sabato 29 giugno 2013

da "L'obbedienza" di Nicoletta Bidoia

Una poesia da #22


Nicoletta Bidoia si diverte in una maniera autentica a costruire teatrini in carta e collage. Potete andare su Youtube per vedere come il divertimento si trasformi in questo suo gesto creativo, quasi misterioso e ampio, in punta di piedi. Negli ultimi tempi mi ha detto più di una volta di aver tralasciato la poesia, verso la quale era continuamente insoddisfatta e, quasi a compensazione, sottolineava sempre di aver abbracciato quest'altra attività legata ai teatrini e ai collage. (Mi tornava in mente Montale che dipingeva coi resti del caffè.) A leggere le ultime poesie che ha scritto, dopo molto tempo, ho pensato che non abbia affatto smesso di scrivere, pensare e occuparsi anche di poesia. Forse ha soltanto tralasciato l'altro gesto, quello di riversare la poesia su carta, o su altri schermi, come  ad esempio quello che avete davanti. Non pubblico però questi inediti, ma ripesco dal suo libro più bello intitolato L'obbedienza uscito per Lietocolle nel 2008 (pp. 94, euro 13, con una nota di Isabella Panfido). Quel libro seguiva altri due, usciti sempre per lo stesso editore, intitolati Alla fontana che dà albe (2002) e Verso il tuo nome (2005, prefato da Alda Merini). Data la brevità dei testi scelti e di buona parte dei testi di questo libro, ho deciso di pubblicarne più d'uno. Anche perché non posso non pescare dalla sezione d'apertura intitolata La mappa che vale da sola la ricerca di questo "libriccino". Il distico caproniano "bruciata ogni ormai inattendibile / mappa, nessuna via regia" sta in posizione d'epigrafe di questo segmento del volume che prende lo spunto dalla notizia di una pattuglia di alpini svizzeri sorpresi da una bufera di neve sulle Alpi, dati per dispersi e poi tornati al campo grazie ad una mappa che si rivelò essere... (lo scoprite tra qualche riga). Dall'altro lato non posso fare a meno di riscoprire alcuni testi molto brevi che possiedono però un'escursione termica elevata. Rilevare questa escursione termica a distanza di cinque anni dalla prima lettura di questo libro è qualcosa di insolito, come certi mutamenti che si avvertono sulla superficie del proprio corpo, non in tutte le età della vita a dire il vero. In mezzo, in mezzo a questi cinque anni dalla prima lettura alla rilettura (e in genere dalle prime letture alle riletture) che cosa c'è? Cosa passa? Cosa cambia?

(Per concludere, ricordo anche questo link della trasmissione "Fahrenheit" di Radio3.)













ah! sans que rien ne me soutienne ni me guide
que la puissance de l’erreur
Philippe Jaccottet*


Il nostro andare è uguale
a chi non sa vedere, a chi
ogni giorno si separa e chiama
e di domande sfinisce l’eco
e aspetta.

               Ma so di alpini
che, perduti in guerra,
ritorno fecero con una mappa
e i nodi sciolsero su quella carta
che solo dopo si scoprì sbagliata.

Non di Alpi lei parlava
ma di Pirenei.

-

Smarrirsi venne prima, 

già nelle pianure della nebbia. 
Queste sono zone dove si crede soprattutto 
alla verità dei corpi, al loro segnale fermo 
tra le idee. Le voci, quando c’è bruma, 
restano cenni di esistenza, 
promesse di vicinanza tutte da provare. 
Si va piano, specialmente la notte 
e ogni passo che si salva 
rassicura il passo dopo. 
Per timide prove si procede 
in cerca di una qualche trasparenza, 
di uno slargo, di aria
che non offuschi l’aria.

-

La risposta è dire freddo
se si trema e chiara
se c'è luce: accordare
la realtà con le parole,
saperlo ancora fare.

E dopo, ma solo dopo
aver tradotto bene il cuore,
morire di neve
o viverne il bagliore.

*: “ah! senza che nulla mi sostenga né mi guidi / tranne la potenza dell’errore”
Philippe Jaccottet

giovedì 27 giugno 2013

"Le sabbie immobili" di Giuseppe Pontiggia

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #16


Se Pontiggia vedesse il titolo che ho dato a questa rubrica forse sfodererebbe la sua personale definizione di "rileggere": "Si usa per i classici che si leggono per la prima volta". Dopo aver pensato a questo, mi sono detto che forse il titolo più corretto per questa rubrica di Librobreve sarebbe stato "Rimessa in circolazione di classici o quasi classici (dentro e fuori catalogo)." Ma non è di questo che voglio parlarvi, e ormai non cambio più il titolo. Semmai ne invento uno nuovo. Ho citato questo esempio per darvi l'idea dell'efficacia e della gittata della sua riflessione linguistica. A dieci anni esatti dalla morte di Giuseppe Pontiggia, credo siano molti i suoi libri che potremmo leggere/rileggere per rinsaldare un pensiero di grande e importante scrittore. Ma mi soffermo su uno dei suoi libri più brevi e ancor oggi efficacissimo. Per ricordarlo allora riparto da Le sabbie immobili, stupendo titolo di un libretto concentratissimo come il succo di limone. Si tratta di un volumetto davvero smilzo costituito da paragrafi assai brevi quando non da veri e propri aforismi. Comparve nel 1991 per la casa editrice Il Mulino e poi, in seguito, come tutta l'opera di Pontiggia, confluita tra l'altro anche nei Meridiani, proposto nel catalogo Mondadori assieme a titoli ancor più noti e fortunati. Chi era abituato a seguirlo sulla sua pagina di "Domenica" de Il Sole-24 ore, qui ritroverà in fondo quel Pontiggia, attento ai minimi accadimenti nel corpo della lingua italiana, e quindi della società che in quella lingua si esprime.


Ho pensato che per ricordare Pontiggia e questo libro brevissimo, avrei potuto fare a meno di dilungarmi in tanti discorsi o di usare troppi aggettivi (grande critico dell'uso dell'aggettivo fu proprio Pontiggia!). E allora credo che per una volta abbia senso ricordare l'autore e l'opera con la logica dell'avverbio passim latino, pescando un po' qua e un po' là, senza premeditazione, senza rispettare l'ordine di comparsa nel libro, ma riaprendolo soprattutto nelle pagine degli aforismi dedicate alle parole (spesso proprio agli aggettivi), alle concrezioni, ai tic, ai controsensi, magari soffermandomi su quelle più legate alla condizione "italiana" e tralasciando a malincuore il paragrafo Proustiano che a mio avviso costituisce la coppia di pagine più bella del libro. Se vi fidate, è semplicemente un tralasciare per invitarvi con più forza a riprendere in mano Le sabbie immobili, così come le altre sue opere. Buona lettura. 

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ONESTAMENTE Più che un avverbio è una perorazione, un appello. Fa pensare immediatamente al suo contrario, come le donne che invocavano il pudore quando stavano per perderlo.

SINCERAMENTE Lo stesso che onestamente. Sono sinceramente contento per te, credimi. Come credergli?

REALIZZARSI Aspirazione diffusa. Temibile soprattutto quando si realizza. Non basta a distogliere gli altri dallo stesso obiettivo.

GIOVANE RAGAZZA Per distinguerla da vecchia ragazza.

AEROMOBILE Termine usato dagli altoparlanti negli aeroporti italiani, quando l'aereo ritarda. Esprime tecnicità, efficienza, rinnovamento.

CASUAL Il contrario di casuale. Classico di massa. Stile casual. Ha influenzato anche la letteratura. 

CULTURA Facile da definire. Tutto quello che non pensiamo sia cultura è cultura.

SERVOSTERZO Amato dagli automobilisti. Dà agli italiani l'illusione di avere quello che non hanno mai avuto.

MEDIA Vanno pronunciati "midia" per differenziarli dai mezzi di comunicazione di massa.

DIALOGO Ricercato da tutti, purché non sia reciproco.

DEVO DIRE Di successo recente quanto fulmineo. Esprime acquiescenza a uno stato di necessità. Esempio di sopraffazione dimessa. Democratico.

VINCENTI Basta guardarli.


CARISMA Parola che lo sta perdendo, per averlo distribuito a troppi.

RECITARE Come recita la guida, la legge, la didascalia. In un paese di attori, anche l'orario ferroviario recita.

QUI LO DICO E QUI LO NEGO C'è tutta l'Italia.

lunedì 24 giugno 2013

Patria. Ricordo di Silvio Lanaro

Era già da qualche giorno che riflettevo su una cosa: credo di non essere tra i fortunati che nella vita possano dire di aver incontrato un maestro. Certo, altre fortune e altre disavventure mi riguardano, ma non quella di poter usare serenamente l'espressione "il mio maestro". Mi dispiace. Poi stamattina mio fratello, appassionato lettore di cose di storia, mi ha mandato un messaggio: "Hai visto? Silvio Lanaro è morto". Questo accadere simultaneo dei miei pensieri e l'apprendere della notizia della morte di quello che è stato, in ambito universitario, il professore più importante, mi ha fatto riflettere e scrivere di getto queste righe. Perché Silvio Lanaro per me è stato quasi un maestro. Certo non si può dire che io sia stato allievo di Silvio Lanaro e nemmeno si può dire che lui sia stato mio maestro. Troppo breve e troppo unidirezionale è stata la nostra frequentazione, quantomeno de visu. Maestro e allievo si scelgono assieme, devono potersi chiamare per nome, in quel rapporto che proprio oggi, in burocratiche e cianotiche discussioni di didattica e tecnologie applicate alla didattica, andrebbe nuovamente riscoperto, senza la paura di sembrare "inattuali". Non sono contrario alla tecnologia applicata alla didattica (proprio ieri sera leggevo con interesse un articolo sul ruolo che possono rivestire i videogiochi nell'apprendimento scolastico). Tuttavia, credo sia sempre più urgente la riscoperta dell'importanza di chi ti insegna a pensare criticamente, una volta per tutte e una volta per sempre (e quindi continuamente), per comprendere fino in fondo l'importanza di tale rapporto, anche al di fuori dei dipartimenti di filosofia, dove il binomio maestro-allievo sembra ancora tenere, seppur in pose che spesso mi appaiono affettate (e con il proverbiale prosciutto affettato sugli occhi). Silvio Lanaro è stato, più semplicemente, mio professore di storia contemporanea nel corso di laurea in Scienze della comunicazione a Padova. Non posso scrivere "mio maestro", ma dico che mi sarebbe piaciuto averlo avuto come maestro (e quindi essere stato suo allievo), anche per la voce, la mimica, la prossemica, gli scatti e i baffi, per i sorrisi e le incazzature. Anche per il suo non detto. In fondo un maestro è anche questo: anima e corpo e tra questi una voce che trapassa.

Ricordo le sue lezioni ascoltate dai banchi scricchiolanti dell'aula N del Liviano. Correva l'anno accademico 1998-99, era già caldo (quindi credo fosse il secondo semestre). Aveva preparato un corso monografico intensissimo sugli intellettuali e la crisi degli anni Trenta. Un percorso ardito e ordito tra dati economici, letteratura, importanti libri di scienza sociale pubblicati in quegli anni. Percorreva le pagine di Keynes e Polanyi, Kelsen e Schmitt, Croce e Gentile, Koestler e Orwell, Céline e Hamsun, Gide e Malraux, Lederer e Adorno, i viaggi in Unione Sovietica dei coniugi Sidney e Beatrice Webb, il cinema della Riefenstahl e quello di Loach, le opere e la riflessione di architetti "fascisti" oggi studiati in tutto il mondo come Marcello Piacentini: difficile non appassionarsi a un corso così sapientemente intelaiato e raccontato dalla sua voce microfonata. Un giorno disse, con quella sua immodestia deliziosa per la quale penso talvolta che mi sarebbe piaciuto averlo davvero come maestro, che avremmo dovuto girare molto in Europa per trovare lezioni belle come le sue. Non ne ho la controprova, ma mi sono fidato, quasi come si fida un allievo, come ci si fida di un maestro che racconta commosso che su quegli stessi banchi, il 9 novembre 1943, in tanti ascoltarono dal rettore Concetto Marchesi il discorso inaugurale dell'Anno Accademico 1943-44. La precisione statistica unita alla sua abilità linguistica (in questo sicuramente vicino all'amico Mario Isnenghi) trasformavano ogni lezione in attenzione, una forma di "educazione all'attenzione", per usare la formula efficace che Simone Weil vuole a definizione di "cultura". La storia non era mai disgiunta da una riflessione sul mestiere di storico. Erano belle pure le sue arrabbiature, se l'attenzione mancava, quando gli studenti iniziavano a far brusio e a preoccuparsi un po' troppo per orari di autobus o treni da prendere al volo.


Tutta la sua produzione è meritevole di attenzione, lettura e rilettura. Non spetta certo a me, ora, stabilire l'orografia della sua bibliografia, che tutta s'attesta ad altezze rimarchevoli. Penso ora al bellissimo saggio su L'idea di contemporaneo che chiude con una sorta di lectio magistralis il manuale Storia contemporanea Donzelli (un esperimento che rappresentò un modo nuovo di intendere la manualistica storica). Accanto ad opere ponderose come la cura del volume dedicato al Veneto per la Storia d'Italia. Le Regioni di Einaudi, alla più recente raccolta di saggi intitolata Retorica e politica uscita due anni fa per Donzelli, al fondamentale Nazione e lavoro (uno dei suoi libri più discussi) e al più volte ristampato Storia dell'Italia repubblicana, ritorno col pensiero ad alcuni suoi libri più brevi e altrettanto belli e azzardo l'ipotesi che in questi libri più brevi Lanaro esprimesse ancor meglio la sua statura di storico. Si prenda ad esempio L'italia nuova. Identità e sviluppo (1861-1988), uscito nella collana "Nuovo Politecnico" di Einaudi, uno studio dove si abbraccia la grande capacità di sintesi, la crepuscolare (e perciò più acuta, dolorosa e intensa) abilità di far cozzare proficuamente il dato numerico con quello letterario, le statistiche nude e crude suonate come una partitura accanto all'analisi di un romanzo o ad un'opera di inventiva (ora mi ritornano alla mente le sue scorribande sull'opera di Vitaliano Brancati o la grande lettura dedicata al fenomeno Guareschi), per giungere a quel suo contributo di epistemologia storica intitolato Raccontare la storia. Ma per ricordare Silvio Lanaro oggi, vi lascio con il suo libro forse più breve ed enigmatico. Uscì nel 1996 per Marsilio con il titolo magnificamente inattuale, e forse genialmente surrettizio, di Patria. E quel titolo ovviamente non era né inattuale né surrettizio. Il sottotitolo: Circumnavigazione di un'idea controversa. Il periplo compiuto da Lanaro con quell'opera assai breve era notevole. E rilanciava nel dibattito la patria. E non mi riferisco alla generica idea di patria, bensì alla parola "patria". Mirabile fu la perlustrazione di una letteratura mai scandagliata in precedenza e relativa al caso francese. Proprio quel volume costituisce oggi uno dei più bei lasciti di un maestro così lontano dal conformismo giornalistico di tanti sedicenti storici; quelle tesi sulla non ancora possibile agonia della patria e, anzi, sul ruolo primario della patria a garanzia e protezione delle parabole umane suonano oggi ancor più chiare, nitide, proprio come la bellissima citazione di Piero Calamandrei che Lanaro isolò per chiudere quel libro. Forse Patria ora si può intendere come un estremo tentativo di salvare dalla pattumiera lessicografica della storia una parola che non ha affatto esaurito il proprio battito. Che io sappia, non sono molti gli storici che dobbiamo ringraziare per un simile gesto, in fondo così generoso e curativo dei malesseri europei e internazionali.

venerdì 21 giugno 2013

"Mus.cio e roe" (Muschio e spine) di Fabio Franzin

Ripescaggi #26












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Fabio Franzin è tra i selezionati della prossima edizione del Premio Viareggio. Questa è una bella notizia. Ripesco qui una recensione al suo Mus.cio e roe (Muschio e spine) uscito per le belle edizioni de Le voci della Luna nel 2007 (pp. 152, € 12,00) nella quale esordivo evidenziando il suo progressivo aprirsi verso un pubblico di lettori più ampio. Tale processo è evidentemente ancora in corso, data la notizia che qui condivido con voi.
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Già da qualche anno Fabio Franzin non è più quel che si dice un outsider della poesia italiana. I suoi libri hanno iniziato a circolare con maggior frequenza e intensità, così come la sua voce, che non ha mancato le occasioni per farsi ascoltare nell’ambito delle più belle iniziative di lettura poetica. Parallelamente, i suoi libri hanno avuto frequenti riconoscimenti nei premi di maggiore importanza e affidabilità (non di certo nei premi nei quali viene richiesta una “tassa di lettura” per poter partecipare: capita di leggere simili invenzioni linguistiche, di questi tempi, in alcuni bandi).
Questo Mus.cio e roe, in omaggio al detto che vuole la poesia sempre inedita, è, in parte, un’opera di riscrittura e revisione di due importanti opere in dialetto ormai irreperibili, pubblicate quasi clandestinamente nel 2000 e nel 2005: El coeor dee paroee e Canzón daa Provenza (e altre trazhe d’amór). Franzin, nella sua nota, spiega le ragioni di questo libro in termini prettamente pratici (irreperibilità dei libri citati, scarsissima circolazione e fruizione all’epoca della loro uscita). Al lettore di oggi il libro si offre tuttavia lontanissimo dai caratteri dell’antologia. Questo volume, completato da una trentina di testi inediti, mostra invece il senso dell’urgenza, il desiderio di portare in salvo un universo, ricostruito e rielaborato sotto la luce, i colori e i silenzi della scrittura in dialetto. Un universo di affetti familiari, ritratti, vicende collettive e paesaggi cantato con gli accenti della sofferenza, dell’assenza, della pietas e finanche dello sdegno della migliore poesia civile. Si prenda, ad esempio, il caso del muschio, vero e proprio topos della poesia di Franzin tanto da fornire spunto per la titolazione, intravisto con stupore e disappunto persino sugli scaffali di un centro commerciale proprio nel momento in cui, per l’autore, è più forte il valore di questo vegetale come testimone degli affetti e della memoria famigliare.

Implicitamente Franzin rimanda continuamente a un mondo in crollo, quasi in rovina. Non si tratta di catastrofismo nel senso comune del termine. Siamo nell’ottica di qualcosa che cambia forma, si trasforma. E il mondo che Franzin vorrebbe trarre in salvo non è un nemmeno un mondo rivisitato con nostalgia. Non a caso Franzin scrive “giostra della nostalgia”, quindi qualcosa che gira e non è a senso unico, qualcosa che compie una rivoluzione. Succede nella poesia iniziale della sezione Dai paesi al presepio (Dai paesi al presepe): Me piase i paesi che i ‘è riussìdhi / a deventàr veci. ‘Ndo che l’é brode / tii muri, cancèi storti e case ribandonàdhe, ortìghe, rùdhene / e storie de porti. Òni tant / calcùn se ciama, calcùn / òni tant el scanpa via // pa’ tornàrghe par sempre / sora ‘a giostra dea nostalgia (Amo i paesi che sono riusciti / ad invecchiare. Dove ci sono croste / lungo i muri, cancelli sghembi e case / disabitate, ortiche, ruggine / e storie di gente umile. Ogni tanto / qualcuno si chiama, qualcuno / ogni tanto fugge via // per ritornarci, perenne, / sulla giostra della nostalgia). Un ungarettiano sentimento del tempo si avverte anche in poesie come Rovinàzhi (Macerie), nella bellissima poesia “Ma pensa anca ai sassi” (Ma pensa anche ai sassi) o nell’acuta (di sguardo) Dopo ‘l scarvazhón, Venezia (Dopo l’acquazzone, Venezia) dove la città viene descritta, in una chiave totalmente inconsueta, negli attimi immediatamente successivi ad un violento acquazzone.

La poesia di Franzin appare in tensione verso due risultati contrapposti che sono forse, nella realtà, il dritto e il rovescio di un’unica medaglia: la tensione divisa tra umanizzazione del paesaggio e paesaggificazione degli uomini: “fin tel cancèl dei tó òci” (sino al cancello dei tuoi occhi), “tea tenpia nuda del prà” (sulla tempia nuda del prato), “Sognàr ‘e coìne, / ‘e pianure del tó corpo (Sognare le colline, / le pianure del tuo corpo)”. Sono esigenze profonde del dialetto e della storia individuale di questo poeta che sa crescere la propria poesia con la gratuità, il pudore e la lentezza appartata del muschio che appare nelle zone d’ombra della vita.

lunedì 17 giugno 2013

Festa di poesia 2013 a Pordenone. 1 e 8 luglio al chiostro della Biblioteca civica



Si parla spesso di poesia in queste pagine. Qualche amico mi ha scritto addirittura "troppo spesso". Credo sia vero solo in parte. Non mancano la narrativa e la saggistica, e a breve scriverò di un bel fumetto. Credo che comunque la presenza preponderante della poesia sia normale, se guardo alle mie letture e se pensiamo che in fondo il mondo è pieno di "libri brevi" di poesia. Libri come quelli da cui si leggerà a Pordenone, al Chiostro della Biblioteca civica oppure nella sala conferenze della stessa in caso di maltempo, i primi due lunedì di luglio (sopra, la locandina della "festadipoesia 2013"  è abbastanza grande per leggere tutte le altre informazioni di rilievo). Probabile poi che si legga in anteprima da libri, brevi, ancora in formazione, inediti, come è normale aspettarsi in questo tipo di letture. Buoni lunedì di poesia a tutti.

(Oltre al sottoscritto, il primo luglio leggeranno Roberta Durante, Rita Gusso, Andrea Longega, Maddalena Lotter, Luigi Natale, Giulia Rusconi, Giovanni Turra. Lunedì 8 luglio sarà il turno di Andrea Breda Minello, Vincenzo Della Mea, Fabio Franzin, Sebastiano Gatto, Francesco Indrigo, Marco Scarpa, Francesco Targhetta, Antonio Turolo.)

sabato 15 giugno 2013

"Giovanni Comisso. Un provinciale in fuga", il ritratto attento alle ombre di Luigi Urettini

Ripescaggi #25


Giovanni Comisso
al tempo della

Grande Guerra
Mi è capitato di inviare qualche recensione anche al "Notiziario Bibliografico della Regione Veneto", una pubblicazione di respiro regionale, talvolta interessante. La recensione al libro di Renato Rizzi sulla Pedemontana Veneta apparsa qualche tempo fa in questo blog ne era un esempio. Ora riprendo una recensione che inviai molto tempo fa e francamente non so se sia mai uscita (i tempi hanno dell'imperscrutabile, talvolta). Si tratta di un libro-monografia su Giovanni Comisso, lo scrittore dedicatario del capitolo-lemma Poesia dei Sillabari di Parise. Urettini licenzia uno studio puntuale e coraggioso, attento a percorrere le ombre della parabola vitale (vitalistica) dello scrittore trevigiano. Lo pubblica Cierre Edizioni in collaborazione con Istresco. Non sono stati pochi i tentativi di sminuire questo scrittore trevigiano "dalle suole di vento", non solo per iscritto, ma anche verbalmente (penso ad alcuni discorsi ai quali ho assistito e che ridimensionavano la sua "vantata" amicizia e solidarietà col pittore Gino Rossi, rinchiuso per oltre vent'anni nel manicomio di Sant'Artemio a Treviso). Che Comisso rappresenti oggi una figura controversa e problematica mi pare fuori di dubbio. Tuttavia, come provo a sostenere nella recensione che segue, cercherei di provare a rimanere ai suoi testi, una volta tanto, per fuggire da qualsiasi paranoia distruttrice o redentrice.
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Sono passati quarant’anni dalla morte di Giovanni Comisso avvenuta nel 1969 e continua la riproposizione della sua opera attraverso iniziative editoriali importanti come il Meridiano mondadoriano e i singoli volumi editi da Longanesi. A dire il vero queste iniziative sono arrivate dopo un periodo di silenzio prolungato, nel quale era faticoso reperire in libreria persino le principali opere dell’autore trevigiano e la sua biografia, l’einaudiana Vita di Giovanni Comisso, forse il libro migliore di Nico Naldini. Poi, a riproporre lo studio di Naldini, ci ha pensato una piccola casa editrice di Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, e, sulla scia del Meridiano di Mondadori, si è ripristinata una sorta di normale reperibilità dell’opera di questo grande del Novecento. La biografia dell’amico Nico Naldini rimane tuttora un esempio insuperato, un romanzo dei romanzi. Oggi, a rimpinguare gli studi biografici su Comisso, dopo quelli di Giorgio Pullini e Ilaria Crotti, arriva questo importante libro di Luigi Urettini, sistemazione organica di alcuni saggi dedicatigli nel tempo.

Il punto di partenza di Urettini sono gli anni della Grande Guerra, vissuta da Comisso in prima persona sul fronte orientale. Urettini cerca di affrontare apertamente, senza esitazioni, gli aspetti più controversi della biografia comissiana, ed è pronto a ribaltare la vulgata di un autore sostanzialmente lontano ed estraneo alle cose della politica. Vengono allora alla luce certi interventi, a tratti deliranti, sulla superiorità italica, su una sostanziale adesione di fondo a certi correnti di pensiero portanti dell’Italia fascista. Il libro di Urettini attraversa con questa volontà indagatrice un trentennio di biografia comissiana e pone forti dubbi sulla statura dell’intellettuale Comisso, pur non mettendo in dubbio l’eccezionalità dello scrittore.

Ora, se è vero che la storia del secolo scorso è costellata di grandi scrittori affascinati dai totalitarismi, anticipatori dei loro prodromi, amplificatori delle loro sirene (pensiamo ai moti di Jünger che pure non fu nazista, a Hamsun, e poi Céline, Brasillach, Drieu La Rochelle, gli scrittori della “tentazione fascista” per usare una celebre categoria di Tarmo Kunnas), questa constatazione non deve diventare motivo di semplificazione dell’analisi storico-letteraria. Al contrario, questa categorizzazione dev’essere un pungolo costante per l’indagine storica e quella critica, uno stimolo a sondare la terribile complessità dell’epoca in questione e l’eccezionale personalità degli scrittori che l’hanno attraversata. Anche nel caso di Giovanni Comisso ci troviamo quindi di fronte ad uno scrittore profondamente complesso, la cui complessità è paradossalmente dettata da una sorta di naïveté anarchica, fatta di libertà assoluta e intimo ascolto di un ritmo naturale e biologico, in cui vige, per usare le parole del curatore del Meridiano Rolando Damiani, “la sola verità dell’attimo”. Le bassezze e gli “sproloqui” di cui si è reso protagonista Comisso vanno giustamente ricordati, ma non con il piglio di un maccartismo paranoico che alimenti il lavoro dello storico. Non si sta sostenendo che si debbano ridimensionare alla luce della grandezza innegabile dello scrittore, ma semplicemente considerate secondo un adagio Terenziano: Homo sum, humani nihil a me alienum puto.

martedì 11 giugno 2013

da "Ablativo" di Enrico Testa

Una poesia da #21



La casa editrice Einaudi mi ha dato il consenso alla pubblicazione di un solo testo dalla recente raccolta Ablativo di Enrico Testa (pp. 136, euro 11,50). Credo che questa limitazione sia pienamente comprensibile. Tra le altre cose, si può convenire sul fatto che la poesia oggi pubblicata in gran quantità e frequenza su web rischia di diventare davvero un fenomeno caotico, un evento scompaginante: che sia anche questo il destino dello scrivere poesia? Che il colpo di dadi mallarmeano avesse previsto qualcosa di questo sviluppo? Tuttavia, tipograficamente, con la poesia di Enrico Testa non siamo lì. Aggirando allora il giusto vincolo di Einaudi, vi posso dire che potete leggere un secondo testo di questa raccolta cliccando e ingrandendo la copertina qui sotto, e potete trovare un'altra manciata di testi in anteprima nell'estratto in pdf nel sito dell'editore. Dico questo perché con quattro o cinque testi è probabile aumenti il desiderio di avere in mano e leggere fino in fondo questo bel libro. E poi, come sta bene con i libri che si hanno in mano, e non solo di poesia, si può passare alla rilettura. La scelta del testo che ho ricopiato qui sotto però non è per me casuale. Mentre leggevo questa breve poesia per la prima volta, pensavo alla Liguria e tornavo naturalmente su Montale. Un Montale bretone. In questo testo è evidentissimo il rimando all'avvio della nota prosa Farfalla di Dinard ("La farfallina color zafferano che veniva ogni giorno a trovarmi al caffè, sulla piazza di Dinard, e mi portava (così mi pareva) tue notizie, sarà più tornata, dopo la mia partenza, in quella piazzetta fredda e ventosa?"). La citazione, in negativo, sfocia in un'ironia che prende distanze da Montale per rinsaldarsi forse alla sua "tradizione" nel verso in cui accenna a un "capriccio della natura". Il richiamo e l'attacco allora è ironicamente corretto, come leggerete qui sotto. Profondo ed enigmatico, pur nella breve distanza che le separano, il legame che ravviso tra le parole "mano" (secondo verso) e "mano-vra" (penultimo verso).
Dopo aver apprezzato Pasqua di neve e la curatela di una delle migliori antologie di poesia uscite negli ultimi anni intitolata Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000 (utilissimi restano in quel libro alcuni dei cappelli introduttivi ai singoli poeti e fondamentali alcune inclusioni, come quelle di Michele Sovente, Angelo Maria Ripellino e Edoardo Cacciatore), ritroviamo Enrico Testa in una raccolta importante, che sembra porsi contigua al Vocativo zanzottiano, almeno nella curiosa titolazione che ricorre al più affascinante caso della lingua latina.
Da ultimo, prima di congedarmi e lasciarvi alle poesie, permettetemi di ricordare la traduzione che Enrico Testa fece del bellissimo High Windows di Philip Larkin, uscita nella stessa collana di poesia Einaudi che oggi ospita Ablativo e gli altri suoi libri. Se non l'avete già letta (Finestre alte, Einaudi, 2002), andate a cercarla e scoprite la bellissima poesia del "misantropo" delle West Midlands, quel bibliotecario che scriveva di jazz sul Daily Telegraph o, più semplicemente, The Master of the Ordinary, secondo la celebre formula attribuibile a Derek Walcott.



non portava notizie di nessuno
l'ape che ti punse la mano
nel camposanto di Dego;
né richieste di preghiere
o di suffragi e neppure 
una momentanea attenzione 
rivolta ai nostri passi. 
Era solo un capriccio della natura, 
una stizzosa manovra dell'insetto 
incattivito dall'afa

(E per sapere di più di quel - caproniano? - riferimento al toponimo Dego, potete andare qui).

domenica 9 giugno 2013

"Sull'esistenza e l'assistenza degli Angeli" e "L'angelologia in cinquecento parole" di Eugenio D'Ors

Non di angeli e demoni vi voglio parlare. Non dell'infernale Dan Brown o di Tom Hanks. Piuttosto di angelo e daimon. Rincuora la presenza di una casa editrice come Morcelliana, la profondità e larghezza del catalogo, i suoi ripescaggi o carotaggi, persino i filoni editoriali che apertamente ignora o la scelta di pubblicare libri come questo, in contrappunto quasi ironico con il mainstream librario dell'oggi. Questi riconoscimenti credo possano giungere quasi universalmente, a prescindere dall'orientamento filosofico o religioso del giudicante (ricordo che Morcelliana è una delle principali case editrici di orientamento cattolico). Mi fermo. Non voglio scrivere di editoria, volevo soltanto dire che c'è chi si diverte ancora a fare questo mestiere difficile di editori. E si vede. Si vede come nel caso di questo libro dal doppio titolo di Sull'esistenza e l'assistenza degli Angeli - L'angelologia in cinquecento parole (pp. 128, euro 11) di Eugenio D'Ors, splendidamente curato da Mattia Geretto, filosofo che vorrei definire un angelologo di lungo corso, visto che per Rubettino, qualche anno fa, aveva pubblicato un volume assai più corposo avente come titolo L'angelologia leibniziana. E in effetti la ricca e aperta introduzione del curatore trova nell'aggancio triangolare tra angelologia (irriducibile ad un'antropologia), il pensatore catalano e con il filosofo di Hannover uno degli spunti più innovativi e fecondi per i futuri studi in ambito angelologico.


L'Angelus Novus di Klee 
dal quale scaturì la 
riflessione di Benjamin
Per fugare qualsiasi allontanamento volontario verso simili temi, siano fatti soltanto i nomi di Rainer Maria Rilke e Walter Benjamin, di Fëdor Dostoevskij e Michail Bulgakov, quelli di Paul Klee e di Osvaldo Licini (fu sufficiente qualche lezione della mia bravissima insegnante di Iconografia e iconologia, Caterina Virdis Limentani, per trascinarmi verso il pittore di Monte Vidon Corrado, per provare a imparare la lettura di sostanziose permanenze nella sua pittura di angeli ribelli). Il tema dell'angelo non dovrebbe essere banalizzato e ridotto; e questa sembra essere tra l'altro una grande preoccupazione condivisa pure dal curatore Mattia Geretto. Il Novecento insomma è stato non soltanto un secolo pieno di angeli, di visiting angels in poesia o angeli della storia, come quello di Klee, lacerato dal passato infernale della storia e dalla bufera del Paradiso (indimenticabili le frasi di Benjamin). E un libro come questo diventa occasione per non banalizzare, per non farsi prendere dall'immagine e dall'iconografia dell'angioletto-bambino, alimentata spesso dalla stessa chiesa, la quale tradisce, in un colpo solo, secoli di riflessioni che salgono e scendono tra il "sopracosciente" e il "subcosciente" incollati nelle ali dell'angelo. All'angelo Eugenio D'ors dedica invece epiteti dai toni quasi epici: è lucido e forte, saggio e guerriero, assomiglia insomma più a quello che potremmo trovare anche in alcuni dipinti, come quello del Pollaiolo riportato qui sotto.


L'arcangelo Raffaele e Tobiolo
di Piero del Pollaiolo (1465-70)
Ma veniamo al pensatore di Barcellona, il quale scrisse sia in catalano che castigliano. Era nato nel 1881, troppo giovane quindi per intercettare nell'acme la generazione del '98. Ma qualcosa del genio iberico di quella stagione transitò anche da lui. Fu uno dei pochi poi a tentare una sorta di convivenza durante la dittatura, una fiaccola accesa durante il lungo buio franchista che rivestì la Spagna, un paese che - non scordiamolo nemmeno per un istante - usciva devastato quant'altri mai da una guerra civile e la cui assenza formale - e in fondo anche sostanziale - nello scacchiere sordido della Seconda guerra mondiale ebbe un significato quasi mai adeguatamente soppesato (e qui non si tratta del solito rifuggire la "storia fatta coi se"...). Prima di tutto mi verrebbe da dire che il ruolo filosofico della Spagna del Novecento andrebbe ricalibrato, nuovamente svelato e ripulito del carattere epigonale in cui riversa. Certo, il vibrare dei pensatori spagnoli subì a lungo soprattutto i movimenti tellurici registrati in Germania e a lungo durarono le scosse di assestamento. C'è da dire che da un punto di vista editoriale - che è l'unico poi che io riesca ad adocchiare un po' -  non è vero che non si stia facendo nulla per riconoscere un carattere originale alla speculazione spagnola. Ma a lungo il Novecento è stato, se mi passate termini calcistici - che però talvolta s'addicono così bene a una filosofia trascinata in chiacchiere da Bar Sport - un secolo sbilanciato tra Germania, Francia (forse di più nella seconda metà del secolo) e sicuramente Stati Uniti. (La disputa tra analitici e continentali ricalca certi solchi che in fondo sono segnatamente geografici, in una ipostatizzazione geografica quasi paradossale che pareva una guerra, fredda.) Per l'Italia servirebbe un altro discorso, abbiamo avuto altri pesi. Sarebbe meglio dire altri piombi, i quali hanno influito pesantemente sulla scuola, sull'università e su un mancato futuro pieno di paese di scienza, uno scenario nel quale il nostro stivale si trova tuttora a ramingare (pur avendo dato grandissimi scienziati alla comunità internazionale). Ma il discorso si allungherebbe troppo, non sono certo qui per mettere in croce Croce e stavolta sono partito a parlare di angeli e di Spagna. E qui resto. Dicevo che la storia della Spagna del Novecento ha forse impedito un fiorire precoce di approfondimento attorno ai suoi grandi pensatori (Ortega, la sua allieva Zambrano, Unamuno o gli "esiliati" García Bacca e José Gaos, José Ferrater Mora e altri, comunque molto legati, come dicevo, alla speculazione centro-europea detta anche in seguito "continentale"). Fortunatamente le cose stanno cambiando. E la riproposta di D'Ors sembra sembra confermare quest'aria che tira. D'Ors potrebbe essere un nume tutelare di queste pagine dedicate ai libri di piccola taglia. Dico questo perché sono celebri i suoi scritti "in cinquecento parole" (il poeta Diego Valeri tradusse e pubblicò nel 1941 e poi nel 1961, con Scheiwiller, La storia del mondo in cinquecento parole) tanto che per molti aspetti questa concisione ha marcato la sua notorietà, così come la glossa, il saggio giornalistico breve e concentrato di cui fu tra i primi e primari esponenti. Si tratta ovviamente di una questione di stile della prosa filosofica che qui, asintoticamente, vira verso la contrazione-distensione, verso l'accumulo e i colpi della poesia. Eugenio d'Ors provò infatti a condensare in 500 parole non solo l'angelologia, qui proposta per la prima volta in italiano, ma anche la storia del mondo nel 1936, la filosofia e l’igiene nel 1941. Il libro qui proposto presenta due scritti brevi che nascono originariamente in francese e spagnolo e che fanno da prodromi all'opera principale del 1939 intitolata Introducción a la vida angélica. L'angelo di D'Ors rimanda sicuramente all'angelo-daimon socratico, all'essere due dell'uomo, al rapporto con Dio e all'etimo stesso della parola "angelo" (forse un messaggero, al quale abbiamo spostato progressivamente le ali dai coturni alla schiena). Nell'ampia prefazione di Mattia Geretto, come segnalato, diventa evidente l'ascendente leibniziano della prosa di D'Ors, ma anche il solco che lo riconduce al bizantino Pseudo-Dionigi l'Areopagita, al grande Aquinate, passando per un Dante che D'Ors rimbrotterà (laddove si fissa un po' troppo con Beatrice). Questo libro, così ben introdotto da Geretto, diventa allora un prezioso alleato per non banalizzare ancora una volta una figura che pare accompagnarci, sempre, volenti o nolenti, fino alla fine. Anche l'introduzione dell'apparato iconografico diventa in tal modo un imprescindibile aiuto e nulla vieta di pensare che uno studio attento di storia dell'arte, sulla presenza e l'iconografia (o iconologia nel senso del Ripa) possa arrivare a risultati parimenti importanti.

giovedì 6 giugno 2013

Isabella Panfido e i 33 sonetti d'amore di Shakespeare tradotti in veneziano

Librobreve intervista #15


Ancora Shakespeare e ancora Shakespeare tradotto. Dopo l'intervista a Irene Fantappiè su Shakespeare tradotto da Karl Kraus, guardiamo ora verso la laguna. La casa editrice trevigiana Santi Quaranta, diretta dall'instancabile Ferruccio Mazzariol, ha pubblicato qualche mese fa un libro a prima vista curioso e assai compatto intitolato Shakespeare alla veneziana (pp. 102, euro 10, postfazione di Marco Paolini). La traduttrice dei 33 sonetti è Isabella Panfido, autrice a sua volta di libri di poesia e giornalista (del Corriere della Sera-Corriere del Veneto e, in passato, di Radio24, emittente per la quale ha condotto per qualche tempo una bella trasmissione dedicata alla poesia contemporanea intitolata "L'arca delle parole"). Non so quale sia la vostra reazione nel pensare al Bardo tradotto nella lingua lagunare. Dico che mi piacerebbe conoscerla perché da quella reazione si potrebbe iniziare a ragionare su molti spunti che riguardano Shakespeare, i suoi sonetti, i suoi precedenti traduttori, i dialetti e quello veneziano in particolare. Un po' è quello che abbiamo provato a fare con quest'intervista, le cui risposte ci introducono in quel peculiare laboratorio della traduzione che emana sempre gli odori più dolcemente acri e intensi e che, a volte, nel suo buio (perché in fondo tradurre è un'attività buia), pare illuminato e graziato da una luce sorprendente e laterale, come spesso accade nei quadri di Caravaggio.

LB: Nella genesi di questo libro c'è Lello Voce. Potresti raccontare come ha preso forma, anche editorialmente, con l'editore Santi Quaranta, il progetto di questo libro assai singolare contenente la traduzione in veneziano di 33 dei 154 sonetti scritti da Shakespeare?
RISPOSTA: Era il 2009 e a Udine si tenne un festival della traduzione dedicato ai 400 anni dalla pubblicazione dei Sonetti di Shakespeare. Per quella occasione da Lello Voce, uno degli organizzatori, fu 'commissionata' a otto poeti italiani la traduzione di tre sonetti a scelta, che sono poi confluiti in uno spettacolo/reading. A me fu suggerito di tentare una traduzione in veneziano. A cose fatte i colleghi poeti mi gratificarono del loro entusiasmo, in particolare Voce, Franco Buffoni e Pierluigi Cappello, affermando che il ritmo e la sonorità del veneziano ottenevano una riuscita eccellente, vicina all'originale. Così ho continuato e da tre sono arrivata a trentatrè. Poi, l'editore Ferruccio Mazzariol, coraggiosamente, ha deciso di inaugurare con i Sonetti in veneziano una nuova collana della sua Santi Quaranta. Una collana intesa a promuovere la tradizione della lingua e cultura veneziane.

LB: Una traduzione dello Shakespeare dei sonetti si trasforma inevitabilmente in un confronto con i grandi del passato che si sono cimentati con il Bardo, in Italia ma non solo. Nel tuo caso, qual è il rapporto con le precedenti versioni dei sonetti di Shakespeare? Se ci hai pensato, quale altro poeta non contemporaneo ti piacerebbe provare a tradurre, in veneziano? E contemporaneo, magari?
RISPOSTA: Non potevo non rileggere le traduzioni di Ungaretti, quelle poche fatte da Montale e da Sanguineti e Giudici. Ma la singolarità del mio strumento linguistico mi ha concesso uno 'sdoganamento', una libertà, diciamo, che mi ha costretto e permesso un unico confronto, cioè quello con il testo originale. A dire il vero non ho pensato ad altre fonti: ancora da Shakespeare ho tradotto il famoso monologo di Prospero dal 5° della Tempesta che ho letto in qualche reading e che in veneziano assume una forza davvero travolgente. Forse, chissà, l'Onegin di Puškin. Non saprei dire se mi interessa tradurre dal contemporaneo in una lingua d'antan come quella che ho usato per Shakespeare, non credo funzionerebbe.

LB: Ho letto del tuo confrontarti, anche con Giulio e Laura Lepschy, sulle difficoltà del veneziano. Potresti spendere qualche parola relativamente alle difficoltà intrinseche della scrittura in veneziano?
RISPOSTA: In generale scrivere il dialetto, che non è normato (i tentativi di una codifica sono a mio parere piuttosto inconcludenti e comunque esageratamente inclusivi, con il risultato di stringere nodi anziché scioglierli) è un affare complicato. Credo di aver fatto almeno venti revisioni per la grafia dei miei sonetti shakespeariani; i professori Lepschy, bontà loro, mi hanno suggerito alcune strade per semplificare e unificare la trascrizione fonetica di pronuncia, come per la <l> intervocalica, ad esempio, cioè <ela> o <quelo> che nella dizione si omette ma che è corretto segnare. Altro problema spinoso le differenti pronunce della <s> sorda e sonora e della <z>, consonante rarefatta nel veneziano eppure spesso addirittura doppiata.

LB: Quali sono i nodi dei sonetti nei quali hai trovato gli ostacoli maggiori? Sono perlopiù nodi sintattici, lessicali, fonici o di altra natura?
RISPOSTA: Lessicali, anzitutto, dato che non esiste un dizionario affidabile italiano-veneziano, ma solo il vecchio, insuperato Boerio che fornisce la traduzione dal veneziano all'italiano (un italiano esilarante, ottocentesco, meriterebbe un saggio). A parte questo, ho dovuto supplire con qualche artificio la mancanza nella lingua veneziana di termini astratti quali 'lontananza', 'distanza', essendo il veneziano lingua pragmaticissima. Ho rispolverato poi tutto l'armamentario poetico della grande tradizione seicentesca, ma anche la lingua di Goldoni e dei minori dialettali dell'Ottocento mi sono venuti in aiuto, in particolare per le forme avverbiali.

LB: Nel libro ripercorri anche la tua interiorizzazione del veneziano, in una cornice che rimanda in parte anche al tuo bel libro di poesia Casa di donne (Marsilio, 2005). Da un lato c'è il veneziano come lingua di una certa tua affettività calata in determinati contesti della tua infanzia. Dall'altro c'è la lingua altamente pragmatica di uno stato che è esistito per un periodo di tempo non trascurabile. C'è una sorta di fragile equilibrio in queste manifestazioni del veneziano, che talvolta sembra però cedere all'aspetto pragmatico. Eppure, a mio avviso, il risultato finale è notevole anche nei nodi più astratti e "sentimentali" dei sonetti e tu stessa ammetti che il veneziano ti ha offerto soluzioni impensabili con l'italiano. Ti chiedo di fare qualche esempio.
RISPOSTA: Ho scoperto di recente che anche nel dialetto romagnolo non esiste il verbo 'amare' e si ricorre alla forma, come in veneziano, 'ti voglio bene', più lunga – quindi meno ritmica, diciamo. Ma 'voler ben' ha una portata semantica molto ampia, duttile alle varie sfumature dell'intreccio affettivo del Bardo. Per i sonetti buffi, in particolare, come i numeri 42, 130, 143, 144 o fortemente allusivi come il 20, la ricchezza di espressioni semi-comiche del veneziano hanno trovato largo campo di impiego. Ma l'aspetto che ritengo vincente della traduzione in veneziano è la grande messe di parole tronche e mono o bisillabiche che ben si attagliano all'inglese, anche contemporaneo, e che permettono di serrare il ritmo, e manovrare l'ictus nel verso, in particolare nei difficilissimi distici finali, dove il Poeta racchiude spesso la chiave di lettura dell'intero sonetto. Un esempio per tutti: il distico finale del 124 che recita

“To this I witness call the fools of Time
Which die for goodness, who have lived for crime”

che in veneziano suona così:

“A testimoni quei piavoli de 'l Tempo ciamo,
che more par el ben, vissui de ingano”.

LB: Permetti una domanda-scorribanda, ma che credo sarà apprezzata dal pubblico di lettori di questo blog. So che segui con attenzione anche altre poesie straniere. Quella inglese e quella russa, la cui lingua tra l'altro conosci. Potresti citare i nomi di alcuni poeti stranieri che più ti hanno convinto negli ultimi anni? E se dovessi fare un tris di nomi rimanendo all'Italia?
RISPOSTA: Tra i russi il mio vertice assoluto è Mandelštam, tradotto molto bene da Remo Faccani per Einaudi e Josif Brodskij che però è tradotto non bene, di anglofoni sceglierei certamente Seamus Heaney e Elizabeth Bishop, tra gli italiani, la mia stella fissa è Vittorio Sereni. Forse non sono recentissimi... potrei aggiungere tra i contemporanei Tony Harrison, Adrienne Rich, Fabio Pusterla, Luciano Cecchinel, Antonella Anedda. Di russi contemporanei non saprei, il panorama è molto frantumato, mi pare.

LB: Per concludere ritorniamo doverosamente a Shakespeare. E a te. Qual è il tuo sonetto?
RISPOSTA: Direi il 73, per la dolente grandezza della riflessione sulla vita e la sua caducità, per la riuscita, e la fatica che mi è costato, il 20, una tessitura di sottintesi e doppisensi davvero complessa da rendere.

E allora, come omaggio all'intervistata e come assaggio per i lettori...


SONNET 73


That time of year thou mayst in me behold
When yellow leaves, or none, or few, do hang
Upon those boughs which shake against the cold, 
Bare ruined choirs, where late the sweet birds sang. 
In me thou seest the twilight of such day 
As after sunset fadeth in the west, 
Which by and by black night doth take away,
Death's second self, that seals up all in rest. 
In me thou see'st the glowing of such fire 
That on the ashes of his youth doth lie, 
As the death-bed whereon it must expire,
Consumed with that which it was nourish'd by. 
   This thou perceivest, which makes thy love more strong,
   To love that well which thou must leave ere long.


Quela stagion de l'ano ti pol vedar in mi
co zale fogie, o nisuna, o poche, pìndola
da quei rami che intel fredo sgrissola,
nui cori desfai, dove gera oseleti e dolci canti.
In mi ti vedi un zorno al so tramonto
co, al calar de 'l sol, zo a ponente sfanta,
e lo ingiote man drio man la note nera,
l'altra negra siera de la morte che tuto intela chiete sèra.
In mi ti vedi quel falivar de 'l fogo 
che se nìa intela cenare de la zoventù
cofà intel cusso, dove che se desmorsarà,
fruà de la stessa fiama che lo gà impissà.
    De questo ti te gà inacorto, e xe el to amor più forte
    tanto da amar co tuto ti chi te sbandonarà de boto.

(Traduzione di Isabella Panfido)

martedì 4 giugno 2013

Nella demenza che non sa impazzire
Una lettura da "Pertiche" nel parco del Soligo
per "La notte della poesia"


Nella demenza che non sa impazzire
reading del poemetto sulla Prima guerra mondiale
Alberto Cellotto - lettura / Lucio Bonaldo - percussioni
sabato 22 giugno 2013 ore 20:45
Parco del Soligo a Pieve di Soligo
per "La notte della poesia"

Il parco del Soligo in una foto di Raoul Bernardi

Lucio Bonaldo sopra e sotto 
una foto di Clemente Rèbora
In chiusura del libro di poesia Pertiche che ho pubblicato alla fine del 2012, c'è un poemetto in sestine interamente dedicato alla Grande guerra "ricamminata" su un segmento della linea del Piave, tra Salettuol e Candelù. Il comitato Antenna Cinema mi ha invitato a riproporre la lettura di questo poemetto che, in un altro paio di occasioni, ho fatto assieme al percussionista Lucio Bonaldo e il suo set preparato. La rassegna è un appuntamento ricco, in cui la presenza mia e di Lucio è solo una minima parte e vi invito pertanto alla consultazione del programma nel sito di PieveculturaIl poemetto si intitola come un verso di una poesia di Clemente Rèbora che riporto qui sotto. Marco Scarpa, proprio in occasione di una delle due letture già fatte con Lucio Bonaldo, ha definito Nella demenza che non sa impazzire "[...] una sorta di poemetto o, vorrei osare, radiocronaca in forma di elenco, simile a quelle liste della spesa per non scordarsi poi nulla al supermercato. Solo che qui l’argomento è la Prima guerra mondiale, argomento simbolo e forte nell’immaginario e nella vita di Alberto. La Prima guerra mondiale che sembra non ancora finita, ancora qui con i suoi resti, le sue conseguenze (come d’altronde non potrebbe essere altrimenti), narrata al tempo presente proprio per fare sentire ancora vivi lo spirito e lo scenario che è ancora qui, sbiadito ma vivo, a pochi chilometri da noi, sul Piave, a testimoniare e da cui imparare ancora e ancora, necessariamente è cosa probabilmente saggia. Un fiume storico che intreccia passato e presente e che ci ricongiunge ad un evento così lontano eppure così vicino."


Ha scritto bene Andrea Cortellessa, nel volume imprescindibile da lui curato e pubblicato nel 1998 da Bruno Mondadori col titolo Le notti chiare erano tutte un'alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale che "L’orrore assoluto della quotidianità della guerra – nella quale il ferimento di un compagno, di un amico, può costringerti a rischiare la vita per andare a salvare «tra melma e sangue» quello che è comunque ormai ridotto a un «tronco senza gambe», come capita nel terribile Viatico di Rèbora – trova qualche risarcimento in Ungaretti, non mai in Rèbora: la cui poesia di guerra è sempre un muro di pietra sul quale la parola – la parola  penetrante del più potente espressionista d’anteguerra – si infrange e batte in ritirata. Ma tanto la vittoria di Ungaretti che la sconfitta di Rèbora appaiono necessarissime." Come dargli torto?

VIATICO 
di Clemente Rèbora


O ferito laggiù nel valloncello,
Tanto invocasti
Se tre compagni interi
Cadder per te che quasi più non eri,
Tra melma e sangue
Tronco senza gambe
E il tuo lamento ancora,
Pietà di noi rimasti
A rantolarci e non ha fine l'ora,
Affretta l'agonia,
Tu puoi finire,
E nel conforto ti sia
Nella demenza che non sa impazzire,
Mentre sosta il momento,
Il sonno sul cervello,
Làsciaci in silenzio -

Grazie, fratello.

1916

["La Raccolta", I, 1918, n. 3]

domenica 2 giugno 2013

Alberto Bertoni e le poesie di "Ricordi di Alzheimer"

Ripescaggi #24


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Oggi pensavo ai rapporti tra poesia e malattia e, anche se su Librobreve sono stati frequenti i ripescaggi di vecchie recensioni negli ultimi tempi, ho deciso di proporvene un altro (prima o poi vuoterò il sacco delle recensioni a libri brevi fatte in passato). Quella seguente, ad esempio, è una recensione che scrissi ad un libro di Alberto Bertoni. Ricordo di aver ascoltato alcune delle poesie contenute nel libro dalla voce dell'autore, a Treviso, anni fa. La recensione, se la memoria non tradisce, fu scritta per il sito della rivista daemon. Il libro di cui parlo si intitola Ricordi di Alzheimer (Book, 2007, pp. 96, € 12, ancora reperibile).
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Il titolo di quest’opera poetica di Alberto Bertoni è uno di quelli che mette subito in cortocircuito le nostre sinapsi, e non solamente per quel suo andamento ossimorico e paradossale. Se il morbo di Alzheimer distrugge memoria e ricordi (spesso punti di partenza o approdo del fare poesia), qui i ricordi di Alzheimer sono quelli di una stagione di una vita, degli affetti vissuti da chi conosce giorno dopo giorno la lacerante esperienza di vivere con una persona cara la cui memoria sta andando in frantumi.

Il tema è sicuramente di grande attualità letteraria (a vari livelli, in più generi) e la malattia è sempre stata una presenza forte tra chi scrive (non sono pochi gli scrittori presi a prestito dalla medicina). Mancava forse un libro di poesia che indagasse questo versante della malattia dei ricordi e della memoria, versante che si potrebbe leggere in modo speculare all’onnipresente cura per il tema centralissimo della memoria, con tutte le sue biforcazioni e i suoi rizomi. Esiste tuttavia un’autonomia inalienabile nell’affrontare questi temi che è propria della poesia. Se in narrativa tutto ciò che riguarda la memoria (in positivo o negativo) è quasi sempre funzionale alla costruzione della storia, dei personaggi (per non dire del raggiungimento di esiti comici o tragici), la poesia non può non mostrare una propria specificità nell’istante in cui avvicina i territori franosi e smottati dell’identità e della memoria colpiti dalla malattia. Nella poesia c’è la quotidianità del vissuto registrato dalla parola, che però non è una parola diaristica (nonostante il periodo di osservazione di dieci anni possa dirsi da diario). Nella poesia di Bertoni c’è quell’incidere tipico della musica che intaglia con agilità di un pizzicato tutte le stagioni del dolore in un tronco di vita e forse, non a caso, l’entrata in questo bosco terminale è affidata ad un prefatore d’eccezione e conterraneo dell’autore, Francesco Guccini.

In Ricordi di Alzheimer la descrizione della malattia lascia filtrare una lingua che pendola dalla vegetazione e ai profondi insegnamenti della geologia, dalle cose in moto alle cose immobili e che crea toni e sensi nuovi per il lettore: «Alza una vela di mollica / la mia faccia bastonata / sul vasto scioglimento del cervello / vecchio alle prese con se stesso, specchio / e lichene senza peso», «Riconoscere il fischio dei camion / Caronte sulla Genova-Livorno», oppure «Ridotto a una pianta di geranio / morta in un attimo, a gennaio».

Nel passaggio dove leggiamo «Ma come sono fatti i morti / con i quali tutti i giorni / chiacchiera mio padre?» avvertiamo con maggiore forza quella alienante comunione nella separazione che contraddistingue il rapporto tra il figlio e il padre malato che si sta spegnendo: poche volte ce ne rendiamo conto, ma il pensare la morte è tutto fuorché un’esperienza scontata. Il pensiero di una persona morta è qualcosa che avviene in modo quasi oltraggioso nel nostro cervello e in modo del tutto naturale quest’attività misteriosa di sinapsi ha trovato un suo posto nella poesia di Alberto Bertoni. Provare a raccontare la malattia e la morte con parole nuove, questo è il tentativo pienamente riuscito all’autore.