mercoledì 24 luglio 2013

Paolo Valesio e "La mezzanotte di Spoleto"

Tra i miei coetanei non riscontro particolare attenzione nei confronti della scrittura che, non da oggi, Paolo Valesio ha saputo muovere e lanciare dalle sponde di due continenti. Forse è un'impressione errata e come tante "impressioni" lascia davvero il tempo trova. Questo tipo di interventi non si dovrebbero infatti costruire a partire da impressioni, ma da dati, prima di tutto testuali. Tuttavia, credo sia giunto il momento di approfondire, per quanto è possibile in questo spazio limitato e dedicato ai libri e all'esperienza di lettura, la conoscenza della poesia di Valesio, sfruttando l'occasione di una sua recentissima pubblicazione, dopo che lo stesso si è speso letteralmente una vita per la poesia italiana in terra americana. Valesio è infatti "Giuseppe Ungaretti professor in Italian Literature" alla Columbia University, e da molti anni si impegna nella diffusione della poesia degli altri. (Detto per inciso io trovo importanti e insostituibili queste figure di poeti che "fanno" generosamente per la poesia altrui, che non si chiudono a nuotare soltanto in un atollo autoreferenziale, sperimentando così anche le non poche frustrazioni, i muri di gomma o le ottuse sordità che presenta, troppo spesso, il dialogo tra chi scrive poesia e chi ancora la critica.) Ora l'interrogativo diventa circa questo: che cosa scrive Paolo Valesio poeta? In Italia si legge Valesio? Ora che il nostro autore si avvia alla conclusione di una lunga presenza accademica negli Stati Uniti e si prepara a un ritorno in Italia, sembra emergere nel poeta Valesio il desiderio di metter mano a raccolte che per motivi disparati "erano rimaste inedite". L'editore Raffaelli di Rimini, sempre tipograficamente impeccabile, nella bella collana intitolata "Poesia contemporanea" diretta da Gianfranco Lauretano, ha da poco pubblicato La mezzanotte di Spoleto (pp. 94, euro 13, prefazione di Alberto Bertoni, questo il link della pagina del sito dell'editore da dove si può acquistare il libro). 

Dirò subito che ho percepito questo volume, un cronotopo sin dal titolo, quasi come un film, in due tempi, con un mirabile secondo tempo, laddove ho ascoltato le poesie che a me sono sembrate più belle. E l'apice della concentrazione si trova, quasi come nella sezione aurea di un segmento, nella penultima sezione (penultima se escludiamo il breve Epilogo) intitolata Via Vaita De Domo, dal nome di una bella via spoletina. Lì sono le poesie che per me (a me) rimangono. In fondo ogni libro che resta, resta in prima battuta per alcune poesie. Così come dei romanzi, pur belli nel complesso, a volte restano soltanto due pagine, ma importanti. E le poesie che restano sono sufficienti per andare a riscoprire le altre poesie a distanza di anni, dopo che è passata altra vita in chi le legge. Spesso il discorso si ribalta, e le poesie che erano più piaciute un tempo, passano quasi in secondo piano. Così capita a chi scrive qui. Chissà cosa capita a voi. Sono cose normali. Ad ogni modo, per coerenza con quanto ho appena scritto, prima di addentrarmi nel libro, lascio spazio a uno dei testi che più mi ha colpito, quello dove la mia "dog ear" sulla pagina è stata più immediata e marcata. A dire il vero, i libri dell'editore Raffaelli sono oggetti così curati e belli che a volte placano la mia mania per catacretiche "orecchie" sulle pagine. (Potrei essere più disciplinato, usare altri sistemi. Tuttavia non posso fare a meno delle orecchie, soprattutto in poesia, per quando il libro viene ripreso in mano a distanza di tempo, come dicevo sopra.). Ecco il testo di Desiderii, contenuta appunto nella sezione già menzionata.

Quasi occorre ogni giorno e ricorre:
il desiderio di una mano
che rapida emergendo
dalle lagune della terra
con carità chirurgica trascorra
lungo la gola 
tagliando la miseria della vita.

Quasi occorre ogni giorno e ricorre:
il desiderio di una mano
che spinga urga prema fin che passi
il molle muro delle nubi e cielo
e si posi alla fine sulla spalla -
ravvivante tocco; ma sopra tutto
orientamento di dovere
e di interna giustizia: per potere 
ritrovare la sorgiva
da cui esce e geme il fiume
della conversazione con il mondo.

La prima parte dell'opera è quella che si presta per la titolazione del volume. Perché Spoleto e perché mezzanotte? Perché questo ennesimo cronotopo nella scrittura di Valesio? Chi conosce la vita della città umbra, si ricorderà del "Festival dei Due Mondi", una delle più belle rassegne estive tra quelle che si tengono ogni anno sulla nostra penisola e in quella regione abbracciata da una sorta di nostalgia del mare che è l'Umbria. Lo sfondo cittadino in festa diventa scenario di una storia d'amore: un uomo e una donna. I versi sono stati scritti alla fine del secolo scorso e io credo trovino la loro forza in una sorta di "installazione" che contempli la voce, le modulazioni e lo scenario (l'unità di luogo, si potrebbe dire con Aristotele). Il brano poetico della prima parte risente delle frequentazioni col teatro e con la musica (nella sua nota Valerio desidera ricordare Gian Carlo Menotti). In un certo qual modo diventano versi site-specific, per usare un'espressione che Andrea Cortellessa ha felicemente mutuato dal lessico della critica d'arte per parlare della poesia di Antonella Bukovaz. Eccone qualche passaggio, da Monteluco:

Il bivio è nella pelle e nella mente.


Il presente è essenziale e incomprensibile;
il futuro, inguardabile; il passato
intoccabile.

E resta l'altro: il bivio 
del lavoro mentale
(con il cervello teso
a sollevare sacchi
a travasare secchi).
Che cosa fa la mente
con gli anni del peccato?
Può lasciarli cadere - 
senza nemmeno bollarli "anni sciupati",
schiacciandoli al disotto del giudizio -
nel vuoto del tempo universo;
o ricercarne con passione il senso:
ogni ora di vita ha da servire -
anche la più sassosa
anche la più fangosa -
a lastricare il cammino
per l'Ascesa del Monte.

Come ho già lasciato intendere, nella seconda parte del libro si concentrano, almeno per chi scrive, le prove più durature della scrittura di Paolo Valesio, quei testi in cui la lettura singolare e privata della poesia restituisce vita ai lettori. Alberto Bertoni, nella breve nota introduttiva, sottolinea di passaggio un aspetto molto importante. Anzi, almeno un paio di aspetti assai rilevanti. Scrive il poeta modenese: "La scrittura di Valesio non cade mai nell'errore, oggi assai diffuso, di una prosa spezzata artificiosamente in versi (e in versi autenticamente liberi), manifestando da subito la necessità della sua versificazione, prosodicamente calibratissima." Aggiungo che questo libro riporta a galla una questione davvero sommersa e trascuratissima, che tra l'altro si salda con le origini e le grandi espressioni di quella che comunemente chiamiamo la nostra storia letteraria. Penso naturalmente all'avvicendarsi tra Francesco d'Assisi e Iacopone da Todi, alle origini della poesia religiosa, ma penso anche, con un salto di un paio di secoli, a quel Savonarola che Valesio chiama in appello nell'importante epigrafe del suo Prologo: "Io vivo nelle ombre dell'ignoranza come un assente".

Leggendo e rileggendo questo libro mi sono chiesto, forse banalmente ma più di una volta, qual è e quale potrebbe essere lo spazio di questo autore appartenente a quella strana generazione italiana a cavallo dei Trenta e Quaranta (Valesio è nato a Bologna nel 1939) all'interno della perversa circuitazione poetica dell'Italia attuale. Non è propriamente l'interrogativo che ci si dovrebbe porre quando siamo alle prese con la poesia, ma è il motivo per cui ho esordito in quel modo qualche riga fa. Vedete, il recente libro di Paolo Valesio mi offre lo spunto per ribadire una piccola grande convinzione che si sta facendo sempre più dura: credo esistano dei sentieri sin troppo segnati nella scrittura e nella lettura, una certa sicumera sparsa che sa già ciò che è lecito o non lecito scrivere in poesia all'altezza del secondo decennio del terzo millennio (cosa vale e cosa non vale si direbbe in termini ludico-infantili). Ma nella realtà, chi può stabilire questo? Chi può vantare questa sicurezza? Non mi sta bene che qualcuno stabilisca un libro dei divieti (divieti che - si badi bene - hanno anche un'accezione positiva in poesia, quasi "creatrice", ma soltanto se provengono autenticamente dalla voce del poeta). Non sarebbe meglio vivere nell'incertezza più totale quando avviciniamo la poesia? Mi ponevo questa serie di domande perché sono abbastanza certo che il tono e il passo di Valesio, assieme ai suoi temi e a tutto il portato della sua scrittura, possano risultare "ostili" a questa sicumera diffusa che purtroppo, molto spesso, fa la scena poetica di un paese. Bertoni, tra le altre cose, nella sua utile nota che però avrei visto meglio alla fine, rimanda in modo interessante a quella diglossia che potrebbe accomunare il nostro alle esperienze di Anna Maria Carpi o al transfugo norvegese Luigi Di Ruscio (troppo spesso, trascurato e pubblicato da un editore caparbio ma penalizzato nella distribuzione come Editrice Zona, e poi fortunatamente anche da Le Lettere e Ediesse). Interessante è anche l'esempio sintattico che Bertoni riprende in sede prefatoria. Ecco, quest'insieme di dati forse concorrono a non trasformare la poesia di Valesio in una poesia progettata per aderire alla perfezione coi palati poetici italiani. Rischia di rimanere appiccicata ai palati, di aver bisogno di ulteriore masticazione paziente, prima di diventare bolo e nutrimento, digestione. In questo la lunga vita americana del nostro autore può aver giocato un ruolo importante. Tuttavia, rimaniamo mammiferi anche quando leggiamo la poesia e il nostro tubo digerente è tutto un pezzo, dalla bocca allo sfintere, e osserva quel movimento peristaltico che, pur non evocando raffinati orizzonti di poesia come il respiro, è anatomicamente quanto di più vicino alla poesia esista.

(Esiste su Youtube un video girato alla Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University lo scorso marzo. Trovate Paolo Valesio, Davide Rondoni e Dave Johnson in conversazione. E lì si parlava proprio del libro di cui qui ho provato a suggerire l'apertura e l'ascolto, curioso come sarei di sapere dove si posizionano le vostre "dog ears".)



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