martedì 3 settembre 2013

I "Fuochi d'artifizio" di Corrado Govoni sparati in e-book. Un'intervista a Francesco Targhetta

Librobreve intervista #22


Chissà se il lettore dalla palpebra pesante apprezza gli e-book, chissà se gli e-book rendono la palpebra più o meno pesante. Finora se ne è parlato poco qui. Tanto vale cominciare, con un e-book quantomeno singolare. Invio le domande di questa intervista a Francesco Targhetta mentre è alle prese - così mi scrive - con la stesura della quarta di copertina per la nuova edizione dei Fuochi d'artifizio di Corrado Govoni da lui curata. Si curva tra i miei muscoli facciali un punto interrogativo: ma come la quarta di copertina? Il libro è infatti in uscita in questi giorni per Quodlibet esclusivamente in formato e-book, nella collana "note azzurre" diretta da Giuseppe Dino Baldi, Elena Frontaloni e Paolo Maccari. Proprio grazie all'interessamento di Paolo Maccari è oggi possibile leggere, in rosso e in verde, come prevedevano gli inchiostri dell'edizione originale, una delle opere principali dell'eccentrico poeta-contadino ferrarese. Introduco così questa chiacchierata, all'insegna delle improbabili "quarte di copertina degli e-book". E per citare il nome del file con le risposte giunto al mio pc: Govoni for president!

Corrado Govoni
LB: Andiamo diritti al sodo (e anche al soldo): perché fa bene leggere/rileggere Govoni e perché, a tuo avviso, l'editoria potrebbe iniziare a occuparsi di questo grande del Novecento con più sistematicità, senza troppi timori?

RISPOSTA: Leggere Govoni fa bene perché la sua è una poesia di continuo stupore, che nasce a contatto con le cose di ogni giorno e i paesaggi più familiari. I suoi versi esplodono di oggetti, colori, immagini, a cui solo di rado, nelle poesie più tarde, si aggiungono riflessioni personali e la presenza dell’io. In un tempo di iper-intellettualismo e iper-egotismo, una scrittura che lascia così tanto spazio alle cose e alla sensibilità del lettore mi sembra molto salutare. L’editoria ha sempre tenuto a distanza Govoni perché ha scritto troppo, stando (apparentemente) sempre in superficie. Troppo naïf, insomma, e troppo dispersivo. Lui se ne rese conto e subì l’emarginazione, sviluppando verso il mondo editoriale e culturale un’acredine violenta che di certo non gli giovò. Ma ormai è riconosciuto come uno dei poeti più influenti del primo ‘900. Fare ordine nella sua vastissima produzione non è facile, ma i grandi editori (a partire da Mondadori e da un auspicabile Meridiano) dovrebbero e potrebbero iniziare a lavorarci.

Il celebre Autoritratto
LB: Quando hai iniziato a posare gli occhi sul poeta di Tamara e come si sviluppa il tuo percorso govoniano? 

RISPOSTA: Govoni è un poeta che compariva (e compare tuttora), per la sua disposizione visiva e metaforica, in molte antologie delle scuole medie, e fu già allora che mi incuriosii ai suoi versi (quelli di Crepuscolo ferrarese, mi pare). L’approfondimento avvenne all’università. Mentre lavoravo alla tesi sulla simbologia religiosa nei poeti crepuscolari mi resi conto che le opere di Govoni erano introvabili; per consultarle dovetti andare alla biblioteca Ariostea di Ferrara. Un giorno andai in corriera a Tamara, dove una maestra locale mi portò a vedere la casa dove Govoni era nato e quella dove era vissuto prima del trasferimento a Milano, e poi un negozio di abbigliamento (di quelli piccoli, da paese di campagna: immensamente triste) che esponeva alcuni suoi libri in vetrina, disposti sopra abiti per anziane e sottovesti. Meraviglia. Lì cominciai ad appassionarmi alla figura di questo poeta-contadino del tutto fuori dagli schemi, e decisi di incentrare sulle sue prime quattro raccolte il mio progetto di dottorato.

LB: Proprio in questi giorni, in edizione e-book nella collana "Note Azzurre", Quodlibet pubblica i Fuochi d'artifizio da te curato. Ci parli di questo libro, che tra l'altro nel catalogo Quodlibet segue le Poesie elettriche uscite qualche anno fa? 
RISPOSTA: È il terzo libro di Govoni (che allora aveva appena 20 anni), ed è senz’altro uno dei più sconvolgenti, non solo perché uscì stampato con inchiostro verde. Offriva, nel 1905, una poesia mai sentita prima in Italia: visionaria e assieme provinciale, piena di errori e immagini scioccanti, tra liriche che descrivono in modo allucinato i pranzi contadini della domenica e fantasie macabre à la Rollinat (una quartina: «Una vedova in una stanza osserva attenta / la sua dentatura guasta in uno specchio. / Nella sala d’un ospedale un uomo canta / mentre i chirurgi gli cavano un occhio»), versi sulla nonna e vaneggiamenti di tisici, l’euforia della fiera e la tristezza dei conventi, e tutto assieme, senza nemmeno una divisione in sezioni. Si tratta, come cerco di spiegare nell’introduzione, di una specie di libro-labirinto, che costruisce sul caos e sul disorientamento il proprio stesso senso. Govoni divenne, dopo la pubblicazione, un caso letterario: molti, sulle riviste, lo criticarono aspramente fino alla derisione, sostenendo, con toni denigratori, che si trattasse soltanto dei deliri di un campagnolo un po’ tocco. C’era anche questo, eh. Ma non solo. Govoni aveva una conoscenza diretta e approfondita dei simbolisti franco-belgi che pochi altri in Italia avevano al suo tempo.

LB: Un altro libro di Govoni da te curato anni fa per San Marco dei Giustiniani è Gli aborti. Potresti collocare brevemente anche quel titolo? Qual è, a tuo avviso, l'opera più importante del Govoni poeta?
RISPOSTA: Gli aborti (1907) sono il libro successivo ai Fuochi. Marino Moretti, all’uscita della raccolta precedente, scrisse che Govoni, ai suoi occhi, non avrebbe potuto andare oltre, ma avanzò il sospetto che forse, in realtà, lo aveva già fatto. E infatti Gli aborti superano le oltranze dei Fuochi. Anzitutto perché riuniscono sotto lo stesso tetto due libri diversi (Le poesie d’Arlecchino e I cenci dell’anima: si tratta, quindi, di una doppia raccolta, la prima di soli sonetti e la seconda in versi liberi), e poi perché il furore visionario raggiunge apici impareggiabili. È un libro che oggi si definirebbe dark, con alcuni passaggi persino splatter, tutto concentrato a esplorare le zone d’ombra, le brutture, i canali di scolo, le creature della notte, e a riportarle sulla pagina deformate e sfatte. Govoni qua esaurisce il codice del decadentismo più noir elevandolo all’ennesima potenza. Ci sono vedove morte per annegamento, preti impiccati, ubriachi sgozzati, rospi, pipistrelli, fantasmi, mendicanti, malati, pazzi suicidi, città fatte di lupanari e obitori, mentre il sorriso dell’amata viene paragonato a «dei legumi gettati / dalla finestra del castello dentro la palude». Per me è un libro meraviglioso (in un’accezione quasi barocca, se vuoi): lo si apre a caso e si rimane incantati. Ma la raccolta più importante di Govoni, e nel complesso quella più riuscita, rimane L’inaugurazione della primavera del 1915.

LB: Ti chiedo adesso una risposta secca, poco più di un monosillabo: ci consigli anche il Govoni prosatore?
RISPOSTA: No. A Govoni mancava del tutto il talento narrativo. Nei racconti e nei romanzi si ritrovano le stesse immagini presenti nei versi, ulteriormente diluite.


Guido Gozzano
LB: "...abbassamento di tono apportato al verso tradizionale e la quasi parodia della rima ricca di tipo dannunziano o parnassiano". Poi, sempre Montale su Govoni, recensendo un'antologia curata da Spagnoletti: "Ho suggerito che probabilmente non si formerà una leggenda di Govoni.". Aveva visto bene? Se sì, perché? Il ponte (fondamentale?) tra Govoni e Gozzano, come si salda (se si salda)?
RISPOSTA: Uhm, dunque: l’abbassamento ci fu senz’altro, favorito da un mix di autodidattismo, irresponsabilità giovanile e marginalità provinciale (ma era anche nel dna di una nuova generazione). La quasi-parodia rimica mi convince meno: il contropelo ironico in Govoni manca. C’era in Gozzano, ma Gozzano fu tutt’altra cosa. E lo fu, come suggerisce proprio Montale in quella recensione, perché Gozzano era un poeta nella storia, che poté chiudere un periodo e aprirne un altro, lasciando ben visibili gli snodi, e con una notevole coscienza di sé. Govoni, nella fase più importante della sua produzione (1903-1915), agì di istinto, senza filtri. Leggeva e scriveva di getto, in furie grafomani che il suo Fondo testimonia. Ne è perciò rimasta un’immagine, e una poesia, più anarchica, meno inquadrabile, meno riducibile a formula; costretta, per essere spiegata, all’antologizzazione e all’epitome (come scrive Montale, con un giudizio critico che è diventato una condanna). Di Gozzano Govoni anticipò alcune immagini, prese a prestito dai francesi che leggevano entrambi, ma in comune non hanno nient’altro: la strada di Govoni è lirica e impressionistica, quella di Gozzano narrativa e prosastica.


Il libro curato
da Paolo Maccari
LB: Abbiamo già scritto e ripetuto che Fuochi d'artifizio esce soltanto in e-book. Quali idee e aspettative ti sei fatto in merito a questa scelta?
RISPOSTA: L’idea della pubblicazione digitale dei Fuochi era già nel progetto accademico originario che portò, nel 2008, a riproporre Gli aborti. Poi però, per varie ragioni, ci furono ritardi e non se ne fece niente. Grazie a Paolo Maccari, che aveva curato la riedizione delle Rarefazioni e parole in libertà (sempre per San Marco dei Giustiniani), Quodlibet si è interessata alla ripubblicazione del libro, mantenendo l’idea dell’uscita solo in e-book. E in effetti Govoni a me sembra un autore ideale da divulgare in digitale, non solo per la modernità e la stravaganza delle sue edizioni (i Fuochi sono un libro di 95 poesie stampate in verde e rosso: quale editore avrebbe mantenuto questi criteri su carta?), ma anche per l’interesse che dimostrò verso l’aspetto grafico della poesia (penso ai calligrammi delle Rarefazioni, ma non solo).

1 commento:

  1. Bella collana. Bello Govoni. Complimenti a quodlibet e curatore!!

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