giovedì 31 ottobre 2013

Placingliterature.com: verso la georeferenziazione dei vostri libri preferiti. Intervista a Andrew Bardin Williams

Librobreve intervista #29

Il "pin" di Transit di Anna Seghers
Avete mai pensato di posizionare su una mappa delle puntine da disegno (eventualmente anche virtuali) con i luoghi delle scene dei vostri libri preferiti? Ricordo che a me capitò un desiderio del genere mentre leggevo Il barone Bagge di Alexander Lernet-Holenia. Avrei voluto trovare nel libro una bandella estraibile dove poter seguire su una mappa gli spostamenti dei protagonisti, sul fronte orientale della Prima guerra mondiale. Capire quali posti fossero nell'Europa attuale. Non qualcosa di statico come una puntina, nel mio caso, ma più una mappa dove poter seguire un itinerario. Pensavo che qualcosa del genere si sarebbe potuto fare online. Una sorta di ibrido tra Wikipedia e Google Maps, se volete, un progetto "collaborativo" in crowd&cloud, una mappa dove ambientare e posizionare un dato titolo della letteratura, arrivare ad una raccolta dati "critica" attraverso la quale si potessero fare poi ricerche affinate, attraverso gli spazi e i tempi diversi della letteratura. Come spesso accade, ho finalmente scoperto che qualcuno ha già pensato a qualcosa di simile. Il progetto è appena partito, ma merita di essere quantomeno illustrato. Si chiama Placingliterature.com come il sito che lo ospita. Ho brevemente intervistato uno dei fondatori, Andrew Bardin Williams. Il progetto è stato presentato da poco e ha avuto il non trascurabile endorsement del giornalista scientifico del New York Times Carl Zimmer.

LB: Dove nasce l'idea di PlacingLiterature.com?
RISPOSTA: Sono uno scrittore e la moglie di mio fratello è geografa. Eravamo soliti stare al tavolo a cena, durante le vacanze, a discutere quale fosse il punto in comune dei nostri due mondi. Alla fine abbiamo intravisto una sovrapposizione e abbiamo deciso di esplorare queste connessioni. Come ispirano l'arte i posti che ci circondano? E come può l'arte costruire una comunità? Si è presentata poi l'opportunità di studiare questo grazie ad una borsa di studio dell'Arts Council of Greater New Haven. Parte della nostra ricerca consistette nel chiedere a uno sviluppatore software di San Francisco di costruire un'applicazione per web che permettesse di studiare i posti della letteratura a partire da una singola mappa. Dopo mesi di coinvolgimento nel progetto abbiamo capito che stavamo lavorando a qualcosa di interessante e che i lettori e ricercatori in giro per il mondo potevano usare il nostro sito come una piattaforma per mappare e condividere le scene dei loro libri preferiti. Chi legge Dan Brown può andare in vacanza a Roma e usare la nostra app per seguire il percorso che fa Robert Langdon ne Il codice Da Vinci. Oppure può girovagare per il confine franco-tedesco e capire quali sono gli scenari delle battaglie che Remarque descrive in Niente di nuovo sul fronte occidentale. Oppure seguire Hemingway nei suoi spostamenti durante le guerre, in Italia o in Spagna. E il tutto diventa  molto più potente se pensiamo che quelle informazioni derivano da altri lettori che hanno speso tempo per mappare e condividere i posti dove sono ambientate quelle storie.

LB: Quando avete lanciato questo progetto e quali sono i primi riscontri?
RISPOSTA: Pubblicamente è stato lanciato all'Arts and Ideas Festival in New Haven, USA, nel giugno 2013. Il moderatore del nostro intervento era Carl Zimmer, un giornalista scientifico del New York Times. Alla fine abbiamo capito che era uno sfegatato di Sherlock Holmes e probabilmente anche per questo motivo si è preso a cuore il nostro sito. Il suo tweet sul nostro progetto ha raggiunto oltre 250.000 followers e da lì abbiamo iniziato ad avere le attenzioni della stampa americana e non solo. Sono usciti articoli sul New Yorker, The Paris Review, Huffington Post e altre riviste europee. Poi hanno iniziato gli autori di blog sui libri a diffondere la notizia ai loro lettori. Questo pieno di attenzione ci ha entusiasmato e reso nervosi al contempo, anche se tutto si è comunque risolto.

LB: Si può parlare di una vostra strategia di crescita a livello mondiale?
RISPOSTA: Il nostro obbiettivo al momento è raccogliere quanti più dati accurati possibili e questo dipende molto dalla nostra capacità di rendere la user experience assai fluida. Dev'essere facile mappare una scena e cercare scene in posti particolari o dai nostri autori. Abbiamo ovviamente bisogno di far passare parola. Al momento, le persone arrivano al nostro sito con ricerche o grazie ad articoli dei giornali e riviste. Idealmente vorremmo essere integrati direttamente nell'esperienza di lettura. Ad esempio, le persone leggono un libro e prima di spostarsi al libro successivo vanno su Amazon, Goodreads o su un altro sito per recensire il libro e condividere l'esperienza di lettura di quanto hanno appena concluso. Perché non pensare che PlacingLiterature.com possa diventare parte di questo processo di lettura e quindi mappare la scena nel nostro database? Nel futuro, la cosa migliore sarebbe essere integrati direttamente negli e-reader come Kindle, iBooks o Nook, così che i lettori possano mappare le scene senza nemmeno chiudere la app. Questo sarebbe il massimo.

LB: Ad un livello business, possiamo vedere delle implicazioni?
RISPOSTA: Difficile raggiungere il modello Wiki, perché facciamo affidamento sullo stesso audience affinché si autocontrolli per correggere errori e assicurare l'accuratezza dei dati. Ci vogliono inoltre dei dispositivi di sicurezza per assicurare la non sovrascrittura dei dati o che qualcuno arrivi a postare pubblicità o SPAM. Stiamo lavorando per creare un modello che funzioni e questo richiederà tempo.

LB: Sei il cofondatore. Potresti dire qualcosa sul tuo percorso e su quello degli altri fondatori?
RISPOSTA: Sono un romanziere che ama ambientare le storie in posti reali per aggiungere realismo alle mie storie. Kathleen Williams è geografa che ama passare il tempo nella zona dei grandi laghi negli Stati Uniti e Canada. Steven Young è uno sviluppatore software, viene da Google ed è un lettore vorace di Cormac McCarthy. Puoi trovare le nostre biografie qui.

LB: Per finire potresti aiutare i lettori del blog a immaginare cosa potranno trovare e scoprire in un sito così attrezzato, quando sarà a pieno regime?
RISPOSTA: Ci sono tante strade possibili che non è possibile elencarle tutte. I lettori potranno visitare i posti sui quali stanno leggendo qualcosa. I club di lettori e le biblioteche potrenno esplorare la letteratura locale. Gli studenti potranno studiare la connessione tra posti dell'ambientazione e posti reali. Le attività commerciali potranno far leva sul fatto che sono sul set dell'ultimo best-seller. Ad ogni modo, per essere franco con te, non possiamo nemmeno concepire tutte le cose che si potranno fare con i nostri dati. Vogliamo semplicemente essere una piattaforma per concentrare questo tipo di informazioni in un solo posto e lasciare la creatività alle persone sul modo migliore per impiegarle. Nel frattempo, incoraggiamo i lettori del tuo blog a mappare le scene dei loro libri preferiti e a condividere queste informazioni con il resto del mondo. C'è una così grande ricchezza di informazioni relativa a scene della letteratura che accadono in posti reali. Era ora che qualcuno pensasse a centralizzare quel tipo di informazione in un posto solo.

martedì 29 ottobre 2013

"Dobbiamo disobbedire", le risposte di Goffredo Parise ai lettori dalle pagine del Corriere della Sera

Dobbiamo disobbedire (Adelphi, pp. 76, euro 7) è ricavato in parte da Verba volant. Profezie civili di un anticonformista, libro assai più corposo curato sempre da Silvio Perrella per Liberal Libri nel 1998. Il curatore ci fa presente che gli scritti scelti per questa silloge sono quelli dove lo scrittore, "scrollandosi di dosso la cenere dell''attualità', rende visibile il fuoco sottostante." Vi riscopriamo un Goffredo Parise magnificamente abbandonato, tra la pedagogia e la fantasia. Questa una delle sue cifre. Il volume raccoglie alcuni interventi giornalistici nati attorno a una rubrica che nel biennio 1974-75 lo scrittore veneto tenne sulle pagine del Corriere della Sera. Trovo significativa la collocazione temporale di questo esperimento accolto con entusiasmo da Parise, con un abbrivio poi esauritosi naturalmente, e per la stanchezza accumulata, e per la difficoltà di trovare lettere che lo "aiutassero" davvero a scrivere qualcosa di significativo e pedagogico, stimoli veri per immaginare il futuro e non per rimpiangere inutilmente il passato, lettere-stimolo insomma che non fossero pavide o a circuito chiuso, per nulla dialogiche. Dicevo della significativa collocazione temporale di quest'esperienza, tra la pubblicazione del primo volume einaudiano dei Sillabari e prima della stesura di quel gran libro, scritto sul finire dei Settanta ma pubblicato solo dopo la morte, che si scopre ne L'odore del sangue. Il funzionamento della rubrica del Corriere era quello "classico" di un autore affermato che risponde ai lettori del grande quotidiano "nazionale". Scrivo "classico", ma nello stesso tempo mi chiedo quale autore affermato abbia poi ripetuto l'esperimento riuscendo a suonare con tanto coraggio la tastiera del dialogo con i lettori di un quotidiano. Scrivo quotidiano "nazionale" ma nel farlo mi chiedo se già allora il Corriere vendesse poche copie fuori dalla Lombardia. Parise accettò quel lavoro giornalistico anche per "curiosità umana" (lo afferma lui stesso), la stessa molla che anni prima l'aveva condotto a passare a quello stesso quotidiano scritti di ben altra natura dalle zone calde del pianeta. In questi scritti niente Birmania, Laos, Vietnam, Cina o Biafra, niente frigida eleganza giapponese: qui troverete solamente l'Italia.

Ho letteralmente massacrato questo libretto leggerissimo di pesanti orecchie, tanti sono i passi memorabili della scrittura di Parise e tanto significativi sono pure i brandelli di lettere che Parise preleva e campiona con la sua nasuta sonda, nel gran mare della corrispondenza che non di rado lo accusa, lo biasima o, manco a dirlo, lo taccia di essere, a seconda dei casi, comunista o fascista o giù di lì. Verrebbe da dire che da buon medico, usando i sensi e la lingua, Parise individua molti dei sintomi dei cancri italiani (cosa che del resto aveva già iniziato a fare con Il prete bello o Il padrone). Quest'abilità di diagnosi appare chiara, finanche lampante, quando parla della "povertà", che significa capire bene fino in fondo ciò che è "necessità", capire le differenze tra le cose in un paese che è diventato "un'enorme bottega di stracci non necessari", un rimedio nella "povertà" - aggiungo ora, in questi giorni - ben lontana dalle favolette delle "decrescite" che tengono banco da anni, con aggettivi qualificativi plurimi, in calderoni d'opinioni che si crogiolano spesso in bassezze e vigliaccherie, come quelle dell'agroalimentare minimal-slow-OgmFree per partito preso (signori miei come si tiene in vita una popolazione mondiale in crescita? Tutti alimentati con l'agnello dell'Alpago presidio slow o a pane, magari non banale pane ma un "Pan di Sorc" e "botìro di Primiero di malga"? O con innovative ricette ottenute mischiando la "Pecora Villnösser Brillenschaf" con "Aglio di Resia"? Che vivacchi pure lo Slow Food nel suo territorio definito in negativo rispetto al Fast Food, ma che non si spacci per cultura un'invenzione del marketing più territorialmente segmentato, per quanto possano essere buone le sue cose da mangiare o da bere). Quasi ci inquieta leggere le pagine dove Jaufré "incapsulato / in una botte" (sono i versi lagunari di Montale a lui dedicati) prende di mira quell'uccellin di lettore che vorrebbe un'esperienza di lettura del giornale rilassante ed evasiva, senza le brutte notizie, o quando mette a segno un altro colpo da maestro del giornalismo parlando della dissonanza tra l'umanesimo che impronta l'offerta scolastica italiana, allora come oggi, e la società nata sul gran falò televisivo (ora digital-televisivo) che di questa scuola deve incomprensibilmente servirsi, oppure quando si sofferma sui politici e sulle loro facce, così come sono percepite e pre-giudicate da una cultura contadina (sì, "facce", avete letto bene, e tra tutte sono sicuro che vi resterà l'analisi della faccia di Berlinguer). E poi parte letteralmente in quarta, nello stupendo e doloroso scritto intitolato L'Italia dei "lotti", dove è marcato e ricorrente il senso di uno Stato italiano che non c'è e forse mai ci sarà. In quest'occasione Parise quasi rimbrotta un malcapitato signor Framarin che gli chiede di intervenire sulla questione di tutela del suo (loro) paesaggio d'altopiano vicentino, la montagna veneta Verena-Campolongo. Parise dice che non vuole ricordare quel paesaggio che non c'è più (lo stesso paesaggio onirico che forse s'insinua tra la foschia chagalliana de Il ragazzo morto e le comete), che non avrebbe senso farlo, e produce un pensiero molto più utile, un piccolo capolavoro di prosa giornalistica del quale non riesco a non riportare un brano abbastanza lungo, la cui verità sembra sempre più sotto gli occhi di tutti (anche se sta prendendo magari nuove forme):

"L’Italia non vuole più essere l’Italia. Gli italiani (parlo della grandissima maggioranza) non vogliono più essere italiani. Se ne fregano dei monumenti, dei musei, di San Pietro e della chiesa cattolica, dei Palazzi Pitti e Uffizi; ci mandano i loro figli con la scuola, ma se ne fregano, e se ne fregheranno i loro figli quando sarà il momento. Gli italiani non vogliono più essere italiani perché vogliono essere ancora meno che regionali, vogliono essere “paesani”, “paisà”, perché l’unità d’Italia, che del resto non c’è mai stata, oggi c’è meno che mai. 
Oggi l’Italia è spezzata non in staterelli, ma in “lotti”, in piccole, piccolissime, proprietà private a cui gli italiani, nel loro povero animo e nel loro povero corpo privi di Stato tengono in modo fanatico. Per gli italiani di oggi, non di ieri, l’Italia è il “lotto”, il proprio terreno, la propria villetta, il proprio “bicamere e servizi”, costruiti da geometri o finti architetti secondo i propri gusti e soprattutto in materiali pressoché eterni come il cemento armato che diano a quei poveri corpi e a quelle povere anime senza Stato l’illusione di averne uno, indistruttibile. Se potessero costruirsi un bunker, con fabbrichetta accanto e un proprio esercito personale, lo farebbero. Il perché è troppo lungo da spiegare, fondamentalmente va ricercato nell’assenza non soltanto dello Stato ma dell’idea dello Stato (che fa lo Stato), che non gli è mai stata insegnata, che non hanno mai amata, che è ostica al loro cervello e al loro cuore, e in cui non credono."

Ma non pensate che sia solo questo il Parise che risponde ai lettori del Corriere, e meglio ancora potreste fare vostra questa convinzione se venite a capo del più ricco volume Verba volant. Ad una lettera anonima che si interrogava sul suicidio, Parise rispose:

"Mi dispiace molto che non abbia firmato la sua lettera. Avrei tenuto nascosto il suo nome, ma l’avrei cercata, per telefono, una mattina presto, all’alba, per chiederle che tempo fa nel luogo dove lei abita e per farmelo descrivere nei dettagli. Quei dettagli che, messi insieme, fanno le ore, il giorno, gli anni e la vita che ci è dato vivere (qualunque essa sia sempre bella appunto, perché imprevedibile come il tempo) e che è tutto, dico tutto, quello che abbiamo".

(Questo libro si legge in una quarantina di minuti. Ho preso metà di questo tempo per scrivere, forse troppo disordinatamente, un brano che avrei potuto sintetizzare in una frase: se vi capita, leggete questo libro appena uscito. Ogni tanto consiglio apertamente.)

sabato 26 ottobre 2013

Federico Italiano illustra "Die Erschließung des Lichts", antologia di poesia italiana curata con Michael Krüger

Librobreve intervista #28

Federico Italiano
Parliamo di poesia italiana tradotta, in questo caso in tedesco. Si tratta di un esperimento per questo blog, di una "prima volta". Vediamo come viene. Il libro di cui vi parlo è breve se lo leggete solo a destra o solo a sinistra, come è probabile avvenga nella quasi totalità dei casi (si potrebbero aprire dibattiti infiniti sul pubblicare poesia con il testo a fronte). A mio avviso è molto interessante il ragionamento che l'intervistato fa attorno al concetto di Lesebuch applicabile a queste antologie tedesche (in Italia invece le antologie diventano presto pretesti per scrivere e dibattere e alla fine forse ci si scorda di una cosa basilare che si può fare con queste: leggerle). Die Erschließung des Lichts. Italienische Dichtung der Gegenwart. Schriftenreihe der Deutschen Akademie für Sprache und Dichtung, Band 24 (a cura di Federico Italiano e Michael Krüger, pp. 296, 21,90 € (D) / UVP 29,90 sFR (CH) / 22,60 € (A)), antologia appena sfornata da Hanser Verlag, sembra porsi come un nuovo punto d'arrivo e, inevitabilmente, come un nuovo punto di partenza per la conoscenza della nostra poesia oltre il Brennerpass. Federico Italiano, che in questo blog ha già trovato spazio per una recensione al suo bel saggio intitolato Tra miele e pietra. Aspetti di geopoetica in Montale e Celan, ha gentilmente accettato il mio invito a illustrare questo recentissimo volume curato con Michael Krüger dove trova posto una fitta schiera di traduttori. Buona lettura.

LB: Quali sono state le premesse di questo ambizioso progetto di antologia e traduzione confluito nel volume recentemente pubblicato da Hanser Verlag, curato da te e Michael Krüger?
RISPOSTA: Michael coltivava da molti anni il desiderio di curare una nuova antologia della poesia italiana contemporanea. Ha sempre avuto grande ammirazione per la poesia italiana del Novecento e, quando ha potuto, non ha mai mancato di promuoverla in Germania, in particolare dalle pagine di "Akzente", una rivista letteraria ormai leggendaria, edita da Hanser, che lui cura personalmente da più di trent’anni. Non è dunque un caso che molte delle traduzioni che abbiamo utilizzato per l’antologia fossero state pubblicate per la prima volta in quella rivista. Il lavoro a un’antologia bilingue richiede però, oltre alla passione (di cui Michael è mirabilmente fornito) anche tempo (l’unica cosa che davvero sembra mancargli) e un’onesta dose di bilinguismo. Qualche anno fa, in occasione della traduzione in tedesco e pubblicazione di alcune mie poesie su "Akzente" (2008), poi confluite nella mia raccolta L’invasione dei granchi giganti (Marietti, 2010), m’invitò nel suo ufficio a Monaco, città in cui vivo da una dozzina d’anni, e tra una sigaretta e un caffè, mi raccontò del progetto antologico. Se non ricordo male, non mi chiese nemmeno se avrebbe potuto interessarmi o meno curare con lui l’antologia. Immagino diede la cosa per scontata. Quel giorno uscii dall’ufficio con un contratto in mano e una strana voglia di fare classifiche e florilegi.


Michael Krüger
LB: A quando risalivano le ultime importanti antologie tedesche di poesia italiana e in cosa si differenzia Die Erschließung des Lichts?
RISPOSTA: È importante fare una premessa. Le antologie poetiche, in Germania, specie quelle che raccolgono la produzione di una determinata tradizione letteraria, non hanno quasi mai il carattere investigativo, di sistemazione o di ricerca, che hanno invece, a torto o a ragione, le loro consorelle italiane. Per intenderci, un’antologia à la Mengaldo o sulla stile di Parola plurale sarebbero impensabili in Germania. Le antologie in Germania sono più come un Lesebuch, un libro da sfogliare di tanto in tanto, una lettura di piacere e scoperta, tutt’al più elegantemente informativa. Questo non significa che le antologie non abbiano importanza. Anzi, sosterrei l’esatto contrario. Penso al Museum der modernen Poesie di Enzensberger, che è da un lato un esempio perfetto del modello antologico tedesco e dall’altro un’operazione culturale che ha avuto grandissima risonanza e influenza, anche a livello di formazione del canone. Per quanto riguarda le antologie della poesia italiana contemporanea, che si contano sulle dita di una mano, non si può dire che ce ne sia una che emerga per particolare prestigio. Una delle più solide rimane Italienische Lyrik des 20. Jahrhunderts (1971), a cura di Christine Wolter (ottima traduttrice, cui abbiamo affidato anche nuove traduzioni per la nostra antologia), che è anche la meno recente; a seguire: Italienische Lyrik der Gegenwart, con traduzioni in prosa, a cura di Franco de Faveri e Christina Wagenknecht (1980); Italienische Lyrik nach 1945; Klassiker der Moderne, Industrielandschaft, Frauenlyrik, a cura di Hans Joachim Madaus, Gio Batta Bucciol e Georg Dürr (1986) e Die Mühledes Schlafs. Poesie aus Italien, a cura di Gregor Laschen, del 1995. Dei primi anni Novanta sono anche i maggiori studi sulla poesia italiana contemporanea, quello di Hiterhäuser del 1990 e quello di Manfred Lentzen, del 1994. Dopo, onestamente, c’è un po’ il buio, fatta eccezione per le antologie tematiche di Gino Chiellino (la prima, del 1987 dedicata alla poesia erotica italiana, e l’altra, del 2005, ai poeti di lingua italiana al di là delle Alpi) e un’antologia di genere, dedicata a “Dieci poetesse italiane contemporanee” del 1995, a cura di Gio Batta Bucciol. Assolutamente degna di nota e lettura è invece l’antologia settimanale online “italo.log”, curata da Theresia Prammer e Roberto Galaverni, aggiornata dal febbraio 2008 all’aprile 2010: una delle cose più belle fatte in tempi recenti per la diffusione della poesia italiana all’estero. In che senso si distingue Die Erschließung des Lichts dalle sue precorritrici? Innanzitutto per una scelta più vasta degli autori, sia in termini di numero che in senso poetologico e stilistico. In secondo luogo, se me lo permetti, mi pare dimostri un approccio più aperto e neutrale al Secondo Novecento, privo, almeno nelle nostre intenzioni, d’immotivate simpatie o particolari avversioni o fervori ideologici. E questo non tanto per un nostro innato equilibrio, ma perché nel 2013 possiamo guardare ai poeti del Secondo Novecento con una certa distanza e pacatezza.

LB: Qual è lo "stato" della poesia italiana in Germania? Se mi passi una domanda stile "Attimo fuggente" o stile J. Evans Prichard, nelle "classifiche" delle poesie più tradotte e lette nei paesi di lingua tedesca come è messa l'Italia? Sta "gagliarda"?
RISPOSTA: Diciamo che non possiamo lamentarci. Considerando che il nostro paese non sovvenziona il lavoro dei traduttori (persino la Grecia fino a qualche tempo fa aveva un programma di questo genere) e non fa quasi nulla per promuovere i suoi autori, men che meno i poeti, ha del miracoloso la tenuta della poesia italiana nei paesi di lingua tedesca. Per gran parte, viviamo ancora di rendita sui grandi padri del Novecento, Ungaretti, Montale, Pavese, Saba cui aggiungerei Pasolini, Luzi e Zanzotto. Un cultore di poesia tedesco o austriaco questi nomi li conosce bene e forse è pure in grado di citarti qualche verso. Questi nomi, diciamo, tengono alte le nostre quote… Ciò che invece stupisce è che poeti canonicamente stabili e molto amati in Italia come Sereni, Pagliarani o Raboni, per citarne solo alcuni, siano degli emeriti sconosciuti oltre il Brennero, anche a livello accademico purtroppo. Lasciano ben sperare invece le recenti antologie di singoli poeti come Pusterla, Cavalli, Anedda e De Angelis (due di queste uscite proprio da Hanser).

LB: Come avete operato nella concretezza del cantiere faticoso di un'antologia? Come è avvenuta la scelta dei nomi? Inoltre, come avete deciso inclusioni/esclusioni che da sempre sono il meccanismo più discusso di ogni antologia? E non da ultimo vorrei sapere come è avvenuta la scelta delle traduzioni (ho notato molti nomi tra i traduttori).

RISPOSTA: Nei primi mesi di lavoro ci siamo scambiati con una certa frequenza lunghissime liste di nomi e titoli, vergate da commenti, riferimenti vari e brevi note esplicative. All’inizio eravamo partiti con l’idea di includere anche poeti nati negli anni Sessanta, ma la lista si era così infoltita, che ci siamo prefissati di prendere in considerazione solo autori nati tra gli anni Dieci e gli anni Cinquanta, da Bertolucci a Pusterla per intenderci: autori, insomma, con un’opera già cospicua e riconoscibile prima della fine del Millennio. Le inclusioni e le esclusioni sono dipese, in generale, da fattori più o meno discutibili e/o giustificabili come l’originalità stilistica, la consapevolezza poetologica e l’impatto storico-culturale del singolo autore, e, nello specifico, da un fattore totalmente ingiustificabile: il gusto dei curatori, o meglio, il compromesso tra il mio gusto e l’esperienza di Michael. 
Non è stato sempre facile: per esempio, mi è toccato un paio di volte difendere la poesia di un autore che Michael sentiva nominare per la prima volta e di cui non era assolutamente convinto. Non lo era, soprattutto perché le traduzioni in tedesco non gli suonavano… Come difendere però quell’autore se non parafrasando la traduzione o improvvisandone al tavolo un’altra ancora più precaria? Puoi immaginarti la difficoltà...

LB: Quale il bilanciamento tra traduzioni già esistenti qui ripubblicate e nuove traduzioni ad hoc per questo volume? 
RISPOSTA: L’antologia consiste per metà o quasi di traduzioni già edite altrove, su riviste letterarie, in particolare "Akzente", in altre antologie e nelle raccolte tradotte dei singoli poeti. L’altra metà è il frutto del lavoro di traduttori da noi ingaggiati tra il 2009 e il 2011, cui abbiamo affidato, secondo criteri di affinità o meno all’autore da tradursi, singoli testi o gruppi di poesie. La nostra antologia è dunque anche una sorta di staffetta tra la vecchia guardia di stimati traduttori letterari dall’italiano, come Hanno Helbling, Hans Magnus Enzensberger e Christine Wolter, e la nuova generazione, Theresia Prammer, Piero Salabè, Pia-Elisabeth Leuschner e Daniel Graziadei tra gli altri.

Giuliano Mesa (1957-2011)
LB: Qual è stata per te l'inclusione più discutibile, quella sulla quale potresti aver ripensamenti e "l'esclusione più dolorosa"?
RISPOSTA: Non credo vi sia un’inclusione così discutibile di cui potrei pentirmi. Ci sono forse due o tre inclusioni che potrebbero parere azzardate, Remo Pagnanelli o Gabriella Sicari ad esempio, ma sinceramente ben vengano critiche in questa direzione. Per quanto riguarda le esclusioni, non ce n’è una in particolare che non mi abbia fatto dormire la notte. E se anche ci fosse, preferirei tacerla. Come ho scritto anche nella postfazione all’antologia, posso dirti che avrei molto volentieri inserito Primo Levi, perché lo considero un gigante assoluto del Novecento e un poeta finissimo e originale, ma avrei dovuto allora inserire anche Paolo Volponi, e perché non Roversi? O Neri e Zeichen, che del resto erano nel computo fino a pochi mesi prima delle bozze? E Mesa ed Erba e Pontiggia e De Signoribus? E potrei continuare… Insomma, già capisci che un dolore viene sempre ben accompagnato.

LB: State presentando il libro e avete in mente anche qualche tappa italiana di presentazione?
RISPOSTA: Il libro è ovviamente pensato per un pubblico di lingua tedesca e le presentazioni si orienteranno di conseguenza. D’altra parte, sembra ci sia interesse anche in Italia per questo volume e la cosa mi rallegra molto. Forse faremo due tappe in Italia, a Roma e a Milano. Quando avrò date certe, te lo farò sapere.
 
LB: Infine una domanda per il poeta, saggista e traduttore che sei: quale la difficoltà maggiore nel portare la poesia italiana nella lingua tedesca? Ogni poeta presenta naturalmente difficoltà specifiche, ma c'è un tratto di difficoltà che accomuna qualsiasi tentativo di traduzione poetica dall'italiano verso il tedesco? Grazie.
RISPOSTA: Il tedesco è una lingua che tende da un lato a inglobare, come la sua sintassi, che chiude il pensiero nelle maglie del verbo, e dall’altro a marcare foneticamente la separazione tra le parole; è una lingua, diciamo, non incline al legato. L’italiano, invece, è sintatticamente più nervoso e mobile, con una pronuncia naturalmente portata alla sinalefe. Il francese ne mangerà tante di vocali, ma anche l’italiano non scherza. Venire a capo di questa eterogeneità, a prescindere dalla difficoltà o meno di un dettato poetico, è già un’impresa. Poi ci sono vere e proprie bestie nere per il traduttore tedesco, come il gerundio o il participio presente, che risolvono spesso il verso italiano con eleganza e sinteticità, rendendolo agile e piacevolmente aperto, ma che nella traduzione tedesca vanno sciolte per forza, dando luogo, a volte, a costruzioni pesanti e macchinose. Per non parlare dei casi e del genere… Dipende sempre dalle risorse di un traduttore; qui vale il solito ritornello: un traduttore letterario deve sì conoscere a fondo la lingua da cui traduce, ma deve soprattutto dominare la propria.
Per tornare alla tua domanda, la mia risposta è no, non credo vi sia un tratto unico che determini la difficoltà di rendere la poesia italiana in tedesco. Una traduzione è un’operazione transculturale, una negoziazione di differenze non solo tra sistemi linguistici già al loro interno assai diversificati e disomogenei, ma anche tra costruzioni e finzioni d’identità. Voler individuare qualcosa di unico e costante in una lingua, quella parte immutabile che non può essere tradotta, sarebbe come voler cercare l’essenza, il nucleo, il nocciolo duro di una cultura e credo che questo sia un errore.

mercoledì 23 ottobre 2013

"Tacet" di Giovanni Pozzi. Una copertina che assomiglia a un poster pubblicitario

©overtures #3. Il pretesto per divagare tra copertine, grafica editoriale e storie di libri


Il libro era già uscito in un'edizione fuori catalogo e ora invece ricade all'interno della collana "Biblioteca minima" (Adelphi, pp. 42, euro 7). Tacet è un brevissimo scritto di padre Giovanni Pozzi, un silenzio di parole e tra parole talmente breve e scorticante che ha senso solo dare notizia dell'uscita del libro e invitarvi a leggerlo. Allora non parlo del contenuto e scrivo invece di due cose di contorno: prezzo e copertina. La soglia dei 7 euro di media per questi volumetti incomincia a parermi esagerata. Lo stesso dicasi per altri editori che hanno preso questa via del libro breve, solitamente entro le 64 pagine, con una veste grafica e qualitativa non da strappo dei capelli, e con un prezzo di copertina in media sui 7-8 euro. Non sono pochi, penso a certe collane di Laterza, Bollati Boringhieri o Castelvecchi. Sono i libri di cui parlo spesso anche qui. Tuttavia conosciamo tutti le annose problematiche legate al "prezzo del libro" e a una nuova legge a questo dedicata. Ma torniamo all'altro aspetto di quest'edizione di Tacet. La copertina mostra il dipinto di Baccio della Porta, un San Domenico che si trova al Museo di San Marco di Firenze ripreso nell'atto di portarsi l'indice perpendicolarmente davanti alla bocca: silenzio, tacet appunto. Se non fossimo di fronte al libro che contiene uno scritto di un grandissimo studioso di letteratura del secolo scorso e pubblicato da una delle più raffinate case editrici italiane diremmo di essere davanti ad una sorta di manifesto pubblicitario, tanto la copertina è costruita secondo quell'armonia tra visual (il santo) e headline (il titolo) che deve essere regola in ogni buon annuncio pubblicitario. Chi l'ha pensata forse non è digiuno di questi meccanismi e mi pare che ultimamente Adelphi stia trovando, anche in altre collane, degli interessanti stratagemmi per uscire da quella gabbia grafica che l'ha imbrigliata per tanti anni e che ha fatto sicuramente la sua fortuna, trasformandola quasi in un'icona del libro italiano. Sta provando questi stratagemmi grafici con massima gradualità, rimanendo dentro quella gabbia e quegli elementi grafici imprescindibili.

Il libro è il quarto che Adelphi dedica al religioso svizzero-italiano, che fu allievo di Gianfranco Contini a Friburgo, maestro più anziano di lui di soli undici anni. Arriva dopo La parola dipinta (1981), Sull'orlo del visibile parlare (1993) e Alternatim (1996). Sue sono le curatele di opere di Maria Maddalena de' Pazzi, Angela da Foligno e Giovan Battista Marino (sempre per Adelphi) e va ricordata senz'altro l'edizione critica di Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, di cui il prossimo anno ricorrerà il cinquantenario. Di questo Tacet riporto solo l'incipit, preso dal paragrafo intitolato Solitudine:

"Ogni proposito di vita solitaria si scontra col paradosso che, se cercata, la solitudine è inafferrabile; se ti afferra, è insopportabile. L'uomo è un solitario non solo. [...]"

Proprio La parola dipinta costituì l'incontro con la sua opera. Ricordo che ero all'università e nelle ore buche talvolta mi infilavo a sentire le lezioni di Franco Volpi sul nichilismo, di Adone Brandalise su Cervantes o Baltasar Gracián e di altri professori che volevo a tutti i costi ascoltare e vedere all'opera. Tra questi c'era Armando Balduino, che intercettai un pomeriggio durante una lezione su Zanzotto, costruita attorno alla poesia "scritta sotto il Vajont" e datata 26 ottobre 1963 e introdotta da Balduino parlando di "parola dipinta" e del libro di Giovanni Pozzi. Non so se avete presente, è quella con la parola IODIO che diventa progressivamente, all'interno di un triangolo rettangolo "ballerino" appoggiato per un vertice e non sulla base, ODIO, poi DIO, poi IO e poi O. La poesia, scritta tra l'altro in francese, si intitola Microfilm. Eccola qui sotto. Ha senso riportarla ora, per chiudere un ipotetico cerchio che va da Giovanni Pozzi ad Andrea Zanzotto passando per il disastro del Vajont, visto quanto si è discusso di quel disastro di cinquant'anni fa nei giorni scorsi, spesso anche male, nella disinformazione generale (mostrata a mio avviso anche da qualche défaillance di troppo scappata a una conduttrice come Concita De Gregorio).

Che cosa c'entra padre Pozzi con la De Gregorio e il Vajont e Zanzotto? Scusatemi, filo perso. O forse no, improvvisamente ritrovato nell'insegna del titolo di questo libello.


Il sogno trascritto di "Microfilm" di Andrea Zanzotto (da Pasque del 1973)


lunedì 21 ottobre 2013

Carni e immagini in Valerio Magrelli. "Il mio corpo estraneo" di Federico Francucci

Librobreve intervista #27


Fresco di stampa è il suo Il mio corpo estraneo. Carni e immagini in Valerio Magrelli (pp. 116, euro 12, con una premessa di Clelia Martignoni). Mercoledì prossimo (ore 11, sala lauree ex Facoltà di Lettere) se ne parlerà all'Università di Torino assieme a Magrelli stesso e contestualmente, in quell'occasione, verrà presentata la nuova edizione commentata da Sabrina Stroppa e Laura Gatti di Ora serrata retinae, l'esordio poetico per Feltrinelli del poeta romano, datato 1980 e riproposto da Ananke Edizioni. Nel pomeriggio dello stesso giorno, alle ore 17:30, i libri citati troveranno spazio alla libreria Golem di via Rossini. Francucci insegna in quell'ateneo di Pavia che tanto ha dato e continua a dare all'italianistica ed è studioso tra i più interessanti tra quelli che riesco a seguire. Mi piaceva l'idea di intervistarlo per parlare del suo ultimo saggio e di Magrelli. Fortunatamente, per me ma anche per i lettori di Librobreve, ha accettato.

LB: Partiamo dall'opera più recente di Magrelli, finalista al premio Campiello, che è investita in pieno dall'ultimo ricco capitolo del tuo libro. Di Geologia di un padre (recensito qui) Magrelli afferma in un'intervista: "quello che mi stava a cuore era soprattutto cercare di ricreare la presenza di mio padre, dunque non tanto sciogliere le ambiguità della memoria, ma scegliere, scegliere invece di sciogliere, quelle più rappresentative." In questo gioco linguistico tra scegliere/sciogliere sembrano raddensati anche due secoli di riflessione teorica sul romanzo. Sei d'accordo?
RISPOSTA: Geologia di un padre è un libro in cui la presenza del padre di Valerio è Valerio stesso: lo si capisce molto presto. Dunque, giocando un po’ con la dichiarazione che riporti, così come Magrelli ha giocato sull’equivoco scegliere-sciogliere, direi che Geologia di un padre è un libro in cui Valerio Magrelli tenta di ricrearsi, di ricreare sé stesso in maniera che l’eredità paterna, quella biologica, lo alimenti, ma senza distruggerlo e senza lesionare i suoi cari, i suoi affetti più intimi. Direi che questo è un grande libro in cui al grido di Gesù, “Padre, padre, perché mi hai abbandonato?”, che così tanti oggi ripetono persino stucchevolmente, si sovrappone un altro grido, ben diverso: “Padre, padre, quando ti deciderai ad abbandonarmi?”. Ricordiamoci che in esergo Magrelli mette le celebri parole di Stephen Dedalus nell’Ulisse: il padre è un male necessario. Quanto a quello che dici sul romanzo moderno, è molto interessante, ma per sciogliere la tua osservazione, scegliendo qualcuno dei moltissimi lineamenti che vi si concentrano, ci vorrebbe un discorso lunghissimo. Dico solo, per cavarmela, e dopo una breve ricognizione mentale, che tutti i romanzi del mio personale pantheon, anche i più debordanti e immoderati, scelgono, cioè tagliano, e non sciolgono, cioè non consolano.

LB: La mia prima domanda nasce da un'osservazione, cioè che sia nella poesia che nella prosa di Magrelli mi ha sempre colpito la solida preparazione teorica, non comune tra poeti e prosatori. Il "miracolo", se mi passi il termine forse assai fuori luogo, è che questa non si riversi pesantemente sui versi o sulla scrittura in prosa. Sei d'accordo con questo pensiero e, se sì, da attento studioso della sua opera, che idea ti sei fatto?
RISPOSTA: Per parte mia sono d’accordo. La scrittura “letteraria”di Magrelli è sempre molto coltivata, e nutrita della sapienza di studioso e di intellettuale che l’autore possiede, ma questo flusso teoretico, se vogliamo, è bilanciato da flussi di esperienza altrettanto importanti. E visto che l’equilibrio (o il tentativo sempre più difficile di raggiungerlo) è un concetto cardinale per Magrelli, è abbastanza logico che sulla sua pagina si sperimentino tecniche, non immutate nel corso degli anni, di armonizzazione delle due fonti. Voglio però aggiungere che l’idea dell’equilibrio o della compostezza non la applicherei come metro di giudizio uniforme per tutti, e che io ammiro molto anche scrittori in cui il retroterra teorico o disciplinare si riversa pesantemente, per usare la tua formula, nei versi o nella prosa. Penso per esempio a certi straordinari libri di Jacques Roubaud, matematico poeta romanziere, da cui l’editoria italiana si è tenuta ben lontana (“a chi lo vendo, signora mia?”), e molti altri nomi si potrebbero fare. Sono dell’idea che la poesia (e la prosa) vada valutata caso per caso e progetto per progetto, singulatim; e che un buon lettore sia in grado di amare, e insieme di capire, lo Zanzotto più siderale, il Sereni più drammaticamente scarno, il De Angelis più bruciante, il Magrelli più meditativo. I problemi arrivano quando si fa del proprio gusto, o pregiudizio, o anche teoria (tutte cose necessarie e inevitabili) un discrimine infrangibile, o quando si cade completamente preda della propria posizione nel campo letterario e/o sociale con le sue contrapposizioni polari.


LB: Torniamo all'esordio di Magrelli prosatore, all'einaudiano Nel condominio di carne del 2003, libro che all'epoca mi colpì per come seppe inserirsi attorno a un tema già "stanco" e sfibrato come quello del corpo, tema che iniziava a mostrare i primi cedimenti o banali esercizi di stile. Lo sappiamo, Magrelli nell'abbecedario dedicato alla poesia (audiolibro uscito per Sossella e poi per Giunti), parla persino di poesia e merda paragonandole (e non sotto una luce pulp). In fondo, solo per stare ai titoli di Magrelli, Ora serrata retinae la dice lunga sulle frequentazioni questo autore con il corpo. Ma andiamo alla "carne", citata nel titolo del tuo libro. Come vi entra? Che cosa si palpa?
RISPOSTA: Non c’è tema che non nasca stanco, o secondo me addirittura sfinito. È importantissimo studiare e catalogare i temi, ci mancherebbe altro; riconosco tutta la sua importanza alla tematologia. E però, compilata la lista e corredatala della sua ricchissima fenomenologia, occorre guardare più sottilmente alle maniere, anche in questo caso singolari, in cui ogni vero scrittore attinge ai suoi temi, con lo stesso gesto rivitalizzandoli e stravolgendoli. Inutile sottolineare a quanti trattamenti diversi, per riprendere il tuo esempio, sia stata sottoposta la materia fecale nella storia della cultura umana: la merda di Rabelais è molto diversa dalla merda di Marx, e quella di Henry Miller somiglia molto più alla prima che alla seconda. Magrelli, nel suo abbecedario, riprende un parallelo che trova in Valéry, e tratta poesia e merda come due “fatture” umane, insieme spiritualizzando la merda e merdificando la poesia, accomunandole sotto il segno dell’«urgenza»: tra le altre cose è un bel modo di smagare, senza distruggerlo (e questo è fondamentale) lo stereotipo del furor incontrollabile del creatore. Aggiungo, per dire come ogni ripresa sia una variazione, che se nelle parole di Valéry si sente molto il freddo piacere intellettuale che dà il paradosso, e quindi il primato, nonostante la merda messa in bella evidenza, spetta senz’altro all’intelletto regista e manipolatore, in Magrelli la spiritualizzazione della merda si accompagna sempre a una nota angosciosa, o addirittura sgomenta. Lo dimostra uno dei capitoli più toccanti e strazianti di Geologia di un padre, quello che descrive la morte del genitore: ritratto nei momenti in cui, letteralmente, caca fuori la sua vita, la sua anima o il suo spirito, anziché emettere il suo ultimo respiro. Ma veniamo al condominio e alla sua carne. In questo libro, che secondo me è di quelli destinati a rimanere, assistiamo a una specie di chiasmo: la carne (e non il corpo, ancora troppo organizzato, gerarchizzato, e per di più stracarico di una plurisecolare surcodificazione simbolica) è sempre intellettualizzata, spiritualizzata, intessuta di circuiti culturali e memoriali; e l’intelletto o spirito è sempre incarnato, cioè tuffato in una materia che erode le sue distinzioni e categorizzazioni. Penso che il motore del libro sia questo: impegnarsi nel compito impossibile di dare figura alle intricatissime coabitazioni, confederazioni o disfederazioni, se mi passi il termine, nelle quali le carni si compongono metastabilmente a fare corpo: e spirito. A complicare la situazione sta il fatto che questo quadro si rende intelligibile solo grazie a due elementi che pure lo frantumano, ossia la tecnica e il linguaggio. Le carni spirituali possono “ reggere” solo grazie alle protesi, che pure sono corpi estranei; e possono esprimersi solo grazie a ciò che le fa ammalare, il virus della parola e del linguaggio.


LB: Soffermiamoci ora sulle altre travi reggenti il tuo discorso contenuto ne Il mio corpo estraneo. Mi riferisco alle immagini (e penso anche a un saggio come Vedersi vedersi: modelli e circuiti visivi nell'opera di Paul Valéry) e al serrato meccanismo citazionistico che impregna la scrittura di Magrelli. Potresti riassumere i tratti salienti analizzati nel tuo studio pubblicato da Mimesis?
RISPOSTA: è presto detto. La scrittura di Magrelli, in versi e in prosa (spesso anche la prosa saggistica) ha un altissimo tasso di metaforicità. Il combustibile del laboratorio magrelliano è senza dubbio, e molto consapevolmente, l’immaginazione, che produce continuamente analogie, ossia rapporti di somiglianza. Lungi dall’essere esornative, o anche solo strutturate in qualche margine, le analogie si occupano proprio di strutturare, o tramare, la scrittura. Nel Condominio è l’immaginazione che spiritualizza le carni, inserendole in grandi circuiti di immagini risonanti, e creando così uno spazio co-abitato, per l’appunto, dal corpo e dal senso. Ma questi reticoli sono a loro volta incrociati e ulteriormente tramati da altri fili, memoriali e culturali, e specificamente letterari e artistici. Le distese dell’immaginazione analogica, che tendenzialmente rispettano soltanto un loro tempo di propagazione e risonanza, sono attraversate dalla storia, proprio nella forma di reminiscenza, ripresa, riarrangiamento del patrimonio dello spirito umano sedimentato nei secoli. Ecco le citazioni: per fare l’esegesi di un mal di schiena si paragonano le vertebre a pacchetti di sigarette passando attraverso la convocazione di un brano di Breton. Le dimensioni orizzontale e verticale vengono così, ogni volta in maniera provvisoria, allacciate. Ripeto: provvisoriamente; perché qui non si tratta di appiccicare citazioni pronte all’uso (sul modello dei repertori di citazioni divisi per rubriche tematiche: toh, di nuovo i temi) in base a un criterio già stabilito di appropriatezza, ma di trovare ogni volta, o costruire ogni volta, con le risorse di una cultura vastissima mobilitate idiosincraticamente, la strada giusta che porti da quell’episodio personalissimo a quel brano preciso. Non sarebbe, credo, troppo sbagliato parlare di magia. Ma ancora: a questo genere di citazioni se ne accompagna, sempre a partire dal Condominio, un altro, con Magrelli che cita Magrelli. E anche in questo caso la citazione coincide con la modificazione del senso. Ma lasciamo qualcosa di non detto per chi volesse leggere il libro.

LB: C'è un libro di prosa intermedio che nel tuo libro non trova molto spazio. Mi riferisco a Addio al calcio. Questa è l'occasione per riprendere quel libro e dire come si potrebbe inserire dentro questo tuo saggio che spazia principalmente nel triangolo avente come vertici Nel condominio di carne, Geologia di un padre, e gli Esercizi di tiptologia.
RISPOSTA: Le ragioni per cui Addio al calcio non ha trovato spazio nel mio libro sono contingenti: non avevo il tempo di scrivere un saggio sufficientemente approfondito su quel libro, che mi pare molto bello. Anche se ho pochi dubbi nel pensare che i vertici della “quadrilogia” in prosa magrelliana stiano alle due estremità: il Condominio e Geologia di un padre. Addio al calcio può rientrare nello studio che ho condotto nel libro? Direi di sì, per almeno un paio di ragioni che mi paiono più importanti di altre. Primo: l’importanza della figura paterna. Alcuni dei brevi capitoli di Addio al calcio sono stati trapiantati, o autotrasfusi, usando una metafora dell’autore, in Geologia di un padre. Secondo: Addio al calcio è a mio parere soprattutto un libro sull’archivio, e investe dunque un’altra modalità di conservazione della memoria rispetto a quella artistico-letteraria, così basilare nel Condominio; e sottolineo anche come, nell’ultimo movimento del quartetto, l’archivio risulti problematizzato secondo una linea che parte da Addio al calcio.

LB: Magrelli voleva intitolare il recente Geologia di un padre con il titolo dato poi al capitolo introduttivo L'uomo di Pofi. Fu scoraggiato da molte persone. Tu cosa gli avresti suggerito?
RISPOSTA: Sono entrambi buoni titoli, nel senso che, riflettendoci durante la lettura, entrambi dicono il groviglio su cui il libro è fondato: chi è “un” padre? Chi è l’uomo di Pofi? Però non avrei dato suggerimenti a Magrelli, da una parte, empiricamente, perché non avrei potuto farlo senza una lettura approfondita del testo, e dall’altra perché non credo che gli scrittori abbiano bisogno di consigli per trovare i loro titoli. Questo non perché li ritenga gli unici in assoluto autorizzati – diciamo così – a plasmare la loro opera (perché, e questo dev’essere chiaro, il titolo ha un’importanza cruciale per il senso dell’opera), né perché li pensi infallibili quando presi dal vortice della creazione. Niente autoritarismi e niente romanticherie, insomma. Quel che non accetto – scontato che il titolo possa essere al centro di una contrattazione tra autore e altre agenzie coinvolte nella produzione del libro – è che tale contrattazione sia basata, come sempre più spesso succede, esclusivamente su ragioni commerciali. Di appetibilità da aggiungere all’opera, insomma, secondo un’idea di appetibilità che è una vera offesa per i lettori, oltre che per gli scrittori. Questo alacre lavorio sui titoli, che di solito rimane un po’ nascosto, viene in piena luce, invece, nel caso delle opere tradotte. Per restare a Magrelli faccio due esempi. Nel condominio di carne è stato tradotto in francese col titolo, difficile, lontano nella forma da quello originale, e quasi sicuramente concertato insieme all’autore, di Co(rps)-propriété. È un cambiamento notevole che, tanto per dirne una, cancella il riferimento diretto alla carne, ma lo fa tentando comunque di rendere conto della complessità, della tramatura concettuale del titolo originale: è un buon titolo, insomma. Il controesempio: Magrelli ha tradotto il Journal de deuil, di Roland Barthes, e l’unica opzione per rendere in maniera anche moralmente giusta quel titolo era l’altrettanto secco Diario di lutto. L’editore ha optato per un molto più vago, meno inquietante e francamente inaccettabile Dove lei non è. Non credo servano commenti. Si sta andando, se non ci si è già arrivati, verso gli usi invalsi da tempo nel cinema, in Italia: tutti ricordiamo il film di Michel Gondry, The Eternal Sunshine of the Spotless Mind (titolo magniloquente e pieno di echi zen, o new age, che ognuno sarà libero di apprezzare o meno), truffaldinescamente tradotto Se mi lasci ti cancello. Speriamo non arrivi mai il giorno in cui Journal de deuil sarà tradotto ’A mamma è sempre ’a mamma.

LB: Magrelli autore della carne o Magrelli autore delle ossa?
RISPOSTA: Della carne e delle ossa. È l’unico modo per non scrivere polpette, o polpettoni.

venerdì 18 ottobre 2013

Andrea Zanzotto in "Luoghi e paesaggi": qui non resta che cingersi intorno il paesaggio qui volgere le spalle

A due anni di distanza dalla morte di Andrea Zanzotto, iniziano a riaffiorare alcuni scritti inediti o introvabili. L'augurio è che oltre agli scritti si riesca presto a leggere qualcosa della rizomatica corrispondenza che il poeta di Pieve di Soligo intrattenne e alimentò davvero incessantemente. Quello della corrispondenza, tratto comune a molti uomini e donne di letteratura, era in Zanzotto un aspetto particolarmente curato e sentito, e non solo con i grandi nomi della poesia e della cultura, bensì qualcosa di ancor più largo, una vera e propria cura del dialogo, per parafrasare un titolo di un saggio di Benedetta Craveri una versione sempre aggiornata e vivace di una "civiltà della conversazione". Escono in questi giorni gli scritti sul paesaggio selezionati e curati con rispetto e metodo da Matteo Giancotti. Il volume si intitola Luoghi e paesaggi (nei Tascabili Bompiani, pp. 240, euro 11) e raduna, riordinandoli, contributi di diverso respiro che vanno dagli anni Cinquanta ai Duemila. Vi trovate persino un paio di "reportage" viennesi del 1955, in occasione di un capodanno trascorso dal poeta nella capitale austriaca assieme all'amico Ettore Villanova. "Gli archivi, le bibliografie, le emeroteche e i microfilm con le annate di vecchi giornali hanno permesso di rintracciare i diciotto testi zanzottiani che compongono questo volume", si legge nell'introduzione intitolata Radici, eradicazioniSono quindi presenti alcuni testi inediti, mentre altri, come quelli dedicati a Venezia (tuttora spiccanti, a mio avviso, nel gran liquame di scritture dedicate alla città lagunare), si potevano leggere nelle pagine di Sull'Altopiano (Neri Pozza e poi Manni editore) oppure nel Meridiano Mondadori con le poesie e le prose scelte.

Siamo dunque, ancora una volta, posti innanzi al binomio Zanzotto-paesaggio. Personalmente, negli anni Novanta e Duemila, trovavo riduttivo l'invitare Zanzotto a intervenire principalmente quando si parlava di paesaggio. Quasi soffrivo per lui. Sia chiaro, Zanzotto si prestava a parlare di questo tema, ma allo stesso tempo mi sembrava lo fuggisse ad ogni passo, con quell'intelligenza felina, appena celata da un vibrare pronto dei bulbi oculari, che sa che non si può parlare di paesaggio senza vivere la drammatica contraddizione/antinomia del dire sul paesaggio nostro teatro. Qualche tempo fa, recensendo Sul vento che scorre di Kuki Shūzō, prendevo a prestito queste parole di Zanzotto: “[...] la tenuità di germoglio dello haiku presenta come suo clou [....] un non-luogo, un vago mancamento, un sussulto dolcemente ritualizzato, il non-rumore del senso che si affaccia dentro il nonsenso della natura quasi a volerlo preservare, perché la natura deve ‘abitare’ in esso per restare madre di tutti i sensi”. Il donativo del paesaggio, il paesaggio con il quale ci si può cingere ("Qui non resta che cingersi intorno il paesaggio / qui volgere le spalle" suona un suo distico entrato nella mia memoria e non imparato a memoria), presenta inalienabili "fantasie di avvicinamento" con il ragionamento che Zanzotto dedica allo haiku. Questo genere di discorsi sopra il paesaggio infatti rimane drammaticamente improbabile, quasi come il gesto del barone di Münchhausen che si salva dalle sabbie mobili tirandosi per i capelli (immagine ripresa anche nella sua poesia più antologizzata, Al mondo). Come possiamo parlare del nostro teatro senza dire banalità, sciocchezze o ripetere cose trite e ritrite? Zanzotto fuggiva questi rischi con agilità di gatto, a volte uscendo dall'alveo di un discorso tutto incentrato sul paesaggio, per poi farvi fedelmente ritorno. In realtà non usciva mai da quell'alveo perché da quell'alveo non è possibile uscire: qui nasciamo, muoviamo i primi passi, balbettii, in quel teatro di suoni e colori (in questo passaggio trovate il motivo dell'ampia citazione con cui intendo chiudere questo scritto). Sicuramente il titolo illuminante della prima raccolta poetica, Dietro il paesaggio (1951), contribuì in via definitiva a legare il suo nome alla riflessione e speculazione sul paesaggio. Il suo impegno e le sue battaglie (anche vinte) fecero il resto. In realtà è questo un libro particolarmente interessante anche per capire i ripensamenti di Zanzotto, le sue radicali delusioni e la sua personalissima strage di illusioni in tema paesaggistico (e anche attorno al concetto di "natura"). Oggi il tema è quantomai attuale, almeno sulle pagine dei giornali, meno nella vita di ogni giorno. Allo stesso tempo però non v'è occasione migliore di questa per dire e ribadire con forza che Zanzotto non fu soltanto il poeta del paesaggio. Sarebbe oltremodo riduttivo e non deve passare ai posteri solo questo messaggio. Ed è questa convinzione che un lettore può ricavare dal susseguirsi degli scritti e dall'accorta nota introduttiva di Matteo Giancotti e qui risiede quindi uno dei molti meriti del libro, che riesce a ribadire questo concetto rimanendo dentro il paesaggio e i luoghi.

Scrive il curatore: "Notoriamente, quasi proverbialmente Zanzotto è il poeta del paesaggio. Si ritiene che in tutta la sua produzione poetica il paesaggio sia il tema prevalente. È, a ben vedere, un’opinione difficile da smentire, anche se bisognerebbe proporre, per questo luogo comune non infondato, alcune considerazioni “correttive”". Lascio al lettore dell'introduzione il piacere della scoperta di queste considerazioni "correttive" apportate da Giancotti e ampiamente condivisibili. Qui si noti soltanto che come i grandi artisti, Zanzotto ha subito puntato il dito verso qualcosa. Lo ha fatto presto, già con il titolo della prima raccolta. Ha iniziato quindi a "paesaggire" molto, come vuole il suo celebre neologismo. Da lì il suo passaggio nel paesaggio non ha mai smesso di sgorgare poesia, anche quando in certi momenti è arrivato a cancellare sulla pagina la parola "paesaggio" stessa (accadeva in Sovrimpressioni: "No, tu non mi hai tradito, [paesaggio] / su te ho / riversato tutto ciò che tu / infinito assente, infinito accoglimento / non puoi avere: il nero del fato /nuvola / avversa o della colpa, del gorgo implosivo"). Infinito assente, infinito accoglimento: forse poteva titolare anche così questo volume. Questi versi riportati servono anche a saldare il parallelo succitato con le parole dedicate da Zanzotto alla forma dello haiku. Rimane nota la sua percezione testualizzata del paesaggio, sulla scia del Petrarca della Lettera del Ventoso (la premessa a quel volume uscito per Tararà è qui riproposta con il titolo Verso il montuoso nord). Eppure molto bisognerebbe dire sull'influsso delle arti figurative, dal padre pittore in Cal Santa a Pieve di Soligo, i Paesaggi primi (che ho sempre letto come un'immagine matematica, paesaggi divisibili solo per sé stessi o l'unità come i "numeri primi"), i salienti collinari che apparvero dietro i quadri di Cima da Conegliano (Un paese nella visione di Cima titola uno scritto del 1962 qui finalmente disponibile) o Giorgione (scelto per la copertina di un libro chiave della sua vicenda editoriale, l'Oscar Mondadori curato da Stefano Agosti). E volendo potremmo metterci persino la "lacanizzazione" del paesaggio.

Io sono di parte e devo fare attenzione quando scrivo su Zanzotto. Metto in guardia il mio gentile lettore. Ho amato questo poeta e la persona che viveva dall'altra parte del Piave. Mi auguro che questo libro di "interventi" sul paesaggio e sui luoghi possa rafforzare la convinzione, finalmente diffusa, che con Zanzotto siamo in compagnia del più grande poeta del secondo Novecento. Se con questi scritti conosciamo il bellissimo lato del Zanzotto in prosa, alla fine sempre al lato del poeta facciamo ritorno. Zanzotto ha scritto questi interventi da poeta. E quando si è fatta spazio la convinzione che forse con lui eravamo in compagnia di uno dei più grandi del secolo? Zanzotto, che era persona umile a differenza di altri poeti, sapeva che il cosiddetto "salto di qualità" nella ricezione della sua opera avvenne anche grazie all'interessamento di Gianfranco Contini (ci sarebbe da approfondire anche la conoscenza di Zanzotto fuori dai confini italiani, aspetto tutt'altro che secondario). Se non vado errato siamo all'altezza de La beltà (1968), e l'interesse continiano sfocia dieci anni più tardi nella memorabile premessa a Il Galateo in bosco, quella del "poeta ctonio", quella posta davanti al libro "completo" del 1978, incipit di quella trilogia che s'arricchirà di Fosfeni (1983) e Idioma (1986). Ecco, credo che se non si fosse mosso Contini in favore di Zanzotto, oggi questi scritti contribuirebbero a fare parte di quel lavoro di avvicinamento tra la sua scrittura e i lettori. Penso sia un merito non secondario che va attribuito a questo volume di Bompiani, sulla scia del grandissimo merito che ebbe Contini. Il paesaggio non ha mai abbandonato Zanzotto, nemmeno mai tradito, ed è prepotentemente rientrato nell'ultimo libro di poesia pubblicato nel 2009, Conglomerati. Qui leggiamo delle "Crode del Pedrè" e del canyon scavato dal torrente Lierza (lo stesso che passa per il noto Molinetto della Croda in località Refrontolo) in quel lembo di paesaggio tra la sua Pieve e Collalto di Susegana. Questo libro ottimamente curato da Giancotti diventa allora un greto splendido e luminoso, a tratti buio come un orrido, che percorre le anse del suo pensiero, della sua fantasia e immaginazione, che passa sotto i massi-costellazioni per affacciarsi sicuro sull'immenso donativo della sua poesia. La portata d'acqua - fuori di metafora: l'esperienza di lettura della sua produzione - non potrà che essere aumentata dopo aver digerito anche questi saggi (che pur sanno vivere in bellissima solitudine). 

In chiusura vorrei soltanto segnalare l'interesse che riveste Outcasts (Prosa poetica su Cecchinel), brevissimo testo dedicato e dato in mano al poeta del "Lago (senza'altro nome)", l'"elfo martirizzato" della riviera dove sopra i ghiacci dei laghi (sono due i laghi di Revine) fioriscono rose anche a Natale. Partendo da una poesia di Al tràgol jért di Cecchinel, il libro dove il poeta dal "guardare, fissare miope che protende in avanti il volto con gli occhi verdini strizzati" impasta il dialetto delle Prealpi trevigiane con Trakl, Apollinaire e Esenin, Zanzotto sembra abbandonarsi a dei ricordi "primi". Questa l'abbondante citazione che avevo anticipato qualche riga sopra:

"Vorrei rivivere il suono della parola, toponimo, Tóvena come l’ha sentito lui nello stupendo componimento del Tosat de crosèra – incantevole poesia, cui vorrei rispondere con un’altra poesia nel nostro dialetto, sull’instabile asse che unisce il Punto Mio e il Punto Suo del dialetto comune, in lui più antico e insieme (o per questo?) più giovane.
Certo mi ha aperto l’invito di una Tóvena che mi nutrì per tanti anni: e per di più mettendole vicino una Nàdega a me del tutto ignota ma quasi presentita. – Doveva esserci, come quella ragazza dagli occhi di «viole smaride», che era insieme un «pra biondo».
Ho avuto qui svelato uno dei più bei misteri della mia prima giovinezza e adolescenza, di tutti i viaggi in bici fatti a San Boldo. Quella io cercavo, quella ragazza, smarrita poi dal suo tosat de crosèra, e forse ritrovata in quel mondo di continue eruzioni della visualità, dell’inventività, del sogno per sogno per sogno.
Ed ora la ritrovo qui, fissata e rivelata in due versi e c’è, ed è inesauribile, indecostruibile. 

E vorrei che fossimo in tre (Palazzeschi eravamo in tre) a girare per i valloni a cercarla, oltre Tóvena, per sempre. Anche a costo di finirla come outcasts perfetti?".

Ripreso questo passo di Zanzotto su Cecchinel, io ho bisogno di un video dove ascoltarlo. Lo pesco indietro negli anni. Rai Due si legge in basso a destra...


martedì 15 ottobre 2013

Ripubblicato "Rivolta e rassegnazione" di Jean Améry, il saggio sull'invecchiare e sul "vivere con il morire"

Era già uscito per lo stesso editore nel 1988 e ora viene giustamente riproposto, sulla scia di un catalogo che presenta anche il celebre Intellettuale a Auschwitz e Levar la mano su di sé. Discorso sulla libera morte. Mi riferisco a Rivolta e rassegnazione. Sull'invecchiare (libro che in originale presenta un titolo "invertito" Über das Altern: Revolte und Resignation, Bollati Boringhieri, pp. 150, euro 16, traduzione di Enrico Ganni e prefazione di Claudio Magris). Améry affascina, è un saggista di carattere. Il tema è difficile, scivoloso. Si rischia la banalità o il trito e ritrito ad ogni passo. Invece lui riesce a parlare del morire e persino inchiodare il lettore partendo da un'analisi semantica di Rudolf Carnap condotta attorno a una frase di Heidegger. Inutile soffermarci troppo sulla devastante "attualità" del tema dell'invecchiamento, della "senilità" o vecchiezza, tema che tra l'altro negli ultimi anni ha subito ulteriori forti scosse. Parlare di "attualità" del tema sarebbe  del tutto ingenuo, visto che l'invecchiare è un tema che non ha mai conosciuto forti ribassi. Non so dove ho letto che ogni epoca si potrebbe studiare nel suo rapporto tra i vecchi e i giovani, per andare con le categorie di un romanzo di Pirandello (ecco un autore che sotto la luce di questi temi andrebbe riaperto). Per stare all'attualità libraria, si pensi anche a un libro come Sullo stile tardo di Edward Said. Per ritornare alla morte invece, ci si soffermi sulle recenti uscite dedicate da Einaudi a Jankélévitch. Invecchiare per Améry significa riconoscere e sperimentare il futuro come negazione dello spazio, andare ad ogni passo verso la morte significa avvicinarsi ad ogni passo alla negazione del nostro spazio. Il vecchio diventa "solo tempo", sempre più "corpo". Ma che cosa significa invecchiare oggi? E che cosa significherà invecchiare tra soli vent'anni? Probabilmente rimarrà il dado attraverso il quale studieremo tutto ciò, le sei facce mediante le quali avvicineremo il tema (spazio, tempo, corpo, salute e il binomio dato da gioventù-vecchiaia). Ma sarà già mutato, una volta ancora, il corso del fiume che lo definisce.

Leggendo questo saggio non può che installarsi in noi un'eco profonda che attraversa la lunghissima e mai doma riflessione su questi temi (si torni a Cicerone, Seneca ma anche al Proust da cui prende il la Améry). Anche per questo dicevo che si tratta di argomenti sui quali c'è stata attenzione pressoché costante, anche di riflesso, ad esempio quando all'epoca dei totalitarismi sembrava imperare il tema opposto, il corpo giovane cantato dalla macchina da presa di una Leni Riefenstahl. Si pensa naturalmente a quel gran libro che fu Senilità di Svevo (che oltraggiosamente metterei un po' sopra a quell'altro libro insuperato che resta La coscienza di Zeno, romanzo dei romanzi del 900 e che pure rimane nel solco dell'invecchiare). Si pensa ai grandi latini e chi più ne ha più ne metta. Ma perché questo saggio compatto di Améry probabilmente continuerà a spiccare tra tante riflessioni occidentali sul tema? Perché il tema in realtà è mobile, sfuggente, si sposta nello spazio dei secoli e anche dei soli decenni. Pensate a come è cambiata la percezione della vecchiezza in quarant'anni. Questi dati di fatto Améry sembra contemplarli, built-in, nella sua prosa.

Il ragionare sull'invecchiamento non può trasformarsi oggi, in epoca di wellness, nel gesto di una società che scopa le briciole sotto il tappeto. Leggendo l'ultimo capitolo del saggio intitolato "Vivere con il morire" appare vivida la prepotenza genuina con cui il tema della finitudine si impone all'uomo. Scrive Améry: "L'invecchiamento, con il quale emergono e divengono per noi evidenti il non e l'"in" della nostra esistenza, è una regione di vita desolata, priva di ogni ragionevole consolazione; non ci si dovrebbero fare illusioni. Nell'invecchiamento diveniamo il senso interno, orfano del mondo, del tempo puro. Invecchiando diveniamo estranei al nostro corpo e al contempo più intimamente legati alla sua massa inerte di quanto non lo siamo mai stati. Quando abbiamo superato il culmine della vita, la società ci vieta di progettare noi stessi, e la cultura si trasforma in cultura-fardello che non comprendiamo più e che anzi ci fa capire che, essendo noi dei ferri vecchi dello spirito, il nostro posto è fra i rifiuti dell'epoca". Il corsivo è mio. Non è che forse stiamo progressivamente abbassando l'asticella dell'età in cui ci è fatto divieto di progettare noi stessi proprio nel momento in cui alziamo quella dell'aspettativa di vita media? Non è questo momento del divieto di progettare davvero noi stessi sempre più anticipato?

"I veci che 'speta la morte" è una nota poesia del triestino Virgilio Giotti, ricordata anche da Magris nella sua breve premessa. Améry non l'ha aspettata fino in fondo, visto che nel 1978 si è suicidato. Era nato nel 1912 in Austria (il suo vero nome infatti era Hans Chaim Mayer) e nel 1938 l'aveva lasciata per i motivi che tutti possiamo immaginare, per riparare in Belgio e finire a Auschwitz e sotto le torture della Gestapo. In questo libro del 1968 il suicidio resta ancora distante. Ma lavora, per farsi spazio in Levar la mano su di sé, lo scritto del 1976 che ho già menzionato. Io non ho certo letto tutto Tolstoj, mi mancano ancora molti tomi ponderosi. Chissà se invecchierò abbastanza per poterlo leggere tutto. Però la lettura di questo Améry mi sta spingendo a riprendere in mano un libro vicino eppure opposto come il suo Ivan Il'ič. (Nel frattempo vi consiglio un libro fresco di stampa pubblicato da Amos edizioni. Si intitola Morte di un pensionato ed è la prima opera di Vladimir Kantor tradotta in italiano. Credo non guasterebbe leggerla vicino a questo saggio di Améry. A me è capitato per caso di leggerli di seguito, ma ho notato che si è trattato di un "bel caso".)

domenica 13 ottobre 2013

Gregor Podlogar e una poesia da "Loro tornano la sera", sette poeti sloveni tradotti da Michele Obit

Una poesia da #25


Recentemente ho partecipato ad un laboratorio di traduzione poetica dall'italiano e dallo sloveno a Pordenonelegge. Eravamo tre italiani e tre sloveni guidati da Michele Obit e Marco Fazzini. Non conosco lo sloveno e due dei tre sloveni non conoscevano l'italiano. Si usava l'inglese (o l'italiano) come lingua di scambio e si lavorava sulla traduzione "grezza" in italiano e in sloveno fornita da Michele Obit. Una procedura strana ma forse non così infrequente. L'esperienza del laboratorio è stata faticosa e curiosa ad un tempo. Due ore a porte chiuse a lavorare a coppie, su due testi brevi ciascuno. Poi l'apertura delle porte e l'incontro con il pubblico (pensavo meno persone presenziassero all'incontro dopo un laboratorio del genere, ma a Pordenone succedono fortunatamente cose strane per la poesia, che però non sono improvvisate, bensì frutto di anni di costante "semina" e cura). A me è capitato di lavorare assieme a Gregor Podlogar. Nel libro che Michele Obit mi ha regalato alla fine della giornata ho ritrovato altre poesie di Gregor che mi sono piaciute e mi hanno ricordato alcuni aspetti dei testi sui quali avevamo lavorato a Pordenone (l'andamento franto della scrittura, le molte domande, la presenza stellare di Lubiana, l'insistenza su un interlocutore che appare lontano, un interrogativo apparentemente bizzarro eppure decisivo nel fazzoletto di spazio della poesia). Se riuscite a trovare il libro e vi interessa cosa si scrive di là del confine orientale scoprirete in questo volume anche altri sei poeti sloveni. Il libro si intitola Loro tornano la sera. Sette autori della giovane poesia slovena (cura e traduzione di Michele Obit, Prefazione di Miran Košuta, ZTT – Editoriale Stampa Triestina, 2011). Assieme a Podlogar potete trovare qui Jure Jakob, Karlo Hmeljak, Lucija Stupica, Miklavž Komelj, Primož Čučnik e Stanka Hrastelj. Di Podlogar ho scelto la poesia E-pošta. Un suo profilo e un insieme più cospicuo di testi si può leggere qui mentre qui trovate una selezione dagli altri poeti sloveni scelti per il florilegio curato da Michele Obit.




Posta elettronica


Forse ti avevo già scritto.
Mi è sempre più difficile separare
in                     tanto
cosa sogno cosa scrivo
cosa pensavo di fare
cosa ho fatto a che livello
qualcosa accade ed ora il disco
con la foto di David Oistrach in copertina
            sta saltando.
C'è qualcosa di urgente? Cosa c'è di nuovo?
Non credo ci sia davvero qualcosa.
Ho buttato via (strada facendo) i giornali
            lo scomparto della storia è chiuso.
                        Lubiana
                        splende il sole.
                        Ti ricordi
fresco sulla bicicletta nella neve sta l'uomo
                        da giovane.
Qui Malevič è il migliore.
Anche Joe Wenderoth
            che sto leggendo adesso
brontola soddisfatto
                                    ed è in Wendy's.
Musica. Musica. Silenzio. Musica.
Qui è lo spazio                         interpreto
qui il rumore                                     rumore
il pianoforte preparato
                        il sonaglietto sullo sfondo
La voce di Raudive sulle voci dei morti
penetra di soppiatto attraverso gli altoparlanti in
                                                            questo mondo.
Di nuovo sono in ritardo meglio che smetta.
Dovunque sarò ancora fino a lunedì
poi avrò molto da fare
                        non dimenticare
invia il numero GSM di Mustar
                        ma non del fumettista
rumeno che non è rumeno
ehi salutami Cǎrtǎrescu.
            Tutti mi prendono in giro.
A volte l'amore spegne.
Fine dell'amore
                        fine del film.
E non che ci sia qualcosa di sbagliato.
Non metto i punti interrogativi
            perché non li trovo.
Però si capisce, non è vero.
Non ci sono altri piccioni in città.
E devo vedere questo film
Il cellulare segna le 12:47
probabilmente invece sono
                                                le 12:20.
E Lubiana splende nel sole.
E la gente qui dipende dalla gente
            dal tempo
                        e dalla luce
            che oggi mangio a colazione.

(traduzione di Michele Obit)


E-pošta

Mogoče sem ti že pisal.
Čedalje težje ločujem
med           tem
kaj sanjam kaj pišem
kaj sem mislil storiti
kaj sem storil na kateri ravni
se kaj dogaja in zdaj plošča
s fotko Davida Oistracha na naslovnici
            preskakuje.
Je kaj nujnega? Kaj je novega?
Ne mislim da je res kaj.
Časopise sem (spotoma) zavrgel
        predal zgodovine je zaprt.
             Ljubljana
             sije sonce.
             Se spomniš
frišen na biciklu v snegu je človek
                  ko je mlad.
Tukaj je Malevič najboljši.
Tudi Joe Wenderoth
        ki ga zdaj berem
zadovoljno brunda
                              in je v Wendy's.
Glasba. Glasba. Tišina. Glasba.
Tukaj je prostor     razlagam
tukaj hrup              hrup
prepariran klavir
                            ropotuljica v ozadju
Raudivejev glas o glasovih mrtvih
se tihotapi skozi zvočnike na
                                                  ta svet.
Spet sem pozen  bolje bo      da neham.
Kjer koli sem še do ponedeljka
potem imam veliko dela
                     ne pozabi
pošlji Mustarjevo številko GSM-a
Romuna ki ni Romun
ej   pa pozdravi Cǎrtǎrescuja.
         Cel svet me zabava.
Včasih ljubezen ugasne.
Konec ljubezni
                         konec filma.
In s tem ni nič narobe.
Ne postavljam vprašajev
      ker jih ne najdem.
Ampak se razume kajne.
Ni drugih golobov v mestu.
In ta film moram videt
moja ura na mobiju kaže že  12:47
verjetno pa je
                                             12:20.
In Ljubljana sije v soncu.
In ljudje so tukaj odvisni od ljudi
    vremena
                   in svetlobe
       ki jo danes jem za zajtrk.