martedì 2 luglio 2013

"Il passo dell'uomo" di Vanni Bianconi

"Qualsiasi anno di vita è un dottore / che si sbaglia sull'organo malato / ma in confidenza ti segnala dove / lo specialista è l'anno passato." Vanni Bianconi appartiene, senza vincoli di appartenenza, a quella bella orografia (idrografia?) di poeti ticinesi che in questo avvio di terzo millennio costituisce una delle più promettenti formazioni della poesia in lingua italiana. Dico "formazione" non nella sportiva accezione di équipe, ma in un senso più naturale, quasi geologico, di fenomeno che si manifesta allo sguardo. Bianconi vive tra Locarno e Londra. Sua è la cura del Babel Festival che si tiene ogni anno a settembre a Bellinzona. Normale, quando camminiamo da queste parti, pensare subito a Fabio Pusterla, che di questo nuovo libro di Bianconi intitolato Il passo dell'uomo (Casagrande, pp. 64, euro 12,50/CHF 16) firma, ancora una volta, una bella quarta di copertina (quarta di copertina d'autore: versione più discreta ma più incisiva delle tante prefazioni che popolano i libri di poesia in Italia?). Normale pensare anche a molti altri. Per rimanere ai più giovani si può sostare sull'ottimo lavoro di Fabiano Alborghetti, al già ospitato Yari Bernasconi e, scavalcando la generazione di Pusterla, risalire fino ad Alberto Nessi e al grande Giorgio Orelli, anch'egli ricordato su queste pagine tempo addietro. Ricorro a questi nomi per andare davvero a sommi capi, anzi, a somme cime e bacini, come le montagne e i laghi di quella regione. Non posso dimenticare poi di citare, almeno di passaggio, scoperte per me recenti come Matteo Campagnoli e Elena Jurissevich. Tra l'altro, quasi tutti questi autori transitano per la casa editrice Casagrande di Bellinzona, esempio tangibile di un'arte del fare libri ancora viva (strano che spesso siano gli svizzeri a ricordarci le nostre origini tipografiche, la cura nel far libri, l'amore per i caratteri). 

Era necessaria questa premessa? Credo di sì, perché intendevo ribadire una convinzione personale: lì, in quel cantone fortunatamente trascurato dalla chiacchiera poetica della penisola, ormai relegata/delegata e finita in pasto alle riviste più glamour - può accadere, in fondo non credo di essere così bacchettone, ma temo possa diventare una sorta di regola e pericolosa abitudine -, continuano a succedere cose belle per la poesia in lingua italiana e per quella traduzione che positivamente alimenta il farsi della poesia (Bianconi stesso è traduttore, da Somerset Maughan, Faulkner e Auden). E ne Il passo dell'uomo abbiamo conferma di una grande architettura pubblica, uno spazio-libro camminabile, anche grazie ai piedi metrici di una scrittura versicolore. L'architettura e l'architettura di un libro poetico sono arti che si possono comprendere e praticare quando la poesia e il ritmo si raggiungono per davvero. Sono arti "tarde", se proviamo a parafrasare certi discorsi sullo stile di Theodor W. Adorno e Edward Said, nel senso che sono tra le ultime che impariamo a comprendere. Dovrete resistere dalla tentazione di afferrare subito questi testi, ma non perché vi siano tracce d'ermetismo o oscurità. La poesia di Bianconi si tende e distende verso il lettore senza apparenti problemi, eppure è un concentrato di forme minerali che rilascia un contenuto che da liquido si fa solido a poco a poco, come stalattite e stalagmite prossime a formare una colonna di senso, lentissima: un calcare verticale, ma anche un calcare di passi, nel solco in fondo petrarchesco che lo stesso titolo del libro prova a inseguire. Un tratto rimarchevole è l'avvenuto contatto corrusco, in un silenzio e buio di grotta, tra la tradizione anglosassone frequentata anche dal parlante Bianconi (si veda la presenza di Sylvia Plath nella bellissima Poesia della montagna) e quella svizzera, gli orelliani spiracoli che continuamente s'aprono tra gli anagrammi delle parole, tra le lettere che cadono e salgono, che ritornano nella distanza, in un respiro acquatico e sciacquio che potrebbe persino ricordare i suoni di un poeta così lontano come Biagio Marin, nel frastagliato profilo costiero delle rime che chiudono i versi. Nel passo breve di Bianconi c'è anche molto Caproni. Nella passeggiata di questo autore invece possiamo intravedere persino il cappello e la sciarpa invernali di Zanzotto dell'Ipersonetto: nella già citata Poesia della montagna, 14 "pseudosonetti sotto mentite spoglie", concatenati tra loro dalle ganasce di ultimo e primo verso e chiusi da una quindicesima Corona, restituiranno probabilmente il senso dei ragionamenti architetturali che ho provato a fare sin qui.


Significativa, anche se non soverchiante, è la presenza di alcuni testi in traduzione inglese. La domanda che però si insinua suona circa così: si tratta davvero di traduzione? Oppure si tratta di compresenza di due lingue che dicono quasi la stessa cosa? Il lettore potrà rispondere meglio di me a questa domanda. Credo si tratti comunque di un'esperienza inedita e nuova. Come in fondo è nuovo anche il silenzio, polveroso, di frana, che lascia questo libro nelle orecchie del lettore, che un po' ci trasforma tutti in "manzi incapaci di ridere". In Miserere l'annosa questione dell'io, di un io, in poesia e non solo, viene fronteggiata con un testo che potrebbe essere a lungo discusso e analizzato, sigillato da congiunzioni disgiuntive fratte dall'a capo che finiscono per travolgere la stessa parola "io":

Sto in piedi accanto a me
mi sto seduto accanto
sacco di rifiuti in bilico
80 litri, pieno, semiaperto.

Nella plastica sottile
il mio amalgama di organi
gusci cellophane lattine;
accanto a me con brio da coroner

io bisbiglio di bibite e uova;
se misurassi le parole
almeno l'umido nel petto
si farebbe inceneritore.

Non so chi sia l'impostore, io
o io. Siamo raccolti e separati.
Ogni tanto le parole
offrono rifiuti misurati.

Non credo di esagerare se scrivo che in questo "[...] dialogo, anche, aperto e franco con i propri maestri e con i compagni di strada, che l’autore chiama a fraterna raccolta dai due vastissimi territori culturali a lui noti e cari" (Pusterla) si può iniziare un viaggio non facile attraverso l'interrogativo legato al senso dello scrivere poesia nell'Occidente, o quantomeno nel palinsesto d'Occidente ("La poesia è una tecnica per preparare la tela", si legge in Previsione del tempo) che abbiamo ereditato e erediteremo, un po' come i funghi della Plath:

Overnight, very
Whitely, discreetly,
Very quietly

Our toes, our noses
Take hold on the loam,
Acquire the air.

Nobody sees us,
Stops us, betrays us;
The small grains make room.

Soft fists insist on
Heaving the needles,
The leafy bedding,

Even the paving.
Our hammers, our rams,
Earless and eyeless,

Perfectly voiceless,
Widen the crannies,
Shoulder through holes. We

Diet on water,
On crumbs of shadow,
Bland-mannered, asking

Little or nothing.
So many of us!
So many of us!

We are shelves, we are
Tables, we are meek,
We are edible,

Nudgers and shovers
In spite of ourselves.
Our kind multiplies:

We shall by morning
Inherit the earth.
Our foot's in the door.

(Sylvia Plath, Mushrooms)

Ho preferito chiudere così. Ho riportato per intero soltanto una poesia del libro, anche perché esiste un video molto bello della RSI disponibile a questo indirizzo web dal quale potrete ascoltare le poesie de Il passo dell'uomo direttamente dalla voce dell'autore: è meglio se lo guardate e ascoltate, anche per ripulirvi da questi appunti di lettura un po' sciocchi.

2 commenti:

  1. Notevole questo poeta così giovane. Ho visto qualcosa su sito "Le parole e le cose" anche

    RispondiElimina
  2. Per stare al discorso che facevi su quell'area della Svizzera, Bernasconi, nell'ultimo quaderno della MarcosYMarcos, è uno dei più interessanti di quel libro. Ciao, lara

    RispondiElimina