mercoledì 28 novembre 2012

"Basta così" di Wislawa Szymborska, le ultime 13 poesie

A tempo di record esce il libro al quale stava lavorando Wislawa Szymborska prima della morte, avvenuta lo scorso febbraio. Basta così (Adelphi, pp. 92, euro 10) contiene tredici delle diciotto poesie con le quali la poetessa polacca intendeva congedarsi dal proprio editore e dal mondo dei lettori che avevano imparato ad amarla (e mai titolo fu più diretto a segnare un addio che in fondo addio non è). La pubblicazione in volume è stata possibile grazie all'operato di Michał Rusinek e di Ryszard Krynicki, mentre la traduzione in italiano, dopo la morte del grande Piero Marchesani, storico traduttore della Szymborska per Scheiwiller e Adelphi, è stata affidata a Silvano De Fanti, docente dell’Università di Udine (Ryzsard Kapuscinski, Jaroslaw Mikolajewski e Tadeusz Rózewicz tra gli altri autori con cui si è cimentato). La Szymborska rappresenta oggi un caso di poesia largamente apprezzata e le sue opere sembrano esser lì a smentire chi sostiene che la poesia è poco letta. Chi ama questa autrice poi, la ama fino in fondo, di un amore quasi assoluto e incondizionato. Il volume è corredato da una serie di diciassette riproduzioni e descrizioni dei manoscritti che lo renderanno un piccolo evento editoriale. Per l'occasione la collana Piccola Biblioteca fa uno strappo alla regola e inserisce delle illustrazioni in copertina.

Non resta che addentrarci brevemente dentro questo libro, senza correre il rischio di dilungarci troppo, tanto è breve e incompiuto. Come spesso ci ha abituato, l'autrice descrive situazioni, persone e luoghi ricavandone momenti di radianza straordinari. Così accade già nella prima poesia, "Un tale che osservo da un po' di tempo", dove un addetto alla raccolta dei rifiuti  tra "ossi spolpati, / rosari fischietti e preservativi" trova anche una gabbietta per colombi che terrà appositamente perché resti vuota. Nella seconda composizione intitolata "Le confessioni della macchina che sa leggere" leggiamo "[...] «anima», espressione bizzarra. /  Per ora ho stabilito che è una specie di nebbia, / più duratura, pare, degli esseri mortali.". Altrove l'autrice aveva scritto che l'anima la si ha ogni tanto e che nessuno ce l'ha di continuo e per sempre. Credo che pochi poeti si siano soffermati su questa parola con tale potenza e delicatezza ad un tempo. Nella quarta poesia, "Catene", il quadro è costituito da un cane ritratto alla catena in un giorno d'afa, vicino alla sua ciotola, motivo visivo per richiamare ciò che non vediamo, per spostare lo sguardo del lettore sulle nostre catene, soltanto più lunghe e meno visibili, e che ci consentono di passare accanto all'animale disinvolti. La poesia "All'aeroporto", dedicata a due amanti che si abbracciano correndosi incontro a braccia spalancate, ci riporta dritti alla grazia di certi momenti della sua scrittura dedicata proprio ai luoghi di transito, come sono ad esempio le stazioni dei treni e come accadeva perfettamente, in effetti, in una poesia come "La Stazione" , quella lirica indimenticabile che si apre con il puntuale "arrivo nella città di N.". "Coercizione" è una bellissima poesia da dedicare a certa sicumera vegetariana. In "La mano", una descrizione anatomica lascia spazio a una riflessione tra l'amaro e l'ironico che ricorda come questa configurazione di ossa e muscoli sia stata sufficiente a scrivere il "Mein Kampf o Winnie the Pooh". La poesia "Lo specchio" si apre con l'immagine forse più memorabile dell'intera raccolta:"Sì, mi ricordo quella parete / nella nostra città rasa al suolo. / Si ergeva fin quasi al sesto piano. / Al quarto c'era uno specchio, / uno specchio assurdo / perché intatto, saldamente fissato.". Da qui, da questo titolo, si può partire per leggere il dittico solo apparentemente autoreferenziale delle poesie "Reciprocità" e "A una mia poesia". Il gran finale è per Mapa ("La mappa"), forse la più bella poesia del libro, nella quale Wislawa Szymborska, dopo aver in lungo e in largo perlustrato una mappa sul tavolo, conclude che ama le mappe perché dicono bugie, "Perché sbarrano il passo a verità aggressive. / Perché con indulgenza e buonumore / sul tavolo mi dispiegano un mondo / che non è di questo mondo." 

Da poesie come "La mappa" si capisce perché Wislawa Szymborska è diventata una scrittrice molto amata, si capisce anche perché grazie a lei la poesia scende rapidamente da quell'inutile piedistallo e da quell'aura che in realtà non ha mai posseduto, a differenza di altre arti, e che invece anche oggi, troppo spesso, le viene proiettata addosso. I suoi versi camminano tra noi, in quelle situazioni comunissime che la sua poesia ha saputo raccogliere nel momento di cambiamento di un colore, di contrasto, di fading, di epifania e, alla fine, di filosofia, in una sorta di rivisitazione attualissima di quel wit che in poesia davvero pochissimi autori sanno mettere in atto.



C'È CHI


C'è chi meglio degli altri realizza la sua vita.
È tutto in ordine dentro e attorno a lui.
Per ogni cosa ha metodi e risposte.

È lesto a indovinare il chi il come il dove
e a quale scopo.

Appone il timbro a verità assolute,
getta i fatti superflui nel tritadocumenti,
e le persone ignote
dentro appositi schedari.

Pensa quel tanto che serve,
non un attimo in più, 
perché dietro quell'attimo sta in agguato il dubbio.

E quando è licenziato dalla vita,
lascia la postazione
dalla porta prescritta.

A volte un po' lo invidio
- per fortuna mi passa.

sabato 24 novembre 2012

da "Il muro della terra" di Giorgio Caproni

Una poesia da #13

Come si fa a scegliere una raccolta di Giorgio Caproni? Una tra le altre? E poi come si fa a scegliere una sola poesia? Semplicemente si lasciano perdere troppo strutturati ragionamenti e, nella scelta per questo appuntamento breve colla poesia (e con una poesia in particolare), ci si lascia condurre una volta tanto dai titoli. Dal titolo della raccolta, Il muro della terra (Garzanti, 1975, presentazione di Giovanni Raboni), titolo bellissimo nella sua valenza spostata, ruotata e traslata e poi dal titolo della stessa poesia, soprattutto quando quest'ultimo è confrontabile con una constatazione ricorrente nella lettura dell'intera opera caproniana: i suoi testi sono ricchi di toponimi, sia di nomi noti, sia di nomi assai meno noti ma presumibilmente verificabili, sia di nomi più difficilmente decifrabili, come nel caso di questa bellissima poesia intitolata appunto "Toponimi" e posizionata in apertura della sotto-sezione del libro intitolata "Due divertimenti". Anche la datazione della poesia ha dato qualche problema (l'indice del libro con tutte le poesie riporta 196?). Il divertimento caproniano sembra quindi avvolto da un piccolo mistero. Sappiamo che si tratta di una poesia degli anni Sessanta, probabilmente della seconda metà, visto che il libro in questione raccoglie le poesie dal 1964 al 1975. Sappiamo che Caproni  inviò il manoscritto all'amico Carlo Betocchi. Ma cosa sono quei toponimi che leggiamo via via nel testo? Come si legano tra loro? Si legano tra loro? Poco fa abbiamo ospitato una recensione dedicata alla geopoetica che partiva da un interessante saggio di Federico Italiano. Caproni è sicuramente un autore che dai critici della geopoetica potrebbe lasciarsi inghiottire (forse persino sbranare), se non fosse troppo vivo il mantice sonoro della sua scrittura, troppo "classico" il bandoneon della sua travatura metrica per sfuggire, continuamente, a ingabbiature critiche troppo statiche e incentrate soltanto su aspetti di geopoetica. Resta il fatto che una lettura geopoetica di Caproni a mio avviso ha pienamente senso ed è per questa convinzione che probabilmente, alla fine, mi sono orientato su quest'enigmatico divertimento, quasi un sonetto, che presenta forse un titolo divertito, che nella geopoetica crede prendendosene contemporaneamente beffa.
















TOPONIMI


    Benhanthina. Nibergue.
Nessuna ossuta ocarina
d'ebano, più della tua
mi fu dolce, Guergue, 
sui monti di Malathrina
dove fui solo. Oh forno
di calce - nòria di calce
e anima, mentre a piombo
(da via delle Galere
all'Oriolino) nere
fiatavano costellazioni
i Fossi - spazzava il vento
- vuoto - sulle Tre Terrazze
il mio petto: il cemento.

giovedì 22 novembre 2012

"Mac(')ero", l'esordio di Marco Scarpa

C'è un'inquietudine di fondo che lega alcune esperienze di scrittura poetica, soprattutto tra i più giovani? Mi chiedevo semplicemente questo, apprezzando la prova d'esordio del poeta trevigiano Marco Scarpa, intitolata, con un uso inconsueto dei segni tipografici, Mac(')ero (Raffaelli, pp. 100, euro  12). Ci troviamo davanti un titolo che sembra quasi condurre, ironicamente, a quello che è spesso il destino di tutti gli esordi di poesia (il macero) e opporre, avversativamente, quell'istanza di presenza contenuta anche nella chiusura della poesia intitolata Rifiorire: "La prima cosa da fare / è ammettere di essere vivi". Ma in quale paesaggio si colloca questa poesia? La cruna dell'ago necessario, il passaggio obbligato per amare fino in fondo questa poesia, è rappresentato da Eugenio Turri, il grande geografo chiamato in causa un paio di volte nelle epigrafi delle sezioni, con frammenti da quella opera eccezionale tra le altre che fu Il paesaggio e il silenzio. In una di queste epigrafi, Scarpa estrapola una parola che attraversa per intero l'asse della sua scrittura: "Di giorno in giorno tutto si consuma, anche le cose costruite hanno il giorno dopo il segno di un'usura, un'usura del visibile, il primo annuncio del loro diventare detriti, deiezioni della storia".

Poesia e deiezione. Ecco i due punti sui quali scorre un asse portante di questo libro. La deiezione in Turri (e in Scarpa) sembra porsi in equilibrio difficile tra le sue valenze multiple in ambito medico, geologico e filosofico. E se in poesia non mancano grandi esponenti per ciascuna di queste singole valenze, poche volte si è provata una sintesi che non sia facilona e cascante. Questo poeta, per tentare l'impresa, sembra aver assorbito il succo migliore dei dettati di Grünbein e della sua bravissima traduttrice italiana, Anna Maria Carpi, e che sia andato oltre le case e i muri di Umberto Fiori

Farci scala e salendo, corpo
che muta, si estende, eretto
si danna, nulla più di una piana
priva d’acqua nel ritorno distesa
nulla più di sgranare la fame
                            per troppo cibo.

Se Grünbein – lo abbiamo scritto – ha lasciato un segno, il corpo diventa orientamento, la nostra unica arca per trarre in salvo gli spazi dall’alluvione disordinata dei tempi

Tengo le caviglie distanti da terra
le mani sudate per sfoghi accennati
mentre il groviglio si cuce a sussurri
la voglia ardente di calpestare
la vita, l’ambire alla presa, vibrare
e mai dome le dita, strozzare quel poco
che so e che uso per stare a galla.
Questo io vivo ed è come il salto
in alto con l’asta, solo che atterro
male e rimango disteso a lungo.

Alcune poesie sono caratterizzate da un movimento in due tempi, scandito anche tipograficamente con allineamenti diversi, con una seconda parte posta tra virgolette. Questa intelaiatura appare una mossa indovinata, un insolito convincente filtro tra reale e irreale, come in questa

L’altra ragione, quella che rimane muta
muta il piccolo che s’insinua nelle fessure
quelle mancate, sfuggite alle correzioni
vaghe ed imprecise, casuali.

“Controllo le linee verticali, gli stimoli
le cime degli istinti ma le linee stese
sgusciano tra i piedi, perdono la pelle
fanno scivolare i miei problemi a valle
tra i sassi dove alle dita non basta lo spazio
lo scanso, dove la spinta è impedita”.


Non è facile vivere, provare a vivere all’altezza del proprio tempo e dei propri tempi. Questo Marco Scarpa lo sa bene e lo sa dire bene, soprattutto in una sezione come Masserizie, apostrofata da una bella citazione da Sanguineti (“Bisogna averci un po’ di voglia di morire, / per aderirci, al vivere.”). Tale consapevolezza è limpida in poesie come questa

La beffa alle mani, lo smacco alla presa
mancata all’incastro, scivolata
tra le forme squadrate delle pareti,
ai margini spinte le pene, le frasche
scostate senza peso, i bordi allungati,
periferie che del centro
                            nutrono l’ingorgo.

Ritorno per un istante a Turri. Il paesaggio di queste poesie è una presenza potente, pur in una discrezione che non diventa banale sfondo o background predisposto allo show di fotogrammi detritici, dei crolli, della malattia. In questo paesaggio pare sia già tutto accaduto, eppure vige un principio di attesa che rilancia, tra la resa e la disfatta che non escono allo scoperto ma che stanno rintanate “[…] tra le pietre più basse, quelle / su cui frana tutto e da lì non si spostano”.  

Sebastiano Gatto, nella sua bella e utile prefazione (non è scontato che una prefazione a un libro di poesia sia utile!), parla del “libro delle cose rimaste, delle cose salvate e delle fondamenta (tanto in senso metaforico, quanto in senso letterale) su cui ricostruire. Ma perché l’esito sia tale, perché davvero le macerie possano trasformarsi in fondamenta, c’è bisogno di esperire fino in fondo un tempo e uno spazio dolorosi e incerti, il tempo e lo spazio necessari a scoprire se tra le rovine si annidi qualcosa da cui ripartire.” Non è scontato nemmeno che qualcosa da cui ripartire esista per forza, ma è a questo punto che si pone in tutta la sua importanza la deiezione, in tutte le sue valenze, quel binomio riuscito di questo esordio in cui riusciamo già a intravedere molto e altri importanti passi della scrittura di Marco Scarpa (sia detto in chiusura, un binomio lacerante, a suo modo doloroso, come guidare un'auto al mattino dopo aver letto e fatto proprie le pagine di Turri, dal suo paesaggio al suo silenzio).

domenica 18 novembre 2012

"Il segreto di Luca" di Ignazio Silone

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #12













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Questo breve romanzo uscì nel 1956, l'anno terribile per i partiti comunisti di tutta Europa, dei fatti d'Ungheria e del riposizionamento di moltissimi intellettuali gravitanti nell'orbita di Mosca. A tutti gli effetti è anche un avvincente giallo, che oggi potete trovare facilmente negli Oscar Mondadori o nei tascabili Newton Compton, come altri libri di quest'autore controverso, non di rado incasellato nella formula di "cristiano senza chiesa". Forse ricorderete le polemiche infinite e "infinibili" di una decina d'anni fa, le ipotesi di una doppia vita dell'autore, secondo gli iniziatori di quel caso intellettuale dedito allo spionaggio a favore della polizia durante il regime mussoliniano. Silone è un autore sul quale vale la pena ritornare. Il successo folgorante di un libro come Fontamara, soprattutto al di fuori dell'Italia, ha contribuito a trasformare Silone in uno scrittore molto antologizzato, facilmente reperibile, ma tutto sommato sembra che il dibattito pubblico non abbia mai sfrondato la complessità della sua vicenda artistica e politica, anche perché attraversa, anche e forse soprattutto con l'esperienza dell'esilio svizzero, decenni fondamentali della storia italiana ed europea del Novecento, personaggi-chiave, movimenti di pensiero che hanno cambiato il volto al continente, trasformandolo nel caso, non frequentissimo in Italia, di autore tanto criticato in patria quanto letto e stimato fuori dai confini. Il '56 fu anche l'anno di nascita della rivista fondata e diretta da Silone con Nicola Chiaromonte. Si chiamava "Tempo presente" e anche in quelle pagine si registrò un transito importante del suo apporto al dibattito dell'epoca.
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Avete presente le liste dei libri per le vacanze estive che si consigliano agli alunni delle scuole medie o superiori? Quasi mai manca un Levi (Primo e Carlo), un Pirandello, La casa in collina o La luna e i falò di Pavese, un Calvino e un Silone. Se per Calvino un pezzo della trilogia o Il sentiero dei nidi di ragno la fanno da padroni incontrastati, per Silone la scelta ricade solitamente su Fontamara, vero caso letterario del Novecento, romanzo che non uscì nemmeno in Italia e che forse deve a questo fatto editoriale una delle ragioni del suo incredibile successo di pubblico. Può star bene, anche se in queste liste (tra l'altro immobili, ho confrontato le mie con quelle di oggi e sembra che poco sia cambiato, nessun azzardo, poco coraggio di qualche iniezione nuova) spesso si stiracchia e vivacchia un certo canone che non fa bene a quei pochissimi autori che con la loro vita e le loro opere hanno restituito complessità etiche quasi insormontabili, accolto le aporie e le antinomie del vivere dell'uomo nella storia.

Credo che la prosa di Silone sia uno degli esempi più convincenti di equilibrio tra realtà, storia e finzione narrativa. In questo romanzo, giallo poliziesco a tutti gli effetti, il lettore assiste al ritorno in paese (Cisterna dei Marsi) di Luca Sabatini, protagonista spesso in absentia del centinaio di pagine (poco più) del libro, dopo quarant'anni di carcere ingiustamente scontato per un delitto che non ha commesso, e dopo esser stato graziato per la confessione in punto di morte del vero assassino.  Qui entrano in scena i principali personaggi: i due parroci del paese, l'amico Andrea, la gente del posto che reagisce al ritorno in un'accorata diffidenza e paura che potrebbe riportare a certe tesi e situazioni umoristiche di Pirandello. Luca, anche se innocente, misteriosamente non tentò di difendersi durante il processo e per i paesani porta ancora con sé il germe di una colpevolezza non spiegata e di un mistero che ha profondamente turbato l'intero paese. Grazie all'intraprendenza dell'amico Andrea e ai dialoghi con Don Serafino scopriamo lentamente il cuore di Luca e quel che veramente accadde la notte in cui si consumò quel delitto non commesso. Proprio in quelle ore Luca avrebbe dovuto stabilire la data delle nozze con la sua fidanzata, Lauretta. Prima aveva però fatto visita ad Ortensia, una ragazza amata secondo un protocollo quasi stilnovista e che in quella stessa sera gli aveva confidato la reciprocità del sentimento. Luca aveva così deciso di aprirsi nella confessione a Lauretta e di togliersi la vita per il dolore arrecatole. Il suicidio fu impedito dall'arresto. L'atteggiamento rinunciatario assunto da Luca durante il processo è allora spiegato dalla ferma intenzione di non recar offesa al sentimento confessatogli da Ortensia in quella maledetta misteriosa notte sulla quale, a turno, ritornano tutti i vari "intervistati" del libro, ciascuno con la propria porzione di visione, ciascuno con la propria parte di colpa, ciascuno con la propria tessera.


Il segreto di Luca è uno dei libri di Silone più ignorati dalla critica. Probabilmente il tralascio provvisorio di tematiche politiche, il peso specifico di opere come Fontamara (che ricordiamo, uscì dapprima in tedesco e fu poi tradotto in moltissime lingue diventando presto un caso letterario) o Una manciata di more sovrastano e adombrano questo secondo libro pubblicato dopo il rientro dall'esilio, laddove, in realtà, ravvisiamo tante travi portanti della sua scrittura: la persecuzione, la politica stessa riverberata nel personaggio chiave del giovane "investigatore" Andrea (figlio di un politico legato a Luca), le figure del parroco (ben due qui, quasi a sancire due diverse epoche) e del sindaco, il già menzionato ritornare di curvature pirandelliane delle situazioni della vita in paese, l'intersezione del racconto con l'autorità giudiziaria (qui rovesciata rispetto all'utilizzo fattone in Severina, il romanzo postumo e incompiuto), il modo in cui si tengono e si sovrappongono i due diversi tempi della storia uniti dalla lunghissima parentesi dell'ergastolo, sono solo alcuni dei motivi per  riaprire questo romanzo quando si ritorna sull'opera dello scrittore di Pescina.

martedì 13 novembre 2012

"Ci invitarono i cortili." La poesia di Georg Heym, grande assente di oggi, nelle risposte di Claudia Ciardi

Librobreve intervista #7












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Torniamo a mescolare le carte con un'intervista e a parlare di poesia, traduzione, editoria "latitante". A Claudia Ciardi e alle edizioni Via del Vento dobbiamo l'unica plaquette di Georg Heym oggi disponibile in italiano. L'intervista diventa allora occasione per entrare nelle motivazioni di questo importante piccolo libro, nella storia della ricezione di Georg Heym in Italia, nel retroscena del lavoro di traduzione e per compiere con lei interessanti scorribande. Non meno importante è il suo affettuoso ricordo di Paolo Chiarini, il grande germanista recentemente scomparso, al quale si deve un fondamentale lavoro di traduzione su Heym, l'einaudiano Umbra Vitae del 1970, sul quale magari torneremo (a chi è interessato, ricordo poi che l'editore Silvy ha ripubblicato l'anno scorso L'Espressionismo tedesco, uno dei più importanti lasciti di Chiarini).
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LB: Come nasce l’idea di questo piccolo libro di traduzioni da Heym?
RISPOSTA: Pura e semplice passione per la lingua di Heym e il suo laboratorio espressivo. Approfondire la lezione di questo poeta, mi ha permesso di entrare nell’universo di segni di coloro che inaugurarono la ‘stagione in inferno’ della poesia tedesca, in aperta rottura con un potere ingessato e incapace di rinnovarsi.
In occasione del lavoro sui sonetti di Walter Benjamin, il nome di Heym, in cui mi ero già più volte imbattuta nel corso della mia prima ricognizione su atmosfere e volti della nascente metropoli berlinese, è riaffiorato insieme a quello di Christoph Friedrich Heinle, in rapporto al distacco di quest’ultimo dalla Jugendbewegung. Capire quale pensiero alimentò i gruppi di questi giovanissimi artisti e in che modo si sviluppò la loro attività, ci dà uno spaccato importante della società tedesca del primo ‘900, attraversata da numerose fratture politiche e culturali, alla base di cambiamenti violenti e tragici, che ebbero conseguenze epocali anche sugli equilibri europei.
Per quanto riguarda la personalità poetica heymiana, riflesso di un carattere schivo e insofferente ai clichés borghesi, si può dire che occupa e incarna pienamente questa soglia generazionale. Da una parte, infatti, fotografa la città nel pieno della sua espansione architettonica e demografica, affollato cantiere di cose, persone e culture, celebrato in tutto il suo travolgente vigore, pur senza trascurare ombre e inquietudini; dall’altra sente il bisogno di fuggire i ritmi esagitati della metropoli per scambiarli con una vicinanza alla natura, di cui cerca di recuperare ed esplorare la tensione empatica. Siamo di fronte a una flânerie in versi che agli sfondi della «Berlino di pietra», efficace sintesi iconografica nella quale Joseph Roth celebrava l’epopea urbana, alterna i toni di un denso spiritualismo romantico. Questa doppia coloritura fa parte del bagaglio genetico espressionista, e Georg Heym ne è interprete finissimo e forse uno dei più coinvolgenti cantori.

LB: Qual è stato il criterio di scelta delle poesie? Ti sei confrontata con qualcuno, in una sorta di editing poetico?
RISPOSTA: Per la traduzione mi sono basata sull’edizione del ’22: Georg Heym, Dichtungen. Una decisione emotiva, ispirata dalle circostanze del tutto fortuite che mi hanno messo tra le mani questa vecchia pubblicazione, avvenuta nel decennale della morte del poeta, a cura di Erwin Loewenson, Kurt Pinthus e Kurt Wolff, gli amici che ne avevano seguito la parabola creativa. Ho pensato di ricavarne una scelta di liriche, tratte dalle tre raccolte lì riunite: L’eterno giorno, pubblicata quando il poeta era in vita, Umbra vitae e Tragedia dei cieli, entrambe postume. Mi sono poi appoggiata all’edizione di Schneider, che attraverso un lavoro rigorosissimo ha dato una sistemazione critica all’intera produzione heymiana, oltre a tener presente la straordinaria ‘pionieristica’ impresa di traduzione compiuta da Paolo Chiarini nel 1970. Chi sia in possesso di quel volume della ‘bianca’, simbolo fra l’altro di una stagione memorabile per Einaudi, non potrà non dedicare qualche minuto della lettura alla nota del curatore. Per l’edizione di Umbra vitae Chiarini non fa mistero di aver impiegato diversi anni di studio e ricerca. La complessità della parola di Heym, su cui si salda il carattere proteiforme del dettato espressionista, richiede infatti un’analisi scrupolosa, sul piano filologico e linguistico. A Chiarini va anche il merito di aver avvicinato il lettore italiano alla costellazione dell’espressionismo, una corrente che per le sue ‘ricadute’ politiche, storiche e sociologiche ha un ruolo di primordine nella narrazione della sfaccettata fisionomia del XX secolo. 
La plaquette di Via del Vento ha cercato di dare spazio ai temi salienti della lirica di Heym, agli aspetti più rappresentativi dell’immaginario del poeta. La mia selezione, orientata da questi criteri, è stata quindi proposta all’editore, per la messa a punto finale. Un importante contributo per l’esito del lavoro, lo ha dato generosamente Angela Staude Terzani, con cui mi sono confrontata per l’interpretazione di alcuni passaggi ostici; l’esercizio sulla lingua di Heym e questa fondamentale collaborazione hanno anche stimolato e arricchito la mia personale esperienza poetica.
Cominciare la nostra raccolta con una delle poesie su Berlino, non è stata una scelta volontaria ma il risultato della sistemazione dei testi, secondo l’ordine in cui si presentavano nell’edizione tedesca. Più che coerente con la celebrazione quasi innica della metropoli nel discorso heymiano. Una fatalità provocata dalla materia.

LB: Tradurre la poesia di Heym. C’è una similitudine, un’immagine che possa rendere l’idea di che cosa significa?
RISPOSTA: Non so se vi è mai capitato di camminare sui monti, poco prima che il sole scenda. Quell’ora in cui tutto sembra vivere un momento di sospensione e attesa, è tra le cose più perfette delle quali si possa fare esperienza. Ci si sente attraversati da una certa inquietudine al pensiero che la luce stia per venir meno, quasi una vertigine, che sale in noi e allo stesso tempo promana dal bosco. Animali e piante sembrano ritrarsi alla presenza del passeggiatore, come se si preparassero al mistero di una metamorfosi; si ha l’impressione di trovarsi in un luogo inabitato e vibrante. Tradurre la poesia di Heym significa evocare questo indefinito. 
 
LB: Questo libriccino copre un vuoto. In passato abbiamo registrato qualche movimento attorno alla poesia di Heym, poi è calato un silenzio per certi aspetti inspiegabile. Come mai l'Italia, che traduce molto (e molto anche dalla lingua tedesca), ignora oggi questo poeta? Qualche supposizione a riguardo?
RISPOSTA: Sì, per trovare una traccia della presenza di Heym, come si accennava sopra, bisogna andare indietro agli anni ’70 e ’80. Quel lavoro prezioso meriterebbe oggi di essere ripreso, nell’ottica di una rinnovata e più ampia considerazione del poeta. Sinceramente non saprei spiegare per quale motivo il silenzio abbia preso il posto di una ricerca che avrebbe potuto restituirci una delle voci più dense e significative tra le avanguardie del ‘900. Si potrebbe ipotizzare che la breve vita di Heym abbia suo malgrado contribuito all’idea di un mancato raggiungimento, nella sua carriera letteraria, di una vera e propria maturità artistica. Questo strano equivoco avrebbe forse inibito l’interesse di studiosi o semplici appassionati. Infine il carattere stesso dell’espressionismo, considerato talora dalla sensibilità dei lettori fin troppo lugubre e fosco, e ciò vale specialmente nel caso di Heym, dove il senso della morte riempie davvero ogni verso, questa Stimmung, si diceva, può darsi abbia reso meno appetibile, anche in rapporto a ipoetici scenari di pubblico, un’operazione editoriale. Tutti questi aspetti potrebbero aver finito per oscurare la straordinaria qualità del dettato heymiano.

LB: Cos'altro di Heym potrebbe essere "urgentemente" riproposto in traduzione?
RISPOSTA: L’intera produzione lirica. Un lavoro certamente lungo e molto impegnativo ma che, lo ripeto, permetterebbe di rendere disponibile in italiano una lezione poetica originale e altissima. 
 
LB: Quali sono i nuovi progetti nel tuo cantiere di traduzione e ricerca?
RISPOSTA: Mi sono appena cimentata nella traduzione di alcuni frammenti di Robert Musil. Tornando sul tema della ‘narrazione’, inaugurato dal volumetto dedicato a Benjamin-Heinle, l’ho scandagliato da una diversa prospettiva, quella della guerra e della dissoluzione del binomio stato-identità nella Mitteleuropa; il risultato è una straordinaria insospettabile allegoria dell’Europa attuale.
Sul fronte del mio percorso di scrittura, all’interno di un cantiere popolato da abbozzi ed esercizi, sta lentamente prendendo vita la mia prima raccolta poetica.

sabato 10 novembre 2012

Andrea Zanzotto e Dino Campana

Poco più di un anno fa, il 18 ottobre, si spegneva Andrea Zanzotto. Molte oggi le iniziative per ricordarlo, non ultima la riproposta di Filò per la collana di poesia di Einaudi (curioso, editorialmente parlando, questo primo approdo einaudiano post mortem, anche se sappiamo che in fondo il gruppo editoriale è legato a Mondadori). Anche chi scrive vorrebbe ricordare Zanzotto a partire da un breve, minuscolo libro, uscito proprio nell'anno della morte del poeta. Si intitola Il mio Campana ed è stato curato da Francesco Carbognin (Clueb, pp. 42, euro 9), autore anche di un importante saggio intitolato L' altro spazio. Scienza, paesaggio, corpo nella poesia di Andrea Zanzotto uscito da Poiesis nel 2007. Nel suo essere piccolo e breve questo libro attraversa un fascicolo fondamentale di percorsi poetici e universi fonici che rimandono al nodo irrisolto tra poesia e follia. Certo, come ricorda Zanzotto, "follia" è parola male-minore a cui ricorrere, in assenza di una parola più adatta.

Nel maggio del 2002 Zanzotto ricevette a Bologna il premio di poesia "Dino Campana". Il premio fu un'iniziativa molto importante, che purtroppo ha poi chiuso i battenti. Il discorso pronunciato da Zanzotto in occasione della premiazione è però uno dei lasciti preziosi di quest'esperienza del premio intitolato al grande "incatalogabile" di Marradi. Come viene giustamente ravvisato, è anche uno dei pochi discorsi e momenti in cui Zanzotto affronta apertamente la figura e soprattutto l'opera di Dino Campana. Campana è prima di tutto difficilmente catalogabile, Zanzotto inizia con questo punto fermo il suo discorso, quasi meravigliandosi poi che Campana sia rimasto escluso dalle sue Fantasie di avvicinamento, anche se - lo sappiamo - certe esclusioni talvolta sono più pregne di significato delle inclusioni. I nomi di Hölderlin e di Rimbaud (e il transito costante dalle parti di Recanati), nomi spesi non a caso da Zanzotto e per Zanzotto, conducono qui alla poesia di un grande "non-catalogato" del Novecento poetico italiano. Anche se Zanzotto non aveva quasi mai affrontato direttamente Campana prima di quest'occasione del 2002, l'incontro con i Canti orfici fu precocissimo nella sua gioventù. Inevitabile il ritorno, attraverso Campana, all'incontro con la poesia di Hölderlin, di cui ricorda quei versi dai quali si potrebbe ripartire ogni volta per leggere e rileggere l'intera opera zanzottiana: "Da ich ein Knabe war, / Rettet' ein Gott mich oft / Vom Geschrei und der Rute der Menschen [...]" (circa: "Quand'ero un fanciullo / spesso un Dio mi salvò /dal chiasso e dalla sferza degli uomini [...]"). Le precoci solitudini boschive e collinari di Zanzotto sono "sovrimpressioni" delle solitudini di Campana, poeta che Zanzotto sostiene di aver letto e "capito" tutto, sin dal principio, e del quale una certa tramatura versuale è sicuramente migrata ed è stata raccolta dal suo scrivere. Si presti attenzione: non è presunzione quel "capire tutto" in un poeta come Zanzotto. In Zanzotto quel capire tutto diventa un atto radicale di accoglimento della parola poetica altrui, proprio nel momento in cui, paradossalmente, diventa ammissione dell'impossibilità di avvicinare del tutto un poeta (ecco perché Fantasie di avvicinamento resta un titolo insuperabile). Ricordare Dino Campana e il proprio incontro con quella poesia diventa allora, inevitabilmente, motivo per ripercorrere i cardini di Hölderlin e Rimbaud (il Bateau ivre tradotto precocemente, il lavoro di "importazione" rimbaudiana di Diego Valeri a Padova, le carte di Hölderlin studiate anche grazie all'amicizia con Reitani) e ulteriore stimolo per ritornare su quell'universo fonico della sua fanciullezza, laddove si rincorrono il fantasioso latino popolare mediato dalla chiesa e quello maccheronico, il tedesco di certi parenti emigrati in Austria con il tedesco di Hölderlin, il francese di Rimbaud e quello della migrazione, le strofe del Tasso giunte per un'impervia via "popolare" nella recita di una zia e, naturalmente, il dialetto. 

Zanzotto, nel suo discorso, rimane fedele all'idea di un Campana non catalogabile, così come dovrebbe essere tutta la poesia. In effetti questo è stato anche il destino critico del poeta dei Canti orfici.  Egli ricorda inoltre che "quanto finora è stato scritto sull’opera di Campana è, complessivamente, di alto livello; eppure, vi restano alcuni interstizi inesplorati vere e proprie zone interdette alla ratio." Poi si lancia in una di quelle sue "fantasie di avvicinamento" che a mio avviso ne fanno uno dei più grandi profili critici del Novecento e che trasformano questo piccolo libro in un pezzo importante del suo lascito. So che lui nicchierebbe, ma per darvi un assaggio di questa grandezza critica riporto per intero questo passo:

"Una poesia come quella di Campana, infatti, si configura come un flusso ininterrotto di armonie e di disarmonie di serie melodiche e semantiche che si sovrappongono e si intrecciano: proprio per questa ragione, la poesia di Campana risulta terribilmente difficile da cogliere in questo ipnotico sovrapporsi di strati armonici, nel tentativo, magari, di rifondarvi l’intera gamma delle associazioni foniche - attraverso gli strumenti offerti dalle più recenti acquisizioni delle Scienze Umane - sulla base dei condizionamenti cerebrali, e via dicendo. Ma interessa davvero tutto questo? Il riuscire a fornire ipotesi attendibili circa i processi neurobiologici soggiacenti alla produzione di privilegiati reticoli fonici e semantici, determinati dall’iterazione di elementi timbrici e lessicali e dal loro disseminarsi nel testo? Certo, non c’è una sola virgola, in un testo poetico, che non mi interessi. Ma credo anche che per quanto il “mentore” che ci avvicina a una personalità come Campana sia diligente, il polverio delle discontinuità mentali di Campana giunga, in qualche oscuro modo, a fondersi al latteo suono, direi, dei suoi versi, a queste maree di armonie logiche e di armonie foniche che si inseguono incessantemente, si intersecano, si fondono e si differenziano per ricongiungersi ulteriormente, nelle sue poesie."

lunedì 5 novembre 2012

"Una speculazione sul grano". Un racconto di Frank Norris

Esce in questi giorni nella collana "Mercanti nel tempio" di Amos Edizioni Una speculazione sul grano, un bel racconto di Frank Norris (pp. 48, euro 5). Il titolo originale è A Deal in Wheat e ho avuto la fortuna di esserne il traduttore. Vi troverete tra le mani una quarantina di pagine micidiali, dove scorrono dei fotogrammi delle prime grandi speculazioni di inizio Novecento, quando gli eccessi del capitalismo iniziavano già a mostrare il loro poco amichevole volto. Bellissimo uno dei cinque capitoli del racconto, incentrato sulla ferrovia, tema che, proprio assieme al grano, costituisce il binario preferenziale della narrativa di questo autore morto poco più che trentenne. Per quel che riguarda Frank Norris, in Italia assistiamo ad una progressiva e lenta riscoperta. La letteratura americana si conferma un bacino pressoché inesauribile per le scoperte e anche per le riscoperte, le quali richiamano talvolta la necessità di nuove traduzioni, anche se si è sicuramente allargato il gruppo dei lettori che può affrontare queste letture in lingua originale. Pensiamo ad esempio ad un autore come Erskine Caldwell, interessantissimo, ma da ritradurre oltre mezzo secolo dopo oppure, se possibile, da leggere direttamente in originale.

Questo il link al sito dell'editore.

Dalla quarta di copertina:

Il prezzo del grano è crollato, gli agricoltori sono costretti a cambiare radicalmente vita, a migrare dalle grandi coltivazioni estensive alle città. In mezzo, i giochi dei ribassisti e dei rialzisti, dei loro zelanti operatori di borsa e la ferrovia, assunta a simbolo di un’epoca e delle sue contraddizioni. Agli inizi del Novecento pochi scrittori hanno saputo narrare con altrettanto vigore l’epopea della produzione del grano negli Stati Uniti. La morte prematura impedì a Norris di portare a termine una trilogia su questo tema fondante della narrativa americana, eppure, con il presente racconto, egli ci offre un giallo della finanza perfettamente compiuto, una sorta di bomba a orologeria, che fa a pezzi il giocattolo della speculazione per mostrarci com’era fatto dentro.

Frank Norris (Chicago 1870 - San Francisco 1902) scrisse romanzi, racconti e saggi. In italiano, oltre a Una speculazione sul grano, sono disponibili Chicago (La febbre del grano) e La resa di Santiago e altri racconti di guerra e di frontiera per Medusa Edizioni e Vademecum dello scrittore per Endemunde.

domenica 4 novembre 2012

"Staminalia" di Armando Massarenti: i nemici della ricerca scientifica

Ripescaggi #17










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In un paese dove tutti (non uno escluso) i montesquieuani poteri fanno  la gara per mettere i bastoni tra le ruote alla ricerca scientifica, non guasta ripescare una recensione del libro forse più importante scritto dal giornalista de Il Sole - 24 Ore Armando Massarenti. Staminalia. Le cellule «etiche» e i nemici della ricerca (pp. 205, € 14,50) uscì da Guanda nel 2008 e ancora oggi ci riporta, senza troppi giri di parole, tra le difficoltà enormi ed eccessive affrontate da un paese che con la scienza ha un rapporto sempre più guasto. Se ben ricordo questa recensione uscì sulla rivista "Che Libri".
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La ricerca sulle cellule staminali è probabilmente il più importante capitolo aperto dalla medicina negli ultimi anni. Spesso se ne sente parlare in modo discontinuo e comunque mancano studi avvicinabili dal lettore comune che affrontino una rivoluzione così importante, sia dal punto di vista della ricerca (cosa sono queste cellule particolari, come sono state scoperte, perché si ripongono in loro così tante aspettative nello sviluppo della medicina futura) sia dal punto di vista dell’impatto che la loro scoperta ha avuto e continua ad avere nella società e nei media.
Armando Massarenti, giornalista-filosofo de Il Sole – 24 Ore, da anni vicino ai temi dell’etica e membro dell’Osservatorio di Bioetica della Fondazione Einaudi, ci consegna con questo bel libro, puntuale e necessario, la storia di quest’avventura, con un occhio attento ed entusiasta rivolto alla rivoluzione scientifica in atto e l’altro, concentrato sull’Italia, vigile nell'individuare i “nemici della ricerca”, i meccanismi e le posizioni intellettuali insostenibili che hanno portato a barcollanti tesi sulla sacralità dell’embrione e alla cosiddetta via italiana nella ricerca sulle cellule staminali.

Da un punto di vista scientifico nonché divulgativo, è indispensabile distinguere tra cellule staminali multipotenti (quelle di un organismo in formazione come l’embrione), staminali totipotenti (quelle del pre-embrione, in grado di trasformarsi in qualsiasi tipo di cellula o tessuto) e staminali adulte, le uniche sulle quali si sia concentrata la ricerca in Italia, dal momento che sembrano esentate da discussioni di bioetica. Il valore di queste cellule adulte, comunque fuori discussione, è però stato artatamente “pompato” e messo in contrasto con quello delle altre cellule staminali con lo scopo principale di difendere accanitamente la sacralità di migliaia di embrioni che, si badi bene, inutilmente, ogni giorno, finiscono negli scarichi dei laboratori (la legge 40 vieta infatti il loro utilizzo senza spiegare quale sia il destino degli embrioni congelati). Da ultimo, non va dimenticato che la volontà di sminuire, vietare e tacciare come immorale la ricerca sulle staminali embrionali ha, dall’altro lato, creato aspettative esagerate sulle staminali adulte, le sole staminali “etiche”.

La bellissima illustrazione di Guido Scarabattolo in copertina ci mostra un prelato chino intento a guardare attraverso un microscopio. Cattolici, protestanti, amministrazione Bush: molti malati sono stati e verranno terribilmente delusi dal miracolismo relativo alla ricerca sulle sole cellule adulte prodotto da questi attori sociali; e questi nemici della ricerca avranno, con ogni probabilità, gioco facile in futuro ad affermare che la ricerca sulle staminali embrionali prometteva solo false chimere. Ma come sarà possibile? Se è proprio tale ricerca che si saranno adoperati ad impedire prima ancora che potesse dare i propri frutti? Urge correggere i molti vizi e le distorsioni di pensiero attorno a questo dibattito, ecco perché questo libro è quant’altri mai necessario.