sabato 23 novembre 2013

La poesia di Alessandra Frison: "Le ore della dispersione" e "la dispersione del dolore tra le foglie"

Se noi pensiamo alla "dispersione", ci viene in mente forse per prima cosa una dispersione di calore, come quella che combattiamo mettendoci un berretto d'inverno o comprendoci le estremità del corpo, da dove la dispersione è maggiore. Oppure, almeno a me, viene in mente quando si dice o scrive di una folla "dispersa", magari coi lacrimogeni, una situazione che fa quasi il verso alla folla "sommersa" di Fabio Pusterla (i primi tre versi di questo libro di cui vi parlerò dicono: "Tutta una foresta d'uomini / consunta, braccia all'aria / confessa la terra."). Questi tre versi lasciano intravedere già abbastanza de Le ore della dispersione, primo libro di poesia di Alessandra Frison (Verona, 1985) pubblicato da Lietocolle (pp. 54, euro 13). Vi troviamo un avvio quasi dantesco, la posticipazione-ritardo dell'aggettivo al secondo verso, l'uso transitivo (e non cattolicamente riflessivo) di un verbo come "confessare". Ad un'analisi statistica poi (e la dispersione è pure un indice statistico), il "libriccino da collezione" (così è solito riferirsi ai propri libri l'editore) presenta alcune significative ricorrenze della parola che occupa tanta parte del titolo, nelle sue più varie forme (i corsivi seguenti sono miei): da "Gli occhi mi invecchiano il cielo / così pare il tempo / una solita pioggia / anzi la tempesta spessa dell’indugio / disteso ogni vertice di strada / pezzo per pezzo chi si scorda / quel cambio che ha visto dispersi i conforti?" a "Non vi saprei dire nulla di me. / Anni che passano senza ricordi / piccoli gesti tra le mani / vuoti che stentano a dire come di noi / saranno dispersi anche i minimi segni.", dall'attacco della poesia intitolata Passaggio "Il tempio rimane distrutto. / Nell'ora della dispersione i canali sommessi / descrivono occhi o traiettorie da muro a muro." ad un altrettanto benedettiano attacco nella poesia conclusiva intitolata Dispersione e che ha senso riportare per intero, nella sua verticalità:

Il cielo che resta è poco.
Gli idioti continuano a guardare
i segni della processione.
Le mani si fanno fitte, qualche lacrima
resta sospesa poi cade
lascia poco di sé.
I giorni che ci dicevano in molti
come campane a festa
come sera in un porto di luce
sono così ciechi per noi.
Non è la fine che spaventa
ma il segno anonimo su uno schermo
su una pagina bianca
sulle cose che saranno poi.


Il tempo - lo vediamo già chiaramente nel titolo - è parcellizzato, frammentato. L'unità di misura scelta è una cunninghamiana ora, anche se plurimi e ramificati sono i riferimenti temporali di questo libro d'esordio che per me s'attesta tra quelli da ricordare, da mettere da parte, se vogliamo accettare di ragionare con la logica delle annate, degli annuari o delle stagioni della poesia. Più di tutto, ora, anche in questo spazio, mi interessa ragionare con la logica di una buona divulgazione/informazione di cose che accadono attorno alla poesia, provare a dire perché un libro presenta guizzi del respiro, come quelli di un pesce che salta fuori dall'acqua. Ad esempio avviene qualcosa di simile a questi guizzi quando Alessandra Frison innesca un'interessante spola tra passato e "prolessi", un accadimento assai raro nella poesia - quantunque studiato in lungo e in largo nella narrativa - eppure molto efficace, e pure nuovo, come mi pare accada nella poesia seguente:


Una volta usavano le candele
per far dire alla gente,
si parlava di tortura altro è qui,
ci sigilla la festa
dovrai salutare chi non ti può
e non ti domanda
quando l’autunno sfianca l’aria della sera,
quando manchi per anni
e ti sembrano cose da poco le mani sulla finestra,
i disegni sul freddo del vetro,
anche la neve, figure
di un andamento continuo.
Domani sul tram ci saranno tutti
e per passare oltre
non avrò motivo di chiedere scusa.


Ho preferito riportare fin qui almeno un paio di testi perché danno la misura di un libro d'esordio di cui è facile dire, semplicemente: ci siamo, secondo me. Ci siamo perché c'è la materia da cui partire, ci siamo perché queste poesie della dispersione non si disperdono e ci siamo noi, infine, noi-anonimi-noi: la quotidianità, domestica e cittadina, il non-sapere della parola, la steady-cam del verso nei molti luoghi di questi passi, passeggiate, corse (spesso anche apertamente nominati, come Castel San Pietro, Bologna, Verona, Milano, Milano Centrale, Naviglio Grande). Rispetto ad altri bei libri d'esordio degli ultimi anni, Le ore della dispersione è forse meno compatto, meno monolitico nella scelta dei temi. Ma appare tutt'altro che dispersivo. Ne guadagna in freschezza e ho come l'impressione che ne guadagnerà l'autrice una migliore elasticità di scrittura futura. E non riesco affatto a inquadrare questa apparente minor compattezza come un aspetto negativo dell'opera, anzi, tutt'al più come spia positiva che lascia luce sulla scena, sulle molteplici scene che fanno e rarefanno questo libro. Risalgono i diversi piani-sequenza di realtà che stanno a cuore a quest'autrice, che rivitalizza così nella scrittura una consolidatissima tradizione, nientemeno che quella del flâneur, passeggiando e girando per le strade e magari entrando improvvisamente dal medico o nei mezzi di trasporto pubblici.


Lascio da parte i commenti da marciapiede
alle luci stente sbranate di marzo
non spetta giudizio e una fiera d’anime,
il controcanto del viaggio, mi ingombra l’aria
come singhiozzi di morte alla catena.
Quasi sempre la parte in vista di noi
è un lascito magro alla curva di un bancone,
raccolti su un tavolo, quando i minuti
muti senza sonno sospesi
non si possono dire e puoi passare la sera
a farti notare per quello che porti
o difendere un vizio senza discorsi,
così, non spartire niente di te.
Vedi quanto manca a saperci conclusi.


Il dentro/fuori dell'occhio, il fuori/dentro dei sensi, uniti ai riflessi d'acqua piovana che si flettono nelle superfici e negli orli della sua scrittura la fanno affacciare, come da "incerta finestra", sui muri spessi dove rimbalza la nostra percezione accumulata del quotidiano, lì nelle pozzanghere dove annega la nostra alienazione d'insetti brulicanti, o lì dove avviene la nostra dispersione del dolore tra le foglie. La dispersione, qui senza altre qualifiche, ci pare allora un'ulteriore incerta parola-finestra, persino un'illuminazione dalla quale partire a considerare il nostro tempo, le nostre ore, le stagioni tutte, anche quando/anche se sono buie, non lontane, persino fonicamente, dalla disperazione.

La pioggia svuota ogni sospetto di vita
dalle lenzuola tirate fino al limite
non ti fa vedere
il carico delle ore la mattina
presto tutti sono svegli
già alla loro corda
e ti dovresti impegnare fino a quel punto
fino ad asciugare il sonno
molle e refrattario termine di
chi esiste l’indispensabile
in tempo appena per sfollarsi di casa
così mi dico,
dopo una giornata che squadra
i centesimi di ogni dignità,
dopo l’onda scarica
meccanica disillusa dei semafori alla stazione
tra il medioevo delle strade, sono
la più incerta finestra del mondo.

2 commenti:

  1. Sì Luisa, è un bel libro, interamente considerato (non facile da procurarsi, unica pecca!). Un saluto, Alberto

    RispondiElimina