mercoledì 16 gennaio 2013

Long Play e altri volteggi della puntina. Ritorna l'Adorno in musica

Trovo tempestiva e opportuna questa proposizione di alcuni scritti musicali di Theodor Wiesengrund Adorno. Long play e altri volteggi della puntina (Castelvecchi, pp. 64, euro 9) è un volumetto che rimette in circolo alcuni dei contributi più rilevanti della riflessione adorniana sulla musica. Dicevo "tempestiva" e "oppurtuna": tempestiva perché è bene tornare a parlare di musica e di critica musicale con chi ha insegnato a farlo, tanto più in un periodo dove le preoccupazioni sulla smaterializzazione della musica sembrano soverchiare qualsiasi altro dibattimento; opportuna perché, come ottimamente riesce anche Massimo Carboni nell'utile prefazione, una pubblicazione del genere contribuisce ad allontanare Adorno da quell'inutile casella di "apocalittico" in cui è stato più volte rinchiuso, operazione che ha contribuito non poco ad inaridire il portato della sua riflessione. Chi scopre Adorno, anche nel dialogo con gli artisti e i poeti, nelle lettere ad esempio, potrà invece iniziare ad apprezzare un filosofo persino simpatico, immerso nelle relazioni umane, tutt'altro che apocalittico (e tantomeno "integrato"), una persona posseduta da una sorta di dàimon che lo porta a formulare riflessioni basilari sul quel rapporto dialogico tra opera e critica, sulla critica come esigenza-interrogativo intimo posto dall'opera, sugli scarti e sui ritardi costituzionali tra opera e critica, sentite come due facce di un'unica pagina, le quali dovrebbero tornare a esser visitate e sfogliate con un unicum. In altre parole abbiamo facile gioco a dire che la critica è morta (quasi una frase di comodo che ricorre nei contesti più disparati, ormai); se la critica è morta allora con lei è morta anche la musica, è morta la poesia e sono davvero morte le altre arti. Ma non voglio arrivare al galoppo a Hegel o a quello che ha innescato la sua riflessione sull'arte. Torneremo alla fine su questo punto importantissimo che interfaccia opera, critica e oggi anche il giornalismo; l'importante ora è mettere a fuoco subito questa profonda necessità reciproca di critica e opera che Adorno torna a ricompattare, soprattutto nell'ultimo contributo di questo libretto.

Il volume si apre con Volteggi della puntina, saggio sul grammofono e sul fonografo: qui potrete leggere la celebre similitudine tra piatto del fonografo e tornio del vasaio ("Il piatto dei fonografi è paragonabile al tornio del vasaio: la massa sonora viene plasmata su di esso e la materia è già data. Ma il vaso sonoro che così nasce resta vuoto. Sarà l'ascoltatore a riempirlo"); il libro poi prosegue con il brevissimo e incisivo saggio sulla Forma del disco, e affonda quindi nella rivoluzione del "long play" nel successivo terzo contributo intitolato Opera e long play. Il tutto si chiude con un più articolato intervento a una conferenza del 1967, qui tradotto col titolo di Riflessioni sulla critica musicale. Si tratta senza dubbio del saggio più interessante, dove la riflessione si condensa e, per come è strutturata, per come questa si apre, presenta persino una certa intercambiabilità del discorso con altre critiche immaginabili dal lettore (letteraria, d'arte). Affrontando questi quattro contributi in sequenza non è difficile chiedersi, semplicemente: e oggi? Che cosa è successo alla musica, oggi? Quella della smaterializzazione è solo una finta "rivoluzione" o è una realtà che mina alla base l'essenza di questa pratica umana, l'arte che più di ogni altra dialoga con l'incertezza, il non sapere davvero dove la musica inizia e dove finisce (per riprendere qui un celebre pensiero di Vinko Globokar). Da critici, forse bisognerebbe tornare a interrogare gli artisti ponendo domande terra-terra, elementari: anche questo in parte sembra essere l'insegnamento adorniano, con buona pace di chi l'aveva posto nel severo "piedistallo" profetico e apocalittico.

Conclusa la lettura sale come un automatismo una domanda: ma perché il filosofo e sociologo Adorno si interessava così tanto di musica? Adorno, con la sua riflessione, ci ricorda implicitamente qualcosa di semplice e importante: la musica è sempre stata parte fondamentale della riflessione filosofica. Dai pitagorici a Nietzsche, passando per Leibniz o Bloch (di Carlo Migliaccio, Musica e utopia. La filosofia della musica di  Ernst Bloch), la speculazione filosofica sulla e nella musica ha significato eo ipso una parte fondante e costitutiva del percorso filosofico dell'uomo. Oggi in questa si registrano sbandamenti, divagazioni, vago entertainment e si rischia di perdere quest'unità costitutiva dell'essere umano tra filosofia e musica, una conquista antica e precoce che stiamo progressivamente smarrendo. Pensiamo anche a compositori come John Cage, all'inevitabile riflessione attorno (dentro?) al silenzio, a Luciano Berio, alle frequentazioni tra musica e teoria della Gestalt, al Wittgenstein musicale, oppure interroghiamoci sull'esistenza di una grandissima percussionista sorda come Evelyn Glennie, alla quale anche il giovane filosofo italiano Andrea Baldini ha dedicato studi pionieristici in un paper intitolato Touching the sound che mi è capitato di leggere tempo addietro, su consiglio del sempre stimolante Davide Sparti.

E allora ritorno sul binomio arte-critica sollevato in apertura, per rispondere in un sol colpo (ma c'è sempre spazio per i commenti, se vorrete) a interrogativi caduti lungo il percorso di chi vi scrive. Ci ritorno perché ci ho pensato continuamente durante tutta la lettura del quarto saggio di questo libro. Qualche volta, ad esempio, più o meno esplicitamente, mi è stato chiesto se con un blog del genere (e prima ancora con le riviste) intendevo fare giornalismo o critica. La risposta è ovviamente negativa per entrambi i casi. Del giornalismo sono sempre mancati i soldi per i quali, da quando il giornalismo esiste, il giornalismo si fa, con esiti che vanno dal deprecabile all'eccezionale. Per fare critica mi mancano invece innumerevoli (troppi) requisiti, culturali e probabilmente pure morali. Il punto non è quel che faccio io, ma la convinzione fondamentalista di molti, cioè che sia necessario schierarsi nettamente sul versante giornalistico o su quello critico, dimenticando anche ciò che comunemente finisce sotto l'etichetta di divulgazione e che è spesso la base della crescita culturale. Tale netto schieramento di campo, a mio avviso, oggi si configura impraticabile. Il buon giornalismo ha lasciato intuire enormi potenzialità, ben più incisive della critica, mentre la critica spesso si è racchiusa a guardarsi l'ombelico in cimiteri disciplinari alimentati soltanto dai lumini della "pubblichite" accademica. La questione è troppo ampia e andrebbe affrontata con una certa "tensione rilassata" di fondo, senza fondamentalismi appunto, consapevoli che il mondo non è finito il mese scorso e probabilmente non finirà domani. Finito, soprattutto in accezione diversa, estetica, è l'uomo. Anche un recente scritto di Claudio Giunta su Gianfranco Contini mi aiuta nel ragionamento e mi conforta: Contini è stato quasi certamente il critico letterario più intelligente e importante del secolo scorso, una figura capitale per la cultura italiana e non solo. Eppure non è detto che abbia necessariamente scritto le cose importanti e abbia depositato i saperi oggi irrinunciabili. Claudio Giunta riconosce ampiamente i meriti del maestro, la sua intelligenza difficilmente raggiungibile, ricordata dalle tante iniziative del 2012 appena concluso, anno del centenario della nascita. Anche chi scrive non può che silenziosamente accodarsi in questo duraturo attestato di stima intellettuale e morale. Ma allo stesso tempo, tra i primi a dimostrarlo, Giunta ha il coraggio di concedere al critico e linguista di Domodossola un'iniziale irrecuperabile distanza, consapevole e giusta, condivisibile, che gli fa concludere che "le cose di cui lui si è occupato non sono esattamente le cose che a me interessano, e che i problemi che lui si è posto – le domande che ha fatto ai libri, diciamo – non sono esattamente quelli la cui soluzione, o (meglio) la cui riformulazione a me sta a cuore." (Tra l'altro, sia detto per inciso, non dovremmo dimenticare pure l'umiltà di Contini, il suo lavoro "sporco" che l'ha portato ad essere il critico che tutti stimiamo: quanti sedicenti critici sarebbero oggi disposti a immergersi in quel lavoro? Quanti critici fondamentalisti richiamano per sé l'etichetta di critico senza un grammo di quell'immensa fatica?). Detto in altre parole, non è forse nel Breviario di ecdotica o in altri scritti continiani che rintracceremo le mosse più interessanti per raccapezzarci in questo tempo difficile. I confini sono frastagliati: abbiamo bisogno di leggere questo Adorno, abbiamo bisogno di studiare Contini e continuare a stimarlo, in tutti i sensi del verbo "stimare", abbiamo estremo bisogno di comprendere i movimenti della scienza d'oggi, come abbiamo estrema necessità di capire da dove potrebbe venire una rottura di continuità importante, che illumini un po' questo tempo e che faccia vivere anche alle intersezioni tra arte, critica, scienza e politica una nuova fiorente stagione. 

Perdonerete quest'incursione, dove ho accennato persino ai territori disordinati di questo blog. Prendetevela con Adorno. Si parva licet... Ma tutta questa tirata serviva per rispondere a domande che mi sono state poste strada facendo, in questi anni, spesi anche tra riviste e blog, per ribadire ancora una volta che i fondamentalismi non ci fanno per niente bene. E per rimediare almeno un po' vi lascio a Evelyn Glennie... o preferivate Globokar?



2 commenti:

  1. Grazie di questo testo e anche dei consigli di musica... S.

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  2. Grazie per l'interessante articolo e tutti i riferimenti consigliati!

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