domenica 29 dicembre 2013

da "Latitudine dei sogni" di Carmen Yáñez

Una poesia da #27

Già da qualche mese Guanda ha pubblicato la traduzione di Latitud de sueños (Latitudine dei sogni, pp. 120, euro 12) dell'autrice cilena Carmen Yáñez. Il lavoro di resa in italiano è di Roberta Bovaia. Questo non è il suo primo libro tradotto nella nostra lingua: potevamo infatti già leggere Terra di mele, Abitata dalla memoria e Paesaggio di luna freddaYáñez, come è noto a chi conosce un po' la sua biografia, non vive più in Cile da molti anni. Nel 1975 fu catturata dalla polizia cilena e scappò l'inferno di Villa Grimaldi. Seguirono sei anni di clandestinità. Nel 1981, con la protezione dell'ONU, riparò in Svezia e qui restò fino al 1997, quando si trasferì nelle Asturie, dove tuttora vive con il compagno, lo scrittore Luis Sepúlveda. Del libro curato da Roberta Bovaia scelgo la prima poesia, quella che dà il titolo (davvero bello) all'intera raccolta.

Latitudine dei sogni

Una se ne sta tranquilla
in un alberghetto di Saint-Maló
la costa smeraldo di antichi corsari
davanti al mare, insomma, esposta.
E di colpo batte il Pacifico splendido
la brezza alimentata di eucalipti
sulla riva di un ricordo indelebile
dove albergò la piccola felicità
che regge le vertebre della vita.
Dove si conserva il mare che ci apparterrà per sempre?
In quale organo si occulta dopo tanti viaggi?
In quale viscera ulula la bestia dei ricordi?
L’infanzia che sgorga tra le onde
dalla finestra di un esilio che incessantemente ci avvolge
con le sue piccole mani ora.
Sassolini che raccoglievo con tutto quello che trovavo
nelle piccole tasche rotte.
Una se ne sta tranquilla
a camminare sulla sabbia,
ma le scarpe rallentano col loro peso.
Tanta vita camminata!
Anche se i piedi vogliono staccarsi da terra
confondersi con il blu.
E in fondo uno sa
che tutto è illusione
il qui e il là nel corpo.
L’unica verità è il dolore,
il taglio fastidioso
che ha fatto il filo di un ciottolo nella scarpa sinistra,
il tallone ferito che impedisce talora di avanzare
che va e viene
come l’onda che morde
malgrado la sua bellezza implacabile.


Latitud de sueños 

Una está tranquila
en un hotelito de Saint-Maló
frente al mar, es decir, expuesta.
El agua azul
y de pronto golpea el Pacífico espléndido
la brisa alimentada de eucaliptos
a la orilla de un recuerdo indeleble
donde moró la pequeña felicidad
que sostiene vértebras de vida.
¿Dónde tiene uno el mar que le pertenece para siempre?
¿En que órgano se oculta después de tantos viajes?
¿En qué víscera aúlla el animal de los recuerdos?
La infancia que brota entre las olas
desde la ventana de un exilio que nunca para de envolvernos
con sus pequeñas manos ahora.
Piedritas que juntaba y todo lo que fue posible
en los bolsillos rotos.
Una está tranquila
caminando sobre la arena tan tangible,
pero los zapatos se retrasan por el peso de la arena,
¡Tanta vida caminada!
Aunque los pies quieran despegar del suelo
confundirse con el azul.
Y en el fondo uno sabe
que todo es engaño
el aquí y allá en el cuerpo.
La única verdad es el dolor,
la incisión molesta
que ha hecho el filo de un guijarro en el zapato izquierdo
el talón herido que impide a veces avanzar
que va y viene
como la ola que muerde
a pesar de su belleza implacable.

mercoledì 25 dicembre 2013

Daniel Chamovitz ci racconta "quel che una pianta sa" in una guida ai "sensi" del mondo vegetale

Quanti di voi hanno una madre che parla alle piante? Non si tratta di follia, è una pratica diffusa, che ho riscontrato a più riprese: per far crescere sane le proprie piante sembra sia bene parlar loro a lungo. E di quante espressioni "vegetali" si è arricchito il nostro lessico? Pensiamo solo alla metafora-limite usata in ambito pseudomedicale: "ridotto a un vegetale". Che cosa sanno le piante? Che cosa percepiscono? Fino a che punto è corretto spingere l'immagine dei nostri sensi applicati al mondo vegetale, ovvero il parallelismo che guida e informa tutto questo bel libro del biologo israeliano Daniel Chamovitz? L'autore, direttore del Manna Center for Plant Biosciences all’Università di Tel Aviv, è riuscito a stendere un saggio ampiamente divulgativo su un tema potenzialmente insidioso e non certo facile, come potrebbe sembrare ad una prima vista. Il libro di cui oggi disponiamo in italiano (Raffaello Cortina Editore, pp. 174, euro 18, traduzione di Pier Luigi Gaspa) è scritto nella migliore prosa divulgativa di stampo anglosassone (quando scrivo "anglosassone" intendo anche: una tradizione e una cultura scientifica di base che, coadiuvate da impianti legislativi normali e da una giustizia messa in condizione di operare in condizioni normali, non danno solitamente vita a casi-baggianate, mostruosamente esiziali, come il recente caso tutto italiano "Stamina").

Il libro di Chamovitz, inserito nella bella e duratura collana "Scienza e idee" diretta da Giulio Giorello, non mancherà di interessare colleghi biologi, lettori curiosi e probabilmente persino i tanti neuroscienziati sparsi nel mondo. Con una prosa sempre accogliente, il nostro autore si chiede via via che cosa una pianta vede, annusa, prova, ode, come fa a capire dove si trova e persino quel che una pianta ricorda. Penso all'interesse che questo libro e la biologia vegetale può suscitare oggi, dopo la "sbornia" neuroscientifica e la grande promessa che certe imprese neuroscientifiche non sono state forse in grado di mantenere. Le piante infatti sembrano infatti il percorso più lontano dell'evoluzione da quella cosa che riconosciamo e chiamiamo "cervello". Chamovitz si guarda bene dal ripercorrere la strada di libri fortunati ma carenti dal punto di vista scientifico come La vita segreta delle piante di Tompkins e Bird, responsabile di una pesante ricaduta che per anni ha reso tutti diffidenti verso parallelismi e avvicinamenti tra piante e umani. Da quel che mi pare di registrare, allargando la visuale, mi sembra che da più parti (anche dalla sponda filosofica, come ad esempio nel recente Filosofia dell'animalità di Felice Cimatti) arrivi l'appello ad una maggiore distinzione tra i regni del vivente, a un nuovo compito di tracciatura di contorni e confini, per nuove definizioni, all'insegna di un rinnovato punto di partenza che asitonticamente vira verso un socratico saper di non sapere.

Chamovitz è naturalmente consapevole della diffidenza che il testo di Tompkins e Bird ha causato e si muove quindi con circospezione, partendo spesso da un'analisi semantica del "senso vegetale" che di volta in volta intende analizzare. La sua è una ricognizione aggiornata sulla letteratura scientifica prodotta negli ultimi due decenni, in un buon equilibrio tra excursus storico e stato dell'arte. Ne scopriremo davvero delle belle, come le analisi sulle povere piante martoriate a furia di Hendrix, Led Zeppelin, Mozart o Meat Loaf e troveremo indicazioni di video singolari come quello a cui vi rimando. Per restare all'apertura di questo intervento - alle nostre madri o nonne che parlano alle piante per farle crescere meglio - ciò che si ricava dal libro è che forse proprio l'udito è il senso più lontano dal mondo vegetale, anche se con le recenti mappature e sequenziamenti si sono scoperti dei geni "sordi" che uomini e piante condividono. Ma in fondo la scienza è una questione di definizioni, un discorso e una prassi che da secoli prende forma da un metodo scientifico e si esprime in un linguaggio che per statuto non può conoscere polisemia. Ora provo a indovinare che se un giorno cambierà la nostra definizione di "udito", forse potremmo scoprire una maggiore vicinanza con il mondo vegetale pure in questo "senso"; fuor di metafora arrivare a capire meglio quei geni "sordi" che condividiamo con le piante e di cui scrive anche Chamovitz.

Quel che una pianta sa è un libro del quale potete fidarvi, perché scritto con quella prudenza speculativa di cui la scienza, quando segue davvero il "metodo scientifico", non può fare a meno. Persino nel suo Epilogo Chamovitz raduna le forze per invocare prudenza attorno a una parola difficile come "intelligenza": se partiamo dall'assunto che una pianta è priva di cervello, qualsiasi descrizione antropomorfica e parallelismi come quello coi sensi umani, alla base di un simile libro, rischiano di essere minati alla base. Chamovitz è attentissimo nell'uso delle parole, in questo informato e appassionante saggio di biologia vegetale. Lascio a lui il finale:

"Ciò che dobbiamo capire a un livello più generale è che noi condividiamo la biologia non soltanto con le scimmiette e con i cani, ma che con le begonie e le sequoie. Quando ammiriamo il nostro roseto in piena fioritura, dovremmo considerarlo alla stregua di un cugino molto lontano, sapendo che, proprio come lui, possiamo distinguere ambienti complessi, e che condividiamo geni comuni. Quando guardiamo un'edera abbarbicarsi a una parete, stiamo guardando quello che, se non vi fosse stato un remoto incidente probabilistico, sarebbe potuto essere il nostro futuro. Stiamo osservando un altro possibile risultato della nostra stessa evoluzione, un risultato che ha imboccato una strada diversa circa due miliardi di anni fa.
La condivisione di un passato genetico non nega eoni di evoluzione separata. Anche se le piante e gli esseri umani mantengono capacità parallele di percepire ed essere consapevoli del mondo fisico, sentieri indipendenti dell'evoluzione hanno condotto a una caratteristica tipicamente umana, intelligenza a parte, che le piante non posseggono: la capacità di interessarsi alle cose e di prendersi cura di loro".

Ciao Darwin, ben ritrovato.

venerdì 20 dicembre 2013

L'arte dell'uomo primordiale secondo Emilio Villa

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #19 

Emilio Villa (1914-2003)
Sono trascorsi dieci anni dalla scomparsa di Emilio Villa, poeta, artista e studioso biblico. E nel 2013 da più parti si è ricordato anche il cinquantesimo anniversario della fondazione del Gruppo '63 di cui Villa è considerato un "prodromo". Verrebbe da chiedersi, con il titolo di un breve scritto che gli dedicò Zanzotto: "Come sta Villa?". Già: come sta? Editorialmente parlando non molto bene, se pensiamo che anche questo suo lamellare contributo, L'arte dell'uomo primordiale, edito da Abscondita (pp. 128, euro 13, a cura di Aldo Tagliaferri) sembra completamente fuori commercio e difficilmente reperibile. Per non parlare della sua opera di poeta. Insomma, librescamente parlando Villa non sta molto bene e nemmeno il decennale della morte sembra aver combinato granché nella direzione di una riproposizione della sua opera, che come ricordato fu proteiforme. Va dato merito alla rivista "Atelier" di avergli dedicato nel 2007 un numero con un corposo nucleo di scritti a lui dedicati (trovate qui l'indice). 


Non sono certo il primo a subire l'attrazione terribile della così chiamata arte primitiva. Questa si collega a molte cose che accadono oggi, come al grande sviluppo della paleontologia e della paleoantropologia (per Natale mi sono regalato il recente libro di Giorgio Manzi Il grande racconto dell'evoluzione umana, non breve) ma anche ad una sorta di idea semplificata del dipinto in grotta che ho sempre coltivato, sin da quando un mio professore di disegno e storia dell'arte era partito a rilento col programma, proprio da Lascaux (che il libro riprende col cavallo della copertina) e dalla boteriana Venere di Willendorf. Potrei descriverla, abborracciarla almeno, come un'idea che in me ravvicina moltissimo la pittura rupestre ad una sorta di prefigurazione e ripetizione del movimento. E poi è evidente che il Novecento è stato un secolo di grande riscoperta di quest'arte, e bene o male al Novecento appartengo (appartenevo). Ma veniamo a Villa. Siamo in piena Seconda guerra mondiale quando dei bambini scoprono la prima grotta di Lascaux. Finita la guerra, uno stato che sa ricavare anche oggi generosi punti PIL dalla cosiddetta cultura e dalle più disparate forme di "turismo culturale", industrializza il complesso che inizia a diventare meta per tanti visitatori. Emilio Villa vi arriva, evidentemente motivatissimo, nel 1961 e inizia a scrivere questo saggio già negli anni Sessanta. Il testo, appartenuto in origine all'artista Gianni De Bernardi, uscì prima come anticipazione sulla rivista "Il Verri" a fine anni Novanta. L'edizione Abscondita uscì poi, con il contributo del sempre chiaro, puntuale e utile Aldo Tagliaferri. 

Per convincervi che questo è un libro che merita la fatica di essere scovato, magari tra i libri a metà prezzo timbrati come "seconda scelta" e pure quella di essere ripubblicato, non farò molto. Mi limiterò a riportare un solo passaggio. Sentite come Emilio Villa si sgancia dal falso problema della concezione astratta e della concezione figurativa, dalle inutili polemiche, politicamente e ideologicamente incrostate, che riguardavano la speculazione di quegli anni, anche tra un "conservatore dottrinario" come il Bianchi Bandinelli e il paletnologo Alberto Carlo Blanc, sostenitore di una "priorità genetica" dell'arte astratta, opinione poi abbracciata anche dal fondatore della paletnologia Henri Breuil:

[...] l'analogia "uomo primordiale - bambino" è analogia del tutto dubbiosa, anzi da ritenere arbitraria. La questione della "priorità" genetica non ha fondamento nella realtà morfologia e nella naturalezza dell'uomo espressivo dei primordi. La realtà dei tempi, le condizioni degli spazi solo presuntivamente hanno una sintassi descrittiva di carattere cronologico: in realtà lo spazio e il tempo dell'operazione primordiale partecipa di un contesto talmente unitario, talmente proprio e sostanziale, e genera una tale concrezione tra la proprietà assoluta dell'uomo primordiale e la sua condizione "storica", da non ammettere l'inserzione di qualsiasi tipo di sviluppo o di flessione evoluzionistica. Il processo di formazione espressiva dell'uomo è un continuo flusso, un processo inalterabile di integrazione simultanea: è incessante presa del mondo, posto della immaginazione come pura captatio. Il segno è figura, la figura è atto, l'atto è unità, comunione, integrazione, generazione; l'unità è il divino, il divino è figura, la figura è segno. Così come azione e simbolo sono l'unica e medesima realtà.

Parlando della poesia di Villa, in quel contributo che ho citato in apertura, Zanzotto sosteneva che "la sua risalita alle origini ("che non ci sono" - e già Artaud lo aveva detto) comporta uno sprofondamento sacrificale nell'enigma - che può, ovviamente, anzi deve, farsi scherzo, indovinello". In questa coppia di righe c'è anche il Villa che si interroga sull'arte dell'uomo primordiale e esce dallo sprofondamento nella grotta con uno scherzo, un indovinello che giunge con la luce della sua intelligenza.

martedì 17 dicembre 2013

"Finn's Hotel" di James Joyce

Che cos'è questo Finn's Hotel di James Joyce? Un editore col quale avrete forse familiarizzato nel reparto ragazzi delle librerie, Gallucci, ha portato in italiano con la traduzione "d'autore" di Ottavio Fatica, all'interno della bella e materialmente fantasmagorica collana "Alta definizione", uno dei pezzi mancanti nella biografia joyciana (pp. 128, euro 13, introduzione di Danis Rose e postazione di Seamus Deane tradotte da Giovanna Granato, disegni di Casey Sorrow). Finn's Hotel costituisce un ritrovamento del quale si è abbastanza discusso negli ultimi tempi. E non poteva accadere diversamente: trattasi di uno dei più importanti scrittori del Novecento e questo libro di prose brevi impazzite ha pure la presunzione di collocarsi incautamente tra due molossi controversi come Ulisse (1922) e la Veglia per Finnegans (1939). La questione insomma sembra diventare interessante. Che cose ci è sfuggito in tutti questi anni? Che cosa è stato imboscato? Che "libro" precede il congedo un po' misterioso della veglia joyciana?

Stavo per scrivere che queste brevissime prose illustrate sulla storia d'Irlanda sono "schegge". Mi sono autocensurato. Se vogliamo tenere per buono il materiale, il legno, allora sono giunture o incastri, e non tanto tra le due succitate opere maggiori in dimensione e fama, bensì tra la storia e la lingua. Perché nella sua ricca nota ha ragione il nostro decano fra gli anglisti, che persino nel cognome conosce la fatica del tradurre. Ha ragione a spostare decisamente l'attenzione sulla lingua e il suono colto dalla sonda auricolare joyciana. Fatica scrive della speciale dotazione di Joyce, un "senso del linguaggio" come pochi altri, autentico scarto dello scrittore che più di ogni altro a lui contemporaneo rappresenta "il precipitato della soluzione modernista". (Francamente, per rimanere al nostro traduttore, l'avevo un po' perso nella nota che accompagna la sua traduzione delle poesie in inglese della poeta romena Nina Cassian, uscite qualche mese fa per Adelphi assieme a quelle in lingua romena col titolo C'è modo e modo di sparire, nel senso che non ne avevo colto bene il senso e l'incisività; ora invece qui lo ritrovo in tutto il suo scoppiettare imprevedibile di fuoco, in tutto quel prudente azzardo che accompagna la vita di ogni traduttore di valore, com'egli senza dubbio è.) Ed è importante sapere che il libro che avete tra le mani è stato affidato a un traduttore accortissimo, altrimenti c'era il rischio di perdere il peso specifico dell'operazione editoriale che Carlo Gallucci ha portato a termine. E c'era il rischio di perdere definitivamente Joyce e il suo senso del linguaggio.


Un disegno di Casey Sorrow
Torniamo alla domanda d'apertura. L'autore stesso definiva queste favole, nel 1923 mentre le scriveva, degli "epiclets", o "ten little epics" (piccola epica, ma anche invocazione dello Spirito Santo nel sacramento dell'eucarestia). Sono formule note, per chi bazzica Joyce, parole in uso già dai tempi di Dubliners (il centenario della pubblicazione di questo libro cade il prossimo anno). Pensiamo al momento. Sono passati pochi mesi dalla pubblicazione di Ulysses. Sono allora queste dieci favole paragonabili ad un bell'allenamento defaticante per smaltire l'acido lattico? Anche se è defaticante, di un importante allenamento si tratta. E non c'è partita vera senza allenamento. E alcuni gesti atletici purtroppo riescono solo in allenamento. Insomma, questi testi rivisitanti storie e mitologie dell'Irlanda sono scomodi, e non nell'accezione normale che si dà al termine scomodo quando riferito a un libro. Sono testi scomodi perché tutte le persone che su Joyce hanno campato fanno davvero fatica a inserirli dentro quella che è diventata via via la vulgata joyciana, nutrita di miti, leggende e molte imprecisioni, verso le quali il nostro traduttore ci mette in guardia. Questo libretto titolato come l'hotel dove lavorava Nora, la moglie dello scrittore, diventa allora un "voyage au bout de l'anglais". Il folletto dublinese sapeva scegliere (Joyce, in inglese, sconfina nella parola "choice"), così come dimostra di saper scegliere Fatica. Finn's Hotel è un libro che si presenta con maggiore confidenza al lettore, rispetto ai due torrioni che lo circondano nella bibliografia joyciana, eppure sento che mi ha lasciato in bocca un interrogativo quasi inquietante: quale il posto di Joyce e della sua letteratura, al di là delle tante carriere accademiche che attorno a lui si sono arroccate? 

sabato 14 dicembre 2013

"Tempi d'Europa". Una bella antologia poetica

Una poesia da #26


Aprire questa antologia verso metà settimana quando mi è arrivata e trovarvi, per prima cosa, il nome di Dino Formaggio, seguito da una citazione di Auerbach perfettamente calata, lassù in cima alla breve nota di Amedeo Anelli, è stato un fattore che mi ha subito disposto positivamente. Su Formaggio, se non fosse per qualche iniziativa sporadica, è stranamente sceso il silenzio. E pensare che fino a qualche decennio fa si poteva trovare negli Oscar Mondadori un libro come L'arte come idea e come esperienza... Tempi d'Europa (La Vita Felice, pp. 144, euro 15) è un'antologia sicuramente ambiziosa, sicuramente per forze di cose e di dimensioni non approfondita sui vari autori, sicuramente nata da un taglio molto forte. E tuttavia è un'antologia pienamente conscia dei propri limiti e questo la aiuta ad essere una bella antologia. Allo stesso tempo è un progetto nel quale i curatori Lino Angiuli e Milica Marinković hanno dato una felice interpretazione di quel "melograno di lingue" (Zanzotto) che è tuttora il continente vecchio. A volte penso che in un'atmosfera poco propizia come quella degli anni tra le due guerre i poeti si preoccupassero di più e meglio di capire cosa e come si scrivesse fuori dai confini nazionali. Desolante invece oggi notare come qualche nome straniero manchi nei dibattiti e nelle presentazioni di poesia più informate. In questo libretto rosso troverete davvero poesie da tutti i paesi e anche testi delle minoranze linguistiche. Dall'inglese al gaelico irlandese, dal francese al provenzale, l’occitanico, il corso, il bretone; con lo spagnolo si può trovare l’euskera, il gallego e il catalano. Si trovano testi da Lussemburgo (a tal proposito, da Lussemburgo va segnalato il libretto di Lambert Schlechter All'opposto di ogni posto pubblicato da Interlinea), da Cipro, dalla Lettonia o dalla Bulgaria. E tutte le poesie presentano il testo italiano a sinistra. Sono in totale 42 testi provenienti da 28 paesi della Comunità Europea. 

Simili volumi diventano utili perché, almeno nel mio caso, possono diventare il primo gradino verso una nuova lettura. E in fondo è anche questo il loro senso. Meglio ancora se diventano il primo gradino verso una nuova traduzione più ampia. Scegliere ora un testo da un'antologia così concepita e che nasce e si rafforza nella compresenza di lingue e paesi sembra davvero una mancanza di rispetto verso il criterio che l'ha informata. Eppure mi congedo con una poesia scelta naturalmente secondo una logica pretestuosa, così come è pretestuosa e riuscita la logica alla Northrop Frye adottata dai curatori di "compilazione per stagioni" dell'antologia, divisa in quattro parti e anticipata dalla poesia di Francis Jammes intitolata proprio Les quatre saisons quindi aperta davvero con la celebre La primavera hitleriana di Montale. Ma per finire, io mi sposto nell'inverno, nel quale siamo ormai dentro, verso il Baltico, in Estonia, con Doris Kareva tradotta da Piera Mattei.


Aspra e avara è la luce nordica.

Slitte trascinate in pesante oscurità,
gufi e lupi che restano all’erta.
Il Mondo digrigna i denti.

Non so, non riesco a far fronte qui,
mi gelo nella stretta della storia.
Tutti i confini sono incatenati,
ogni storia è sigillata.

Ciò di cui sto parlando è
la danza del granello di polvere
nel sole incommensurabile.


Karm, napp on põhjamaa valgus.

Rege veavad siin rasked varjud,
valvavad öökullid, hundid.
Sõna krigiseb hammaste all.

Ma ei tea, ma ei oska siin olla,
ma külmetan ajaloo käes.
Kõik piirid on puurid,
iga lugu on lukus.

Millest mina räägin, on
tolmukübeme tants
põhjatus päikeses.


(Un bell'approfondimento a cura di Piera Mattei si trova come PDF qui.)

giovedì 12 dicembre 2013

Vanni Codeluppi e il bio-capitalismo. Verso lo sfruttamento integrale di corpi, cervelli ed emozioni (una vecchia intervista)

Ripescaggi #29


Una traccia jolly delle maestre delle elementari iniziava circa così: "Frugando in un vecchio cassonetto hai trovato...". Il mio "vecchio cassonetto" è un disco esterno da 500 gigabyte e ogni tanto, quando voglio pescare qualche contenuto per i blog senza fare troppa fatica, vado in cerca lì dentro. Ormai sto raschiando il fondo di questo disco, ma ancora riesco a trovare qualcosa. Ripesco questi "vecchi contenuti" per risparmiare tempo, per variare il passo altrimenti mi annoio e perché non tutto mi sembra soffra il passaggio del tempo (alcune cose che feci davvero lo soffrono e talvolta sorrido, altre cose mi pare tengano un po' di più). Prendo ad esempio questa intervista che feci al sociologo dei consumi Vanni Codeluppi per la rivista "Che Libri" nel momento dell'uscita del suo saggio Il bio-capitalismo. Verso lo sfruttamento integrale di corpi, cervelli ed emozioni (Bollati Boringhieri, 2008, pp. 128, euro 11,50). I temi introdotti dal saggio e la stessa parola-neologismo "bio-capitalismo" mi appaiano ancora degni di attenzione. Potete leggere l'intervista nelle due paginette pdf di questo link del sito di Bollati Boringhieri. Sono degni di nota gli altri volumi di questo studioso, in particolar modo proprio quelli in catalogo Bollati Boringhier (penso ad esempio ad un libro come La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società).

martedì 10 dicembre 2013

Le poesie di Andrea Longega a Ca' dei Ricchi a Treviso per "TRAversi 2"












Venerdì 13 dicembre 2013 alle ore 21
Ca' dei Ricchi, via Barberia 25, Treviso
Rassegna di poesia "TRAversi 2" - a cura di Marco Scarpa
con Andrea Longega


Ascoltare le poesie di Andrea Longega è sempre bello. Mi è capitato già due volte quest'anno e quest'autore veneziano, una vera e propria pertica, sa come crear silenzio con la lettura e far persino, talvolta, sorridere. Ma non si tratta del solito sorriso amaro e non è nemmeno un sorriso portato dallo sciabordio del suo dialetto lagunare. Provate ad ascoltarlo e magari mi direte. I suoi libri sono Ponte de mezo (2002, Campanotto), Fiori nòvi (2004, Lietocolle), El tempo de i basi (2009, edizioni d'if), Finío de zogàr (2012, Il ponte del sale) fino al recente, bellissimo, Caterina (come le cóe dei cardelini) (2013, Edizioni L'Obliquo), tutto scritto in "soggettiva" comico-struggente da una cameriera di un grande albergo di Venezia, scelta che potrebbe ricordare anche quella di Mazzacurati nel film Sei Venezia.  Nella prima parte della serata assisterete alla presentazione e al reading, mentre nella seconda ci sarà spazio per il ricordo e le letture delle poesie di un poeta del Novecento (per questo incontro Andrea Longega ha scelto le poesie di Antonia Pozzi che usciranno dalla voce di Maria Rosa Maniscalco).

Da Caterina (come le cóe dei cardelini)

Dentro sta aqua so nata
e dentro sta aqua morirò.
Semo lontre nuialtri venessiani
semo rane, e no sténe creder
co se lagnemo de l’aqua che cresse,
co le fondamenta va soto
co va soto le cali
dentro quel aqua se impianta
le nostre raìse
e co serve come i sorzi trovémo
sempre na pièra più alta, na sfésa
che ne salva.

Dentro quest’acqua sono nata | e dentro quest’acqua morirò. | Siamo lontre noi veneziani | siamo rane, e non credeteci | quando ci lamentiamo dell’acqua che sale, | quando le fondamenta affondano | quando affondano le calli | dentro quell’acqua si piantano | le nostre radici | e quando serve come topi troviamo | sempre una pietra più alta, una fessura | che ci salva.


Questo è un altro link dove potete leggere poesie tratte da Finío de zogàr mentre qui troverete alcuni testi presi da El tempo de i basi.

domenica 8 dicembre 2013

"L'infanzia di Gesù" secondo Coetzee

©overtures #4

Il Nobel Coetzee torna in Italia sotto Natale con un titolo molto natalizio, L'infanzia di Gesù. 250 pagine molto scorrevoli, più o meno come sempre accade con lui, pubblicate da Einaudi nella traduzione di Maria Baiocchi. In realtà questa sorta di parabola sull'immigrazione, sul vuoto vorticoso nel quale sembriamo tutti precipitati, ha ben poco dello stereotipato natalizio. E anche il titolo potrebbe trarre, almeno inizialmente, in inganno.

Stavolta torno a soffermarmi su alcuni aspetti tecnici, quali la copertina ad esempio. Anzi, partiamo con le copertine. (Mi piace notare come mutano le copertine degli stessi titoli da paese a paese o da edizione a edizione, magari nel passaggio da hardcover a paperback.) Prendete la prima della colonna accanto, oppure la seconda giocata sul gigantismo della parola "Jesus" e poi quella della Kindle edition del libro dove compare quel bambino con gli occhialoni che poi ritorna su sfondo bianco nell'edizione Einaudi (mio figlio più piccolo, 16 mesi, l'ha scambiato per suo fratello, che è solito travestirsi con mantello e occhiali e ora sta tempestando di baci la bianca sovracoperta del volume).

Già, gli occhiali. In attesa dei Google Glasses, forse è una scelta pure azzeccata. Torniamo ora per un attimo al testo presente nel sito dell'editore (il corsivo è mio): 


"Un uomo e un bambino sbarcano in una città misteriosa, parlano una lingua che non è la loro e non ricordano nulla delle vite precedenti. L'unica cosa che l'uomo sa è che deve prendersi cura di questo bambino eccezionale - capriccioso, dolce, capace di guardare la realtà con occhi scandalosamente nuovi - e aiutarlo a ricongiungersi con la madre. L'infanzia di Gesú è il libro piú misterioso e affascinante del premio Nobel J. M. Coetzee. Eppure è anche il racconto piú semplice di tutti: quello dell'amore di un «padre» per un «figlio» che ha la grandezza e la forza di ridefinire il mondo." Le parole "padre" e "figlio" stanno tra virgolette perché tra i due non c'è vera parentela. Si sono trovati salvi dopo un naufragio, a Novilla, e ora lui vuole aiutare il bambino a trovare sua madre, nonostante il naufragio abbia fatto smarrire tutti i documenti. La storia, nel suo procedere, ci ricorda da vicino quelle  storie che accadono in posti dai contorni non ben definiti, posti però dove accadono cose del tutto normali come la vita di carico/scarico di un porto, il gioco del tennis e del calcio, il sesso, l'intasamento di water (bellissimo quel capitolo). Si fa naturalmente il nome di Kafka da qualche parte, nei paratesti. Eppure c'è qualcosa che ci sfugge continuamente in questa che non sappiamo se definire parabola o allegoria. Coetzee fa abilmente metaletteratura raffinata quando l'uomo e il bambino sono alle prese con il Don Chisciotte e forse proprio in questa citazione sta una chiave importante per noi lettori.


Torniamo però alla copertina. Come con i film che riprendono un'opera letteraria, anche con le copertine sarebbe interessante fare un test e capire che se la nostra immaginazione di lettori ha subito contraccolpi alla visione antecedente di un'immagine che intende probabilmente rappresentare in anticipo il personaggio principale di un'opera. Se lasciamo il titolo vivere da solo con l'immagine sembra quasi che questa copertina ci proponga un inedito Gesù, travestito, in panneggi ultramoderni. Tutte queste mie circonvoluzioni partite attorno a una semplice copertina mi hanno fatto inizialmente pensare di essere un po' tocco o quantomeno esagerato. Poi ho trovato questo video girato all'Università di Città del Capo dove Coetzee, in un inglese che si riesce a seguire agilmente, parla del suo libro e di una sua idea proprio in merito alla copertina e al titolo, che naturalmente non ha trovato il favore delle prassi dell'industria editoriale. Inutile dire che ho tirato un sospiro di sollievo. Resterò tocco, ma forse non esagerato.

"I had hoped that the book would appear with a blank cover and a blank title page so that only after the last page had been read would the reader meet the title, namely The Childhood of Jesus. But in the publishing industry as it is at present that is not allowed."




giovedì 5 dicembre 2013

"Il dio delle zecche" di Danilo Dolci (e dei Massimo Volume)

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #18
Una poesia da #25

I Massimo Volume, a distanza di tre anni dal precedente album Cattive abitudini, sono usciti con Aspettando i barbari, disco molto diverso dal precedente, sotto ogni angolatura. Come però spesso accade, si sono divertiti in rimandi letterari e artistici (molto John Cage in questo disco, ad esempio). Per chi non conosce la band, dico che si tratta di rimandi mai scontati e mai pesanti, che amplificano le potenzialità dei testi e della loro musica, creando spesso cortocircuiti impensati tra testo e musica. Cito appositamente anche la loro musica perché troppo spesso questa passa in secondo piano rispetto ai testi e al "cantato" di Emidio Clementi. Credo invece che Egle Sommacal (chitarre) e Vittoria Burattini (batteria) siano dall'inizio, vent'anni fa ormai, l'asse fondamentale della miscela che fa amare o detestare questa formazione. Accennavo ai rimandi. Emidio Clementi, bassista e voce, è tra l'altro autore di non poche prove di narrativa, uscite anche per editori importanti. La globalità dei testi di Aspettando i barbari m'ha riportato però alla mente quello che scriveva Claudio Piersanti nella prefazione al primo lontano libro di Clementi, Gara di resistenza, edito da Gamberetti (l'editore non c'è più ma il libro sembra disponibile ancora su Ibs.it). Scriveva che c'è "...un'atmosfera ricorrente, una sensazione: dev'essere già successo qualcosa, da queste parti. Di solito si scrivono cose che raccontano momenti cruciali, più o meno eroici... L’originalità di Clementi sta proprio nel rendere conto del 'dopo'.” Ho ritrovato questa felice intuizione "del dopo", nonostante il titolo sembri stazionare su un "prima". L'attesa, appunto.

Tornando ai rimandi "libreschi", se nell'album Lungo i bordi  la band riabilitava l'Emanuel Carnevali de Il primo dio o il Drieu La Rochelle di Fuoco fatuo, in Cattive abitudini aprivano con un brano intitolato semplicemente "Robert Lowell". Ora questo nuovo disco, il cui titolo tra l'altro rimanda a un noto romanzo di Coetzee, si apre con un testo tratto da Il dio delle zecche di Danilo Dolci (Mondadori, 1976, pp. XII + 182, fuori commercio). Chissà che una volta tanto la musica aiuti a riportare a galla un libro non più ristampato da Mondadori e appartenente a un autore che è invece bene continuare a leggere, nella breve e lunga distanza. Se oggi volete leggere Danilo Dolci, la cosa più facile è cercare nel catalogo di Sellerio, dove la poesia è però sostanzialmente assente.


DIO DELLE ZECCHE
(di Danilo Dolci)

Vince chi resiste alla nausea
chi perde meno
chi non ha da perdere

vince chi resiste
alla tentazione
tentazione di evadere

vince chi resiste
alle tentazioni
chi cerca di non smarrire
il senso
la direzione

vince chi non si illude

noi che accendiamo lumi,
per nasconderci le luci

la moda di esibirsi travestiti
da operai
la moda di fumare
la moda di sparare o non sparare
la moda di spararsi

noi che accendiamo lumi,
per nasconderci le luci

più confortevole inselvarsi
appiattandosi zecca



Ed ecco qui il brano dei Massimo Volume. La copertina del disco che vedete sotto nel video è dell'artista newyorkese Ryan Mendoza, a Bologna con una personale proprio in questi giorni.



martedì 3 dicembre 2013

"Per restare fedeli". La poesia di Stefano Raimondi

Librobreve intervista #31

C'è l'impressione che Transeuropa si sia un po' persa per la via. Del resto i tempi sono difficili per ogni azienda, figuriamoci in editoria. Il fatto è che fino a poco tempo fa questa casa editrice di Massa dava l'idea di poter diventare un punto di riferimento per la poesia in Italia, capace di coprire con un bel progetto e un promettente catalogo quello spazietto che le due collane poetiche maggiori, di Mondadori e Einaudi, occupano più che altro per rendita di posizione, quasi svogliatamente, per heritage più che per reale convinzione o "missione". L'impressione che l'editore promettente abbia mostrato difficoltà, soprattutto nella distribuzione e nella promozione, rimanendo invece assai invitante nelle scelte editoriali, non è soltanto mia. Ovviamente, chiunque abbia a cuore la ricerca poetica spera che simili impressioni, giustificate però da difficoltà oggettive a reperire tanti titoli (è la personale esperienza), non siano del tutto vere e che si tratti solo di una fase, tra l'altro comune a tanti soggetti impegnati nell'editoria. Se le impressioni però fossero corrispondenti al vero, sarebbe un peccato perché alcuni titoli di questa casa editrice, transitati anche in questo blog, sono davvero tra i più validi degli ultimi anni ed il merito va probabilmente ascritto al comitato editoriale operante in seno alla casa editrice. Ed è anche il caso di Per restare fedeli (pp. 96, euro 9,90), il libro di Stefano Raimondi del quale colloquio nelle righe che seguono con l'autore, fresco di importanti riconoscimenti e prossimo alla finale del Premio "Città di Fabriano", che si terrà il prossimo sabato 7 dicembre.

LB: Fammi partire dal titolo, che poi è sempre un asse(t) fondamentale di un libro. Ci racconti dove nasce questo titolo intrigante?
RISPOSTA: Ogni titolo è davvero un calco riassuntivo della storie che nel libro vengono raccontate e lascia sempre quell'orizzonte d'attesa a sollecitare la curiosità e l'attenzione di chi ha scelto di seguirne il destino. “Per restare fedeli" è un verso del mio poema, è un passo che ritengo essere l'insieme di due parole fondamentali: “Restare” nonostante tutto e nonostante il tutto e “fedeli” che dice il gesto, l'intenzione di un rapporto, di una relazione. Questo è un libro di fedeltà e d'abbandono e proprio su questo “chiasmo”, che la scelta diventa ancora più radicale, importante. Per restare fedeli è un titolo nato per farsi capire e per farsi intendere. Qui inoltre c'è anche un riferimento alla fedeltà a se stessi e alle proprie scelte, perché solo da questo calco iniziale, si può incominciare a “restare fedeli” a chi saprà condividere con te una reale progettualità esistenziale e non solo.

LB: Nella tua nota ci sono pochi cenni sulla genesi di questo libro di poesia. Quale arco di scrittura prende quest'ultimo libro e quali le motivazioni più profonde (se si può parlare di "motivazioni" in poesia)?

RISPOSTA: Il testo è stato scritto più di dieci anni fa. Il suo inizio è databile intorno al 2001 e precisamente in seguito ai fatti sconvolgenti di Genova. Per restare fedeli nasce dunque proprio da un cortocircuito storico-emotivo che mi ha colto durante quegli anni. Un lungo rapporto amoroso finito e lo scoppio delle guerre e delle rivolte che ho sentito come il riverbero/riflesso della mia situazione interiore. Due guerre: una privata e l'altra storica/epocale. Gli eventi di Genova, la caduta delle torre gemelle e lo scoppio della guerra d'Iraq, sono stati qui i puntelli che hanno incardinato il mio sentire dentro una narrazione dialogica e bifronte. Le guerre e il loro continuo disamore e, di rimando, l'amore con la sua guerra e le sue morti, le sue uccisioni sono le vie sulle quali ho progettato la scrittura di questa raccolta. Da entrambi si esce per speranza e con la voglia di rimediare ai torti subiti, ai dolori patiti. Ma se nel primo caso è la fortuna a farci restare in vita, nel secondo caso è solo lo scambio autentico con la persona amata, a portare provviste per il “dopo”, o meglio, anche per il “dopo”. Le motivazioni interiori plasmano ogni cosa mentre sono le progettualità artistiche – le poetiche – a definire nell'opera il suo perimetro: lo spazio per l'affondo etico. Ogni parola in poesia pone l'attesa del vero.

LB: Torna la guerra protagonista e penso anche al tutto sommato recente Guerra di Franco Buffoni. Ma Buffoni non è l'unico. Ci racconti meglio che territorio occupa la guerra (le guerre) nella tua scrittura poetica?
RISPOSTA: La guerra è per me un racconto continuo. Le guerre sono anche le parole tolte alle narrazioni: parole tolte male. Ma proprio per il fatto di raccontarle si presume di esserne scampati, sopravvissuti. Per fortuna non ho mai vissuto una guerra reale e non me lo auguro proprio, ma ciò che mi rende vicino empaticamente ad una guerra svolta nel mio tempo, nella mia epoca è il dolore della fatica e della fame che mi vengono incontro per farsi interpretare/sentire. Non ci sono guerre lontane. La “guerra” dovunque essa sia ci riguarda sempre! Io sono della generazioni di chi ha avuto i genitori nati e cresciuti sotto le bombe della seconda guerra mondiale; genitori e conoscenti che hanno passato ore e giorni nei rifugi, scampando ai bombardamenti in una città (Milano) che, a differenza della campagna, diventò una vera trappola per topi. Nelle città la guerra - mi diceva mio padre - la sentivi sulla testa e tra un bombardamento e l'altro si pregava di essere risparmiati. Ma era soprattutto la miseria e la fame a mietere più vittime, a fare del proprio vivere un'elemosina. La raccolta delle provviste era un esporsi reale e pericoloso e poter mangiare qualcosa ogni giorno era un'ossessione/desiderio che deflagrava più che le bombe. I racconti fatti dai miei, sono stati una storia reale che ho assunto come verità e spavento: come vita. La guerra detta da loro è stata la guerra capita da me!
Ogni guerra fa stragi e porta a degli stravolgimenti che nessuno può prevedere e le soluzioni di sopravvivenza delle persone si fanno estreme e decisive, nelle vite messe a prestito in quel tempo. Ho ascoltato la storia della fame e delle fughe, facendomi l'idea di una città distrutta fino alle cantine. Nel mio libro ci sono molto riferimenti ai rifugi e alla paura del buio illuminato solo da una fioca lampadina (come l'immagine perfetta ed essenziale che compare sulla copertina del mio libro), che dondola sulle facce di tutti , tra la paura di chi stava seduto ad aspettare che i caccia bombardieri finivano di mordere il cielo. Questi racconti , questa memoria/esistenza si è sovrapposta/sovrimpressionata alle notizie che leggevo quotidianamente dai giornali durante la seconda guerra del Golfo e la cronaca si intrecciava anche alla mia solitaria e privata guerra interiore: storia con la “S” maiuscola insieme alla storia con la “s” minuscola . È stato davvero un cortocircuito questo poema, un autentico lavorio di sovrimpressioni.

LB: Il binomio poesia-storia sembra più forte che mai. Penso anche ad un altro libro uscito per Transeuropa come Il noto, il nuovo di Giovanna Frene. Ma ci sono tanti altri libri che negli ultimi tempi sono tornati a scontrarsi/confrontarsi con questo binomio, che poi rimanda direttamente alla poesia come "forma di storiografia possibile". In Italia ma anche fuori dall'Italia. Che cosa pensi a riguardo?
RISPOSTA: Il binomio poesia e storia è una condizione naturale della poesia stessa. La Storia è la macrostruttura delle storie (quelle di tutti) e in questa relazione continua, la parola poetica diventa sismografica, tracciante, percettiva. La poesia è fatta di esperienze e dove le vite vanno ad intrecciarsi con i giorni, le opere diventano una testimonianza evidente del proprio agire, del proprio volere. La Storia è un racconto e la poesia una sua cifra. Non penso che la poesia possa essere civile solo come “genere”. Ogni poesia è civile perché politica in quanto portatrice dell'evento persona. Il rapporto poesia e Storia è dunque una condizione dello scrivere e di chi usa le parole per “dire” la sua possibilità d'esistere.

LB: Il tuo libro mi sembra un interessante banco di prova e sperimentazione per i rapporti tra testo e paratesti e tra poesia e prosa poetica. Come ti sei mosso nella scrittura in merito a questi vertici di un ipotetico perimetro di scrittura?
RISPOSTA: Sì questa raccolta ha un banco di lavoro molto ampio e molto vissuto. Ho voluto infatti tenere aperti due registri: poesia e cronaca. Soprattutto nella sezione centrale di “Blog out”, si possono notare come i brani dei quotidiani, letti in quei giorni di battaglia, siano divenuti i versi proemiali che solitamente abitano la mia scrittura poetica e che graficamente sono sempre posti in alto a destra, scritti in un corpo minore rispetto al testo centrale. Sono brani che innescano una situazione e propongono un legame con il resto che accade nel corpo centrale della pagina. Sono rimandi ma anche reali “immagini” di realtà che dialogano per rarefazione. Li intendo anche come “microfilmati” che si propongono come avvio a qualcosa che deve accadere, una sorta di prima intuizione. Ho ritagliato e sottolineato pagine e pagine in quei giorni, archiviandole, selezionando poi i dettagli che maggiormente sentivo capaci di racchiuderne gli eventi, ma anche le singole inquadrature. Questo modo di procedere, questo “montaggio” filmico dei testi è per me essenziale. Mi piace infatti affermare che io “giro” poesie più che scriverle. Il lavoro del montaggio ha per me la stessa importanza che il lavoro della gettata creativa. Jean-Luc Godard è un maestro per me in poesia quanto Giuseppe Ungaretti o Paul Celan.
Per quanto riguarda invece la comparsa di inserti di prosa poetica anche questa modalità è frutto di una “fucina” arredata nel tempo. La prosa poetica aveva già avuto una sua piccola apparizione nella raccolta d'esordio La città dell'orto (Casagrande, 2002) e poi più estesamente in Il mare dietro l'autostrada (Lietocolle, 2005), fino a concretizzarsi realmente come progetto scritturale, nella raccolta Interni con finestre (La Vita Felice, 2009). E' stato dunque un lento apprendistato e un pacato modo d'ascoltare questa particolare “misura” che, nella brevità ha la sua forza e nel ritmo il suo tono e la sua sostanza. Ho sempre pensato di non essere in grado di scrivere un romanzo e gli incipit mi hanno sempre invece molto affascinato. Ma il mio fiato è corto ed ogni tentativo di proseguire oltre “l'inizio” ha sempre dato scarsi risultati. Dunque la misura della piccola prosa poetica è la distanza massima che posso percorrere e da qui il tentativo di “dire” - nella tensione del “togliere” più che dell'aggiungere - ha realizzato in me la strada per questa scrittura ibrida e sincopata. La poesia resta a fare da partitura ritmica là dove la necessità di narrazione si fa prepotente e necessaria.

LB: Per concludere vorrei chiederti se sta accadendo qualcosa di importante e significativo attorno a questa tua ultima uscita poetica. Grazie.
RISPOSTA: Non so cosa sia importante realmente per la poesia, se non il fatto emblematico della sua resistenza come linguaggio. Attorno poi alla mia ultima raccolta si sono mosse risposte e ritorni davvero interessanti e, non in ultimo, premiazioni che mi hanno rallegrato. Ho partecipato e vinto al premio Marazza e ora sono in finale al Fabriano, dopo essere stato tra i finalisti del Fogazzaro e del Maconi. Vedremo cosa mi riserverà ancora il 2013.
Comunque sia se qualcosa di importante deve accadere intorno a un nuovo libro di poesia è sempre la sua relazione/reazione con il mondo e con la gente che ti sceglie per passare con te del tempo: il suo tempo! Questo è per me una grande cosa: il tempo dedicato. Bisogna sempre essere Ospiti e Ospitali in poesia!

Milano 2 dicembre 2013


Ad uso dei forzati del copia-incolla delle note biobibliografiche, ricopio qui sotto una sempre utile nota relativa all'intervistato:

Stefano Raimondi (Milano, 1964) poeta e critico letterario, laureato in Filosofia (Università degli Studi di Milano). Sue poesie sono apparse nell’Almanacco dello Specchio (Mondadori, 2006) e su Nuovi Argomenti (2000; 2004). Ha pubblicato Invernale (Lietocolle, 1999); Una lettura d’anni , in Poesia Contemporanea. Settimo quaderno italiano (Marcos y Marcos, 2001); La città dell’orto, (Casagrande, 2002 - Premio Sertoli Salis 2002); Il mare dietro l’autostrada (Lietocolle, 2005); Interni con finestre (La Vita Felice, 2009); Per restare fedeli (Transeuropa, 2013 – Premio Marazza 2013). È inoltre autore di saggi come: La ‘Frontiera’ di Vittorio Sereni. Una vicenda poetica (1935-1941), (Unicopli, 2000); Il male del reticolato. Lo sguardo estremo nella poesia di Vittorio Sereni e René Char, (CUEM, 2007); Portatori di silenzio, (Mimesis, 2012) e curatore dei seguenti volumi: Poesia @ Luoghi Esposizioni Connessioni, (CUEM, 2002) e [con Gabriele Scaramuzza] La parola in udienza. Paul Celan e George Steiner, (CUEM, 2008). È tra i fondatori della rivista di filosofia “Materiali di estetica”. Collabora a “PULP libri”, “Bookdetector”, “QuiLibri”, “Poesia” e tiene corsi sulla poesia in diverse associazioni culturali e strutture scolastiche. Curatore del ciclo d’incontri “Parole Urbane”. Svolge inoltre attività di consulenza editoriale, docenza presso la Libera Università dell'Autobiografia ed è tra i fondatori dell'Accademia del Silenzio.

domenica 1 dicembre 2013

La collana Sillabario/TAG delle edizioni Et al., a partire dal Brecht di Rocco Ronchi

Storie di collane micro #10

Tien botta il costrutto editoriale di collana? Mi chiedo spesso se questo costrutto, questo espediente, questa prassi consolidata storicamente del raggruppare i libri in collane resista nel panorama tutt'altro che leggibile dell'editoria italiana. I dati che l'AIE ha fatto girare a ridosso della Frankfurter Buchmesse sono preoccupanti, solo per stare alle cifre. Se pensiamo che comprendono anche quel reparto di pseudocartoleria che popola le librerie, non c'è da stare allegri. Tutto in calo e, come giustamente nota Federico Novaro nel suo contributo per "L'indice dei libri del mese", chi ne fa le spese di questa situazione è il lettore, fantomaticamente inseguito dalle pseudostrategie degli editori e invece paradossalmente frustrato e frustato dalla sferza dell'inseguimento del mercato. Molti editori sono poco più che stampatori (e tiriamo pur dentro anche i grandi, che si rifiutano di fare un mestiere difficile, nobile e tremendo) e il "dato positivo" che Novaro estrapola è un'inquietante ascesa del numero di case editrici. In fondo basta poco per definirsi "casa editrice": un libro all'anno. Ma diverso è "fare editoria", consapevoli che quella della casa editrice è un'impresa in tutte le accezioni della parola "impresa".

“Questo è il più bel mestiere del mondo”, si legge nel sito della casa editrice Et al., abbreviazione di Et alii, espressione molto diffusa nelle bibliografie. A dichiararlo, riferendosi al proprio mestiere, è il direttore Sandro D'Alessandro. In effetti si percepisce, solo a stare nel sito, la voglia di fare editoria nel senso autentico del termine, rischioso, senza prendere in giro nessuno nella lunga filiera che fa passare di mano l'oggetto libro, quando resta fatto di carta (ma scusate, come fate a chiamare "libro" l'ebook? Si tratta di un'altra cosa, che in fondo merita un nome più rispettoso, che non parassiti all'ombra del libro di carta con una "e" davanti). Se poi i libri di questa giovane casa editrice vi sono capitati tra le mani credo che l'impressione di un lavoro condotto con scrupolo, criterio, passione e intuizione sia chiaro.

La buona percezione regge ulteriormente davanti alla microcollana TAG Sillabario curata da Federico Leoni. Sono stato adescato da un bel libercolo di Rocco Ronchi su Brecht. Come sempre, il mix di due autori frequentati in passato può produrre un certo cocktail dal sapore invitante. A dire il vero, se non fossi in periodo di limitata spending review anche per i libri, mi sarei preso subito anche il Dante. Il suono dell'invisibile di Carlo Sini, stavolta per il titolo, oltre che per il mix di autori (di Dante non serve dire, di Carlo Sini ricordo l'antologia di testi che si usava al biennio). Completano il poker di partenza della collana calato dalla casa editrice Wittgenstein. Lo stupore e il grido di Sergio Benvenuto e Descartes. Una teologia della tecnologia dello stesso Federico Leoni.

Il libro di Rocco Ronchi su Brecht è un testo che perlustra la funzione peculiare di cui il drammaturgo rivestì la totalità del suo teatro in uno dei momenti più tragici della storia mondiale. Così diventa possibile ripercorrere in modo condensato molte delle fondamentali speculazioni che lo scrittore di Augusta affidò agli Scritti teatrali pubblicati da Einaudi nella PBE, nella traduzione di Emilio Castellani e Roberto Fertonani. Ronchi pone dapprima Brecht in una linea di riflessione che coinvolge il Platone del X libro della Repubblica, quindi avanza in una fondamentale diade tra tra Brecht e materialismo storico (vi ritornerà anche nell'appendice, dove riprende uno scritto apparso su "il manifesto"), poi s'allarga a Wittgenstein e Bachtin, al celebre straniamento, nel capitolo intitolato appunto Verfremdungseffekt, per concludere con un capitolo che allaccia tecnica di recitazione e filosofia.

In chiusura vorrei riportare il testo - a mio avviso efficacissimo - che presenta il concept di questa collana curata da Federico Leoni. Per rispondere alla domanda che mi ponevo in apertura, direi che di fronte a un simile testo il costrutto di collana sembra ancora reggere egregiamente. Insomma, le idee sembrano chiare, quasi luminose. Non so se il costrutto di collana regga solo presso il fantomatico "lettore forte", una specie che più che in via di estinzione mi sembra sempre più in via di stancante definizione e ridefinizione. La domanda è: a chi giova definire il "lettore forte"?

"Ogni libro della collana presenta un grande autore un classico. Della filosofia, della letteratura, della storia dell’arte. Ma lo presenta in modo tutt’altro che classico. Ne parla per tentare un esperimento con la verità, come diceva Nietzsche. Un filosofo parla di uno scrittore, un narratore di uno storico dell’arte, uno psicanalista di uno scultore. Ciascuno racconta una sua passione segreta. Una sua ossessione. Non è tempo di storicizzare, di collocare autori e testi nel cielo bianco dell’eternità. E’ tempo di dichiarare amore e guerra. Non per un autore o un’opera, ma per il suo presente. E cioè per il nostro."