in lui. È lui. Lui nella sua interezza. Braccia, occhi, pensieri, tutto. Non arrecherei offesa a niente di tutto questo senza infiniti scrupoli. 
Se quel che vi è di sacro in lui per me fosse la persona umana, potrei cavargli gli occhi facilmente [...]".

Sembra un passo quasi innocuo eppure diventa rivoluzione, se fatto nostro con attenzione, perché apre le porte all'impersonale, che è veramente ciò che di sacro vi è in una persona. Verità e bellezza abitano quest'ambito di ciò che è impersonale, anonimo. La persona e il sacro si lascia leggere anche per le sfumature ricche della prosa, spazia e ritorna costantemente al tema del titolo (un titolo che, sotto certi aspetti, potrebbe pure depistare). Belle, inoltre, le pagine dedicate al lavoro fisico, tema conosciuto e sperimentato da Simone Weil,  e anche le "ipotesi di lavoro" su determinate istituzioni intermedie destinate ad abolire tutto ciò che nella vita contemporanea "schiaccia le anime sotto l'ingiustizia, la menzogna e la bruttezza". Pagine vere, quasi operative, nient’affatto vaghe.

Questo scritto non sarebbe lo scritto che è ed è diventato se non fosse corredato, nella sua incompiutezza, di quella netta visione del diritto (Weil parla di "mediocrità" della nozione di diritto) che troviamo circa a metà libro. Il diritto è per natura dipendente dalla forza, ci ricorda Simone Weil. Nata in epoca romana, tale nozione si correla al monopolio della forza, diventa nella sostanza un'idea utile per ammantare la forza, affinché quest’ultima abbia piena efficacia. Sta qui una delle parti più notevoli, specificatamente nella ripresa del diritto così come ce l’avevano consegnato Diderot e la sua cerchia (non certo Rousseau) nel XVIII secolo, come punto di non ritorno verso le nuove derive di bruttezza, uso e abuso contemporanee (curioso che altri intellettuali e giuristi, come Hans Kelsen e Carl Schmitt, si confrontassero, più o meno negli stessi tempi, col tema del diritto). Secondo la Weil lodare Roma per averci trasmesso la nozione di diritto è "scandaloso". I greci non possedevano tale nozione e solo per un singolare malinteso la vicenda di Antigone è stata scambiata per "diritto naturale". Ma sono davvero molti i passi in cui lo scritto si fa denso (quelli sul linguaggio, la bellezza e sull'ascolto, certe immagini o similitudini adoperate) e dove lo stile appare rastremato verso sommità di pensiero. Prendete ad esempio questo passaggio intermedio e chiave di volta delle pagine dedicate alla nozione di diritto:

“La materia pesante è in grado di salire e andare contro la gravità solo nelle piante, grazie all’energia del sole che, captata dal verde delle foglie, opera nella linfa. La gravità e la morte si riapproprieranno invece, progressivamente ma inesorabilmente, della pianta che sia privata della luce”.

A voi scoprire come tale passaggio si innesti nelle riflessioni sul diritto. L'ho riportato perché, a prescindere da dove è collocato, offre un micro-saggio della sua prosa. Se "mistica" fu, questa donna che indossava inconfondibili occhiali, aveva anche i piedi così straordinariamente poggiati a terra. Camminando per strada, e ovunque siamo, dopo aver letto un libro così breve e potente, possiamo provare a capire che in ogni uomo vi è qualcosa di sacro. Questo qualcosa non è certo la sua persona e tantomeno la persona umana. "È semplicemente lui, quell’uomo”. 

sabato 6 ottobre 2012

"Tra miele e pietra. Aspetti di geopoetica in Montale e Celan", un saggio di Federico Italiano

Ripescaggi #16













----
Questa è una recensione tutto sommato abbastanza recente, di poco seguente l'uscita di questo bel saggio di Federico Italiano per Mimesis Edizioni (2009, pp. 186, € 14,00). Apparve sul mensile "Poesia" di Crocetti e tratta uno degli aspetti più interessanti della critica d'oggi, comunemente descritto con la parola "geopoetica". Libro al limite della categoria "libri brevi", eppure davvero scorrevole e piacevolmente percorribile, soprattutto da chi ama i due poeti scelti da Italiano per illustrare la geopoetica (che, è bene ricordare, è un termine che inevitabilmente rimanda a Kenneth White, autore forse un po' trascurato in Italia, con l'eccezione di Amos Edizioni che a brevissimo ristamperà Lungo la costa).
----


Avevamo conosciuto Federico Italiano come poeta e brillante traduttore dal tedesco. Ora questo Tra miele e pietra ci presenta un giovane critico che intelligentemente riporta i termini della discussione in un terreno spesso insidioso ma indubbiamente fertile come quello della poetica. E la poetica di cui Italiano si occupa, con una prosa senz’altro specialistica ma fruibile nelle sue linee principali da un pubblico vasto, è segnatamente preceduta dal prefisso “Geo”. 
Che cos’è la geopoetica alla quale accenna quasi di sfuggita il sottotitolo e perché due importanti poeti come Montale e Celan, tra i massimi del Novecento, offrono alcuni testi dove tale nozione sembra sprigionare tutta la sua potenza interpretativa?

Serve procedere con ordine. L’operazione intelligente di Italiano sta, in primo luogo, nel prendere le mosse da un filone latente e per certi versi carsico della critica (esagerando si potrebbe parlare persino di una certa inconsapevolezza naïf della critica geopoetica già in essere) ed organizzarlo in una struttura di pensiero servibile. Con le parole dell’autore, intendiamo infatti con geopoetica “quel sapere territoriale – quella «conscience géographique» - che sottende la complessa dinamica semantica di un testo poetico laddove interagiscano referenze squisitamente geo-ecologiche”. (Per inciso, ad esempio, pensiamo solamente a come si potrebbe rileggere – e in parte si è cercato di farlo – l’intera opera di Andrea Zanzotto alla luce di queste parole e del costrutto di geopoetica, compreso il recentissimo Conglomerati.) Gli autori scelti da Italiano per le sue letture sono il Montale di “Notizie dall’Amiata” e il Celan del periodo bretone con “Matière de Bretagne” e “Le Menhir”.

In seconda battuta, è opportuno notare come questo saggio e la categoria di geopoetica in esso perlustrata intervengano a sostegno di tanti tentativi critici che si fondano su nozioni ormai “zoppe” o prive di una solida base teorica: accade spesso con la nozione di paesaggio o con quel filone che senza un’adeguata preparazione s’addentra nell’analisi dell’apporto tecno-scientifico alla lingua e al bagaglio tematico dei poeti (va detto però che, su questo versante, si iniziano a registrare anche in Italia dei contributi innovativi ed interessanti e il saggio in questione si inserisce pienamente in questa recente bibliografia).

Da ultimo, ma sicuramente non per importanza, va evidenziata la centralità che la prospettiva interpretativa geopoetica riveste e rivestirà in futuro. Montale e Celan, autori chiave del secolo scorso, svolgono alla perfezione quel ruolo paradigmatico che l’autore di questo saggio intende assegnare loro: con la loro lirica trapuntata di riferimenti topografici, spaziali, atmosferici, così intimamente legati alle sfere geologiche, ecologice e biologiche, questi due poeti impongono una lettura “attrezzata” che si confronti apertamente con tale ricchezza e complessità. Ed è proprio a questa necessità critica, emergente di fronte a tantissimi altri poeti, che la prospettiva geopoetica cerca di dare una informata risposta.

mercoledì 3 ottobre 2012

Quando Nikolàj Leskòv scrisse "Lo scacciadiavolo"...

C'è un filo importante che unisce la casa editrice Mursia alla letteratura russa e alla Russia stessa. Come non ricordare, ad esempio, l'autentico best-seller di Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio, da Mursia pubblicato dopo il no di tanti altri editori che in seguito si saranno mangiati le mani, dal momento che il libro ha venduto milioni e milioni di copie. Ma sono storie che lasciano il tempo che trovano: un best-seller, in fin dei conti, nasce all'interno di una sigla editoriale e quindi anche dall'alchimia tra autore, titolo e editore. Curioso piuttosto che da qualche anno a questa parte si faccia fatica a intravedere il cosiddetto "best-seller di qualità" all'orizzonte, un titolo che sfondi il tetto di un certo numero di copie vendute. Certo, libri che vendono tante copie esistono, ma quanti passeranno le quattro (4!) milioni di copie di Bedeschi? Pazienza, non ne faremo una malattia. Sono tuttavia fenomeni da studiare, anche in assenza. Forse il passaparola virale da social network non è così penetrante come i consigli di lettura tra conoscenti e amici di un tempo. Ma torniamo a Mursia e alla Russia. La letteratura russa, quella che si cita sempre, dalla quale si può attingere quasi a occhi chiusi, quella che forse oggi si fa fatica a leggere (o a rileggere), è una costola importante del catalogo della casa editrice milanese. I grandi nomi di quella letteratura non mancano. E così accade che passate traduzioni, come quelle indimenticate di Ettore Lo Gatto, approdino a nuovi formati. Succede con la collana "Il picciONE" che ospita Lo scacciadiavolo di Nikolàj Leskòv (pp. 54, euro 3,90).

Leskòv ha pressoché ovunque legato il proprio nome alla narrazione delle vicende della Russia zarista. Lo scrittore, nato a Gorochovo nel 1831, fu anche giornalista. Non stupisce un certo sapore che forse non sarebbe dispiaciuto a Petronio. Tale quadro si ravvisa anche nel nostro breve racconto proposto in solitaria, dove, nello spazio di poche pagine, tocchiamo comunque alcuni capisaldi della sua arte narrativa e alcuni bersagli della sua ironia: la classe benestante, "timorata di dio", il clero (costante della sua produzione), qui nelle vesti di alcune suore incartapecorite dal bigottismo. Il tutto è tenuto assieme dalla figura del protagonista, un giovane studente che cerca di farsi largo in vista di una promettente carriera in città. Il ragazzo è letteralmente spedito dalla madre a farsi "benedire" dal potente zio, il quale si rivelerà un ricettacolo dei peggiori vizi e nefandezze. Impossibile non ravvisare la ben nota "arteria" satirica dell'autore, che qui sembra porci in una condizione di navigatori di un'indagine della società russa, un vaso sanguigno pulsante, vivido, largo proprio come siamo stati talvolta abituati dalla grande letteratura dell'Ottocento. Il rapporto tra letteratura e società nel Diciannovesimo secolo è per tanti versi il binomio per antonomasia (pensate solo ai narratori francesi, senza far nomi). Eppure c'è qualcosa in questo racconto leskoviano che pare sfondi qualche porta presente, di questa Russia meno lontana di quel che potremmo credere. Una nazione-continente che, più di altre forse, ma comunque assieme ad altre, vive sulle contraddizioni del suo sviluppo, sulle antinomie della sua geografia fisica, politica e morale. Non si tratta qui di fare il solito giochino di attualizzare un racconto che è diventato un classico. Non ce n'è affatto bisogno, se di classico si tratta, e poi subentrerebbero altri fattori, di natura squisitamente linguistica, persino prosodica, o letture importanti come quelle del formalismo russo e di Benjamin, letture che certo hanno lasciato un segno. Qui vorremmo soltanto richiamare l'attenzione su un racconto che dalla ragnatela delle parentele (la madre, il figlio, lo zio), tratto importante della sua arte e della letteratura russa più in generale, s'apre su un intero mondo di uomini che non possiamo pensare di conoscere davvero, anche quando passano sotto l'ombrello rassicurante di trite etichette come quelle dell'ignoranza crassa. Leskòv allora porta a termine i suoi exempla senza salvezza evidente, eredi quasi di un teatro che prodigiosamente sa prendere sia da Plauto e che da Terenzio, con la profondità della sua arte e narrazione, lasciando a bollire sul fuoco della lingua e dello stile il magma delle relazioni della società (società, parola squisitamente ed esclusivamente Ottocentesca?), le quali, come fasci di luce, dal centro della sua scrittura, dipartono allargandosi ai nostri spazi, alle nostre odierne relazioni tra simili, in Russia come negli Usa, in Norvegia come in Sudafrica. Un classico è allora anche un'opera che si pone in una spazialità ampia, prima ancora che in una temporalità sterminata. Ma queste sono cose forse risapute.