domenica 28 aprile 2013

Giuseppe Berto e i suoi colloqui col cane Cocai

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #15

Durante gli anni dell'università, a Padova, frequentavo spesso una libreria di remainders. Non sono sicuro sul nome (Compralibro, mi pare) e non so nemmeno se ci sia ancora. Allora andavo in treno a Padova e ci passavo sempre davanti mentre ora, che a Padova ci torno di rado e per lo più con l'auto, questa libreria posta all'incrocio tra Corso del Popolo e Via Trieste, con il Piovego di fronte, resta fuori dai miei giri. Ricordo però una commessa tanto gentile (d'accordo, ero un discreto cliente e pure discreto, nell'altro senso) quanto graziosamente timida e poi il gran assortimento di volumi interessanti a metà prezzo. Tra tutti riaffiorano alla superficie della memoria molti Scheiwiller di poesia (del marchio All'insegna del pesce d'oro), tanta letteratura italiana e universale della Marsilio e persino un'ottima scelta di volumi del Politecnico Einaudi (quelli con il quadrato rosso in copertina, dove il mio indimenticato professore Silvio Lanaro aveva pubblicato L'Italia nuova: identità e sviluppo 1861-1988). Più volte mi capitò in mano il libro di Berto di cui vorrei parlare oggi, ma non so perché alla fine non lo acquistai mai. Qualche giorno fa l'ho preso in biblioteca. Perché vi racconto tutta questa storia? Perché credo che la fisicità del parallelepipedo-libro, in questa mia storiella, abbia un senso. Vedete, non credo sia tanto il fantomatico profumo della carta (a volte mi pare che ci siamo scoperti tutti, dalla sera al mattino, copulanti con carte profumate e forse esageriamo!) a venire a mancare con un'ipotetica affermazione del libro digitale, bensì questa insistenza, ricorrenza o "ingombro fisico", spaziale e mentale, più difficilmente deperibile rispetto al digitale, che il libro-parallelepipedo occupa nella nostra vita e nella nostra memoria e di cui l'odore della carta, tra l'altro assai variabile nel tempo, è soltanto uno degli aspetti considerabili e, almeno per me, il meno rilevante. Prima di addentrarmi nel libro che per tanti anni ho ignorato e ora degnato d'attenzione, preciso che non è per una semplice ragione di vicinanza geografica che mi soffermo oggi su Giuseppe Berto, nato a Mogliano Veneto nel 1914 e morto a Roma il primo novembre 1978. Al di là dei più noti Il cielo è rosso e Il male oscuro, o del profetico (posso usare questo aggettivo con ostentata sicurezza e senza virgolette?) Modesta proposta per prevenire, c'è davvero un nugolo di opere, a torto reputate minori, che andrebbero riscoperte, riproposte, riaccolte dentro i dibattiti. In realtà molte sono ancora disponibili, altre no, altre sono state rese disponibili da poco, come gli scritti giornalistici del periodo 1962-1971, radunati in volume col titolo di Soprappensieri da Nino Aragno, editore che costituisce una delle più belle realtà dell'Italia attuale (pensate, solo per fare un esempio, alle Prose critiche di Caproni, opera coraggiosa e gigante recentemente pubblicata da quest'editore torinese). Proprio nel periodo di questi citati scritti giornalistici si colloca anche la scrittura confluita nel libro Colloqui col cane (Marsilio, 1986, pp. 168, Lire 12.000, io l'ho trovato in biblioteca e credo che in commercio non si trovi facilmente), che altro non è che una raccolta di interventi apparsi su "Il Resto del Carlino" dall'ottobre 1968 al luglio del 1969.

Il lettore bravo a collocare gli eventi salienti di un secolo non mancherà di notare che questi scritti prendono vita nel frangente affacciato sul maggio parigino e sui carri armati nella Primavera di Praga, fatti che ebbero una portata di ripensamento fuori dall'ordinario. E così anche questi scritti sembrano vivere in questa dimensione del ripensamento. Nella sua nota alla fine del libro Cesare De Michelis scrive: "Colloqui col cane è un libro tenero e disperato, dolce e severo: un atto di accusa contro il passato e contro il presente lucido e coerente fino alle conseguenze più estreme, è il racconto del destino di una generazione senza pace che si agita inquieta da più di trent'anni. Non è facile trovare una testimonianza più limpida e amara di una sconfitta epocale che ha investito tutt'intera una cultura e una vita".

Eh già... verrebbe da finir qui, perché il libro è in fondo anche questo, sta anche in queste parole. Ma diciamo un po' meglio che cos'è. Il volume raccoglie gli interventi concepiti in forma dialogica con il cocker spaniel Cocai che si situano su una rupe isolata della Calabria, a Capo Vaticano, in una regione che tra l'altro ritorna persino nel titolo di Intorno alla Calabria, libretto che Berto pubblicò a proprie spese poco prima di morire. Le inquietudini che hanno mosso la generazione di Berto (e pure la successiva) le potete trovare qui, full optionals, e questo libello m'appare oggi quasi come un'epitome di queste, se non fosse che non c'è nulla di strettamente didattico in questi scritti di occasione che si sollevano stanchi dalle lacerazioni della fine di tutte le ideologie, rivisitate in tranquillity fronteggiando il mare della Calabria.

Berto e Cocai
Giuseppe Berto è tuttora e probabilmente rimarrà a lungo una figura troppo spigolosa del nostro panorama. Un atipico troppo nervoso, invischiato con tutti i punti caldi del secolo scorso. Eppure ha ragione De Michelis, e non possiamo che convenire con la struggente bellezza di queste pagine di prosa giornalistica dove trovano posto alcune delle grandi inquietudini del Novecento italiano e non solo, esitazioni del pensiero che per forza di cose ci trasciniamo anche nell'oggi. Forse, neanche tanto tardi, arriveranno a dedicare un Meridiano a Berto, ma in fondo non ce ne frega poi moltissimo. Lo dico solo perché Berto è uno di quegli autori che andrebbero ripresi a prescindere e prima di un'opera di peso come un Meridiano. Negli atti di un convegno a lui dedicato, c'è un intervento di Andrea Zanzotto (che miniera critica fu Zanzotto, da riscoprire passo dopo passo!) che, dopo aver fatto piazza pulita da vulgate che lo volevano troppo "appiccicato alla destra", lo dipinge afflitto da un senso di colpa, fiaccato da una sorta di facchinaggio della penna, divaricato tra un'idea alta della letteratura che egli possedeva e altre forme "minori" che praticò per necessità economica. Uno dei crucci di Berto fu, secondo Zanzotto, il dover ricorrere spesso alla scrittura come mezzo di sussistenza, a differenza di altri scrittori che avevano accettato la professione dell'insegnamento (come Zanzotto stesso) e che grazie a questa riuscirono a svincolarsi dalla necessità della scrittura come mezzo di sostentamento, pur trovando come contraltare la realtà di una professione avvolta spesso da grigia routine. Zanzotto vide addirittura nel rifiuto dell'insegnamento di Berto il suo "errore fondamentale". Un carattere spigoloso e nervoso come quello di Berto, in contrasto anche coi circoli radical-chic della capitale dove morì, ha convissuto persino - ricorda Zanzotto - con un inspiegabile senso di colpa di mancanza di cultura. Berto non ne era privo, e anzi aveva provato ad affrontare a viso aperto il labirinto della sua epoca, spanciando sul muro d'acqua dei temi della psicanalisi nelle opere più note e fortunate. Libri come questo Colloqui col cane, a torto considerati minori, sono a mio avviso tra le possibili fondazioni per ricostruire l'edificio della vicenda intellettuale e morale del nostro paese, le sue aporie, le sue inaggirabili asprezze e vanno a costituire un passaggio obbligato dell'oggi, se davvero vogliamo provare ad uscire dalle discussioni che ammorbano il dibattito pubblico, spesso fomentato da quisquilie che assurgono agli onori di una cronaca impressionistica, tanta è la confusione che fa tra i suoi colori.

Per concludere, lascio ancora una volta la parola al Zanzotto critico e a un passo del già citato intervento (contenuto in Aure e disincanti del Novencento letterario), il quale sembra rivestire bene anche la volumetria di questo libro-parallepipedo, ormai introvabile e, come ho provato a dimostrare, soltanto in apparenza minore:

"Una grave crisi travaglia non solo le ideologie, ma anche le religioni che spesso reagiscono assumendo tratti di carattere implosivo e regressivo. Ed è sempre attuale la battuta di Woody Allen: «Dio è morto, Marx è morto, ed anch'io comincio a non sentirmi troppo bene». Grande è l'urgenza di superare questa stretta, con nuove sintesi. E urge affrontare il problema delle sempre più obsolescenti strutturazioni del pensiero, ma anche del nichilismo che è diventato ormai chiacchiera da salotto, nel guazzabuglio culturale che impera oggi; mentre dalla mattina alla sera ogni novità si dissolve. Ogni sforzo per superare, anche attraverso una ripresa del sentimento religioso, il nichilismo depressivo, è degno di rispetto. E in questo senso Berto se lo merita pienamente. Frattanto, nell'attuale regno del consumo che consuma tutto, è anche sperabile che esso abbia a consumare persino il demonio del nichilismo...".

mercoledì 24 aprile 2013

Stefano Dal Bianco fa e ha le "Prove di libertà"

Esiste una parola più facile e, al contempo, più erta di "libertà"? Se guardo alla mia vita, ho sempre provato un certo ritegno nel pronunciarla o scriverla, assieme agli aggettivi che presuppone o dai quali è presupposta. Poi ci si è messa anche la politica degli ultimi decenni, coi suoi plurali di libertà (per fortuna la parola non muta, al plurale!), e allora le sue quotazioni dentro la mia borsa sono crollate. Tuttavia ho sempre pensato che fosse un problema soltanto mio (o al massimo anche della politica), e che con questa parola siamo tutti prima o poi tenuti a fare i conti, attraverso percorsi unici. E la resa dei conti con questa parola ingombrante, ma che sta tutta nelle nostre mani, può essere innescata senza tanti preavvisi. Pensavo anche a questo leggendo Prove di libertà (Mondadori, Lo Specchio, euro 18), ultimo - anche se non recentissimo - libro di Stefano Dal Bianco. Raduno qui oggi le impressioni trascritte a singhiozzo negli ultimi tre mesi e parto dicendo che a diversi anni da Ritorno a Planaval avevo banalmente voglia di rileggerlo, così come i tanti che amarono quel libro del 2001. La nota conclusiva del libro recita laconicamente: “Questo libro è stato scritto fra il 2001 e il 2011”. Un punto da cui partire, almeno sul fronte della ricezione, sta proprio qui. Pochi libri hanno avuto un impatto significativo sui lettori come Ritorno a Planaval e credo di poter affermare con serenità che pochi libri di poesia fossero così attesi come questo nuovo che giunge con tutte le difficoltà del caso: un buon successo di pubblico e critica del primo, un periodo insolitamente lungo a separare i due libri (ma Dal Bianco è poeta "paziente" e tornerò su questo). I pareri che ho già riscontrato in giro sono assai mutevoli e, almeno per quel che ho sentito, generalmente abbastanza tiepidi. Non è mia intenzione (e capacità) riscaldare l'accoglienza di questo libro, ne scrivo appositamente a distanza di mesi dall'uscita, ma proverò a dire perché questo sia un libro bello e altrettanto – se non più – convincente del precedente. Dal Bianco ha avuto coraggio (si può dare una poesia senza coraggio?) e dopo undici anni non ha fatto come quei gruppi rock che trovano la formula del disco che piace e la ripetono per almeno un paio di album. Dentro l'accumulo da cui la poesia nasce e si trasforma - e che a sua volta trasforma in vera esperienza - si colloca pienamente anche questo libro, che appare lontano da Planaval (non potrebbe essere diversamente) e che per questo motivo farà forse fatica a bissarne il successo di pubblico e di critica.

Il lettore che avvicina per la prima volta la poesia di Dal Bianco e che magari si interessi della sua attività di critico (non meno interessante, anche quando, come in Tradire per amore, si perde e si ritrova nelle analisi metriche del primo Zanzotto), può rimanere quasi sbigottito dal rapportare questi passi semplici della sua scrittura con la poesia all'apparenza ostile di Andrea Zanzotto. Sarebbe stupido leggere un poeta come Dal Bianco pensando solo al critico di Zanzotto, autore così sideralmente lontano dalla poesia che affiora in Prove di libertà o Ritorno a Planaval eppure vero faro, stella polare, pure del Dal Bianco poeta di questi anni. (E comunque, sia detto per inciso, non c'è critico migliore, o semplicemente più utile, per avvicinare la poesia di Zanzotto, anche in vista di future generazioni di lettori di Zanzotto e affermo questo a partire dal lungo saggio introduttivo che Dal Bianco ha scritto per il recente Oscar Mondadori con tutte le poesie del poeta trevigiano.) Questi ragionamenti non servono tanto a ripararsi da possibili fraintendimenti, e di Zanzotto e di Dal Bianco, ma  a mostrare al lettore che lo vorrà capire come si possa oggi attraversare gli spazi semplici, elementari, della poesia di Zanzotto, per approdare a poesie proprie, che dicano della vita e della libertà, provata e dimostrata, esperimento-impegno da un lato e testimonianza-dimostrazione di verità dall'altro, sfaccettature di libertà tenute assieme da “prove”, prima parola del titolo del libro. Ecco perché sostengo che Dal Bianco in questo libro fa e ha, simultaneamente, le prove di libertà, in quello sforzo che sottende il passare in mezzo, dalle "anime costrette" della nostra vita alla "somma libertà del tutto".

Parlavo di mani, e allora proseguo in scia “digitale”, cercando l'indice del libro. Balza all'occhio e al nervo acustico la strutturazione di questo in sette sezioni, come le note musicali chiamate a cappello di ogni regione di questo libro. Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si, quasi come in un celebre mottetto di Montale. “Do” e “fa”, verbi, “re” (sezione dedicata al figlio) e “sol”, sostantivi, “mi” e “si” come particelle pronominali (anche se l'intera sezione Si, con l'aggiunta di un accento, potrebbe esser ascoltata come un'affermazione secca, senza possibilità di ricorso in appello) e poi l'articolazione (avverbio di luogo?) della sezione La. Queste le note, poste in scala ascendente, senza diesis o bemolle, pronte a collocarsi nel pentagramma del lettore, a scombinarsi e ricombinarsi in melodie e dissonanze, in componimenti dove sembra albeggiare una nuova forma di “classicismo” o di componimenti brevi dove la vita si scorda e si riaccorda nel giro di un istante, come in Via Garibaldi confuso, dove, non so ancora bene perché, ho colto quella postura e una topologia del poeta che poi ha intonato buona parte della lettura del libro:

“A metà di via Garibaldi una ragazza straniera mi ha chiesto dov'è via Milano e io mi sono concentrato e le ho detto sorridendo non lo so. E lei si è allontanata verso piazza Statuto, completamente fuori strada. Lo so, perché la via Milano so benissimo dov'è, ma in quel momento no, lo giuro, mi dispiace.”

Sintomatiche di una presa di distanza dal presente delle mode poetiche e del nuovo poetichese sono anche le epigrafi, che spesso ricorrono alla letteratura religiosa o mistica, araba e indiana, a Daumal e Gurdjieff, alla Bibbia e al Corano, dal “Come in cielo, così in terra” del Padre Nostro a Pistis Sophia, a Esiodo oppure, qui assai zanzottianamente, all'incarto della merendina Ciock. Dal Bianco, in un punto, gioca ungarettianamente con il proprio cognome e su questa rosa di venti colloca la ricerca, l'interrogazione (sull'interrogare cercate di fare subito vostra la sezione-poesia finale Essere umani) sul nominare e sull'essere. Questo accade nella poesia Come ti chiami:

A volte sembra che il tuo nome
e tutto ciò che credi d'essere scolori,
e lì nel centro della nullità paurosa
si distingua qualcosa
che tu sai essere te
ma non sai come chiamare
non sai mai come fermare
prima che torni ad essere dal bianco.

Scriveva Mengaldo nel risvolto di Planaval: "Questo poeta così notevole non assomiglia a nessun suo confratello d’oggi, anzitutto perché non ha alcuna fretta. La parsimonia e la concentrazione non sono in lui che la faccia operativa della serietà della sua introspezione." Sono parole da ripetere oggi, anche perché la mancanza di fretta è sempre più una dimensione utile alla poesia e alla critica, a quel che rimane della critica e a quella critica che prova persino a convivere con i goffi tentativi, più o meno riusciti, di promozione editoriale della poesia. Un poeta non può non essere paziente e questo va detto chiaro e alto, sopra tutti i toni e i livori che anche i blog letterari spesso contribuiscono a creare e ad accumulare. La poesia non può vivere in quelle stanze di sfogo, visto che lì non respira e lì non attira sguardi. Lo dico perché credo serva pazienza con questo nuovo libro di Dal Bianco, dove permangono poche di quelle prose che caratterizzavano l'andamento diaristico del fortunato esordio ne Lo Specchio Mondadori del 2001. Il lavoro fatto dall'autore su sé e sulla propria poesia è ampio e ragguardevole per una serie di ragioni: la riuscita di una lunga concentrazione che ha riguardato la voce, la capacità di dire in una lingua che ambisce a essere libera, che esca dalla gabbia della tradizione di cui è innamorata e che sappia tradurla e tradirla al contempo (Dalla gabbia, ricordiamo, il sottotitolo della sezione Do) e infine, dal punto di vista dei contenuti di questi testi (spesso strategicamente attardati su disagi, gioie, dolori), la svolta che è contenuta nell'ambivalenza del titolo stesso dell'opera: prove di libertà come tentativi di libertà ma anche, simultaneamente, come testimonianze, tracce, segni di una libertà che esiste, nonostante le puttanate in cui noi la cacciamo a nascondersi o attraverso le quali la sbanderiamo senza capire niente. “Chi non ha capito tutto non ha capito niente”, è una delle epigrafi da Gurdjieff. Se non capiamo quell'isola di libertà che portiamo, a maggior ragione non abbiamo capito niente. Nei testi che si susseguono, in questo libro rarefatto di suoni e così denso di vita, Stefano Dal Bianco, come il Zanzotto a lungo amato e studiato, ha tradito per amore ancora una volta, anche questa volta. Credo sia andata più o meno così, per questo il suo nuovo libro avrà lasciato molti perplessi (penso alle posizioni che non condivido di Matteo Marchesini, allargate in questo articolo anche ad altri autori come Mario Benedetti). Ora sta a noi scegliere cosa fare di questo suo nuovo sasso gettato sull'acqua, nell'acqua, ricordando – tornando ancora a Planaval – che “Noi dobbiamo stare con i sassi. / Sono una cosa del mondo. / E dobbiamo cercare di capirli. / È per questo che ho scritto una poesia che ha bisogno di un gesto e di un pensiero. / Adesso io starei qualche secondo in silenzio, pensando ai sassi.” Di tutte le epigrafi, che funzionano qui come vento di accompagnamento alla lettura, ho trovato particolarmente efficace quella della sezione Si, che costituisce poi una delle epigrafi più recenti citate da Dal Bianco, visto che appartiene a Jerzy Grotowski, il regista polacco del teatro povero. Qui ci viene offerta un'immagine, forse enigmatica, che ci può accompagnare nella rinnovata poesia di Stefano Dal Bianco: “Non è per il gusto di parlare che lavoro, ma per allargare l'isola di libertà che porto”. Ecco il lavoro, la libertà, l'isola di questo poeta, lo stesso che potete incontrare confuso in Via Garibaldi. Che cosa incontrerà l'allargarsi dell'isola? Non lo sappiamo, ma abbiamo pazienza.

Autolavaggio


Forse dovremmo bere molto.
Forse dovremmo respirare meglio.
Io morirò per qualche cosa di circolatorio.
Tu morirai per qualche cosa di cardiaco.
Tutto normale. Le tubature e la pompa.

Allora cibarsi con cognizione, 

respirare consapevolmente,
ogni giorno lavare la macchina
con quello che ci viene offerto, la materia,
la materia che raffina i Pneumatici.

Spazzare via ciò che non serve,

lasciarsi impressionare da vivande più sottili,
coltivare una pazienza attiva,
pregare: chiedere e aspettare.

Tutti i giorni lavare la macchina

senza pensare di sapere-già,
senza pensare di sapere-tutto.

Separare le cose dai significati, andare contro

a ciò che di meglio si è pensato,
perché qualcosa va perduto in noi
perché una nuova nota suoni.

lunedì 22 aprile 2013

Ca' dei Ricchi a Treviso ospita Alessandra Carnaroli e Stefano Guglielmin per "TRA Versi"


Venerdì 26 aprile 2013 alle ore 21
Ca' dei Ricchi, via Barberia, Treviso
Rassegna di poesia "Tra Versi" - a cura di Marco Scarpa
con Alessandra Carnaroli e Stefano Guglielmin

Ecco la segnalazione del nuovo appuntamento della rassegna "TRA Versi". I poeti che Marco Scarpa è riuscito a portare a Treviso da più parti d'Italia sono davvero meritevoli di attenzione e credo vada riconosciuto a questo poeta, che consiglio di seguire nei suoi passi, una capacità e una grinta organizzativa fuori dall'ordinario. Solo queste qualità infatti hanno reso possibile la realizzazione di una rassegna di poesia variegata e intensa, come non se ne vedevano da un pezzo, almeno da queste parti, partendo - non va scordato - da risorse finanziarie praticamente nulle. La rassegna ha ancora alcune carte molto interessanti da scoprire. Credo di poter comunque anticipare che, salvo imprevisti di percorso, si dovrebbe concludere con Cristina Alziati, della quale in molti avranno apprezzato il recente Come non piangenti (Marcos y Marcos). Con l'occasione, le congratulazioni vanno anche a Sara Tisci, artefice delle bellissime scenografie delle serate.













Alessandra Carnaroli (13/04/1979) vive a Piagge (PU). Pubblica nel 2001 Taglio intimo, Fara editore. Nel 2003 partecipa a Roma Poesia. Nel 2005 la raccolta poetica Scartata è finalista al premio "A. Delfini" di Modena e viene pubblicata in edizione originale con le illustrazioni di Giuseppe Gallo ed inserita in un cofanetto in edizione limitata curata da Luigi Ontani. Nel 2006 alcune poesie sono pubblicate, con una nota di A. Nove, in 1° non singolo (sette poeti italiani), Oèdipus edizioni. Nel 2011 pubblica FemmINIMONDO, Polimata, con una nota di T. Ottonieri e prefazione del Centro anti violenza Erinna di Viterbo e UDI Napoli.
Con anna matta quattrocento sessanta sette membri, poesie inedite e Mirande, racconti inediti, partecipa a RicercaBo 2011. Prec’arie 2012, raccolta di poesie inedita, è finalista al premio Miosotis 2012, della D’If edizioni. La raccolta Sbrina è stata scelta da Anna Maria Giancarli per il premio F. Cavallo ed è apparsa nell’antologia Poesia luogo delle differenze Marcus Edizioni 2012. Nel 2013 un estratto inedito di anna matta quattrocento sessanta sette membri è finalista al Premio "A. Delfini" di Modena. Poesie e racconti sono pubblicati in diversi siti e riviste (Alfabeta2, Il Verri, Atti Impuri, Nazione Indiana, Illustrati, Abitare).

Ecco un link con alcune poesie di Alessandra Carnaroli.















Stefano Guglielmin è nato nel 1961 a Schio (VI), dove vive e lavora come insegnante di lettere. Laureato in filosofia. Ha pubblicato le sillogi Fascinose estroversioni (Quaderni del Gruppo Fara, 1985, premio “poesia giovane”), Logoshima (Firenze Libri, 1988), come a beato confine (Book Editore, 2003, primo premio "Lorenzo Montano"), La distanza immedicata / The immedicate rift (Le Voci della Luna, 2006, finalista al premio "Montano" Verona, segnalato ai premi "Campagnola" di Padova e al "Gozzano" di Terzo, prov. Alessandria), C'è bufera dentro la madre (L'arcolaio, 2010, 2° class. al "Città di Adelfia", Bari; 3° class. all'"A. Osti" di Costa di Rovigo), Le volpi gridano in giardino (CFR Edizioni, 2013) e i saggi Scritti nomadi. Spaesamento ed erranza nella letteratura del Novecento (Anterem, 2001), Senza riparo. Poesia e finitezza (a cura di G. Fantato, La Vita Felice 2009) e Blanc de ta nuque. Uno sguardo (dalla rete) sulla poesia italiana contemporanea (Le Voci della Luna, 2011). È inserito in alcune antologie, fra le quali Il presente della poesia italiana, curata da C. Dentali e S. Salvi (LietoColle, 2006) e Caminos del agua. Antologia de poetas italianos del segundo Novecientos, a cura di E. Reginato (Monte Avila, 2008). Suoi saggi e poesie sono usciti su numerose riviste italiane ed estere e su siti web. Dirige le collane di poesia "Laboratorio" per le edizioni "L'Arcolaio", "Segni" per conto de "Le Voci della Luna" e, assieme a M. Ferrari e M. Morasso, "Format" della "Puntoacapo Editrice". Gestisce il blog di poesia "Blanc de ta nuque".

Ecco un link con alcune poesie di Stefano Guglielmin.

venerdì 19 aprile 2013

I cinquant'anni di Adelphi e "L'impronta dell'editore" lasciata da Roberto Calasso

Quando ho notato l'uscita di questo nuovo libro di Calasso ho pensato che volesse essere la risposta al momento delicato, a tratti indecifrabile, che l'editoria libraria sta attraversando, il tentativo di suonare la sveglia e dire "fermi tutti e riflettiamo" proveniente da uno dei principali artefici dell'editoria italiana ed europea. In parte sono ancora convinto che questo volume provi ad agire anche in tal senso, ma va detto che questo libro, che raccoglie scritti di varia natura, epoca e respiro, è anche una pubblicazione d'occasione per ricordare il mezzo secolo di attività della casa editrice che iniziò la sua avventura pubblicando tutto Nietzsche, stampato a costi oggi impensabili a Verona dal grande Mardersteig. Nel risvolto de L'impronta dell'editore (Adelphi, pp. 164, euro 12) lo stesso Calasso, autore di centinaia di risvolti  (si veda il suo Cento lettere a uno sconosciuto) e che in questo volume titola eloquentemente uno dei contributi Il risvolto dei risvolti, ci avverte: "La vera storia dell'editoria è in larga parte orale – e tale sembra destinata a rimanere. Una teoria dell'arte editoriale non si è mai sviluppata – e forse è troppo tardi perché si sviluppi ora. Andando contro a questi dati di fatto, ho provato a mettere insieme due elementi: qualche passaggio nella storia di Adelphi, quale ho vissuto per cinquant'anni, e un profilo non di teoria dell'editoria, ma di ciò che una certa editoria potrebbe anche essere: una forma, da studiare e da giudicare come si fa con un libro. Che, nel caso di Adelphi, avrebbe più di duemila capitoli."

Un passaggio chiave di questo denso risvolto firmato da Calasso è quello che nomina la "teoria dell'arte editoriale" e ne registra ormai un irrecuperabile ritardo. Ed emerge poi, senza alcun dubbio, quell'insistere sull'editoria come forma che caratterizza il modo di fare editoria e catalogo di Adelphi. Tutto ciò si ravvisa soprattutto nei primi due saggi del volume, I libri unici e L'editoria come genere letterario. Adelphi, quando esordì, combinava con un eclettismo apparentemente inspiegabile Nietzsche e la mistica indiana, Kubin e Abbott, Sant'Ignazio di Loyola e Artaud, l'etologo Lorenz e Kandinsky. Da queste scelte è evidente un assunto ricorrente, apparentemente frivolo ma fondamentale nella prosa di Calasso, vale a dire quello che vede l'editore come un mestiere divertente, convinzione che si ricava altrettanto bene anche dai ritratti appassionati di altri editori, con i quali Adelphi si pone in una sorta di gemellaggio. Questi ritratti costituiscono una parte fondamentale del libro, la terza, e indugiano su Giulio Einaudi, Luciano Foà, Roger Straus, Peter Suhrkamp e Vladimir Dimitrijević. Quello dell'editore è un mestiere dove è facile perdere un sacco di soldi, mette in guardia Calasso, ma in fondo anche uno dei mestieri più belli e divertenti che possano capitare. Nella visione più disincantata di Cesare De Michelis della Marsilio, anni fa, quando fu mio professore all'università, quello dell'editore era sostanzialmente il compito di "un operatore della logistica", espressione che forse raffredda gli animi, toglie il divertimento. A dire il vero con "logistica" si potrebbe ottimisticamente intendere non solo le questioni di produzione e distribuzione di libri, ma anche quella filiera, lunga e complessa, in fondo assai più affascinante e divertente della lotta tra distribuzione-rese-macero, che porta a immaginare i libri e le collane in vista di una proposizione al pubblico dei lettori. Resta il fatto che la logistica comunemente intesa occupa uno spazio ingombrante e spesso schiacciante nei problemi dell'editore attuale e mi verrebbe da aggiungere che già Aldo Manuzio ne sapeva qualcosa se inventò le "Aldine", precursori degli odierni tascabili.

La chiave del ragionamento di Calasso, e ciò che a mio avviso resta più impresso al lettore di questo libro a tratti assai avvincente, è proprio questo insistere, da più punti e prospettive, sul divertimento. Pensare a Boby Bazlen, nume tutelare della casa editrice Adelphi, alle sue passeggiate tra le bancarelle, all'ipotesi di un libro da fare quando ancora tutto (casa editrice, copertina, traduzione, pubblico da inventare ecc) è di là da venire, è una delle avventure più belle che possano capitare. Questo è condivisibile, e in fondo è evidente come si sia divertito Calasso a fare questo mestiere in questi primi cinquant'anni di Adelphi. E oggi? Torniamo quindi all'inizio di questo intervento, a quell'impressione che l'editoria stia attraversando un momento apparentemente indecifrabile della sua storia di forma e arte. In fondo le perplessità attuali dell'editoria non sono lontane da quelle del mondo nel suo complesso e forse dovremmo anche riconoscere che tutto un universo di conoscenza e conoscenze (un paradigma-libro?) che non parte da Gutenberg ma da ben prima (pensate soltanto a un Dante che parla del "libro della mia memoria") è messo in discussione dal flusso ininterrotto e liquido del digitale. Ci sono settori e altre arti, come quella della fotografia, dove il digitale è coinciso forse con una rivoluzione soltanto apparente, più legata a termini quantitativi che qualitativi. Nel mondo dell'editoria dovremmo forse interrogarci attorno alle questioni del lettore e della lettura che erano e rimarranno centrali sempre. Nel caso della vicenda Adelphi, è fin troppo chiaro che questa casa editrice ha saputo, attraverso i decenni, creare e plasmare un proprio lettore, assai fidelizzato, orgogliosamente ondivago, capace di passare dalla manutenzione della motocicletta di Pirsig alle neuroscienze di Edelman con una disinvoltura difficile da immaginare fino a poco tempo prima. Questo scatto in avanti è stato possibile in virtù della forza del catalogo, di questo concepire l'editoria come forma (forma simbolica, mi verrebbe da precisare, in omaggio a Cassirer, filosofo finora non contemplato da Adelphi). Anche per questi motivi Calasso parla di arte dell'editoria, più che di industria editoriale.

L'editore che ci racconta Calasso è senza dubbio un uomo o una donna capace di visione e prospettiva, che si diverte un sacco a immaginare un nuovo ecosistema editoriale fatto di autori, titoli, collane, copertine, lettori e che in alcuni casi riesce persino a mettere in piedi un'impresa redditizia, quasi un brand trendy. Si narrano infatti degli anni in cui le persone "colte" si davano appuntamento allo scaffale Adelphi, che poi nelle librerie tradizionali è quasi sempre quello più curato e rifocillato (oggi che il testimone sia passato ad altri? A Minimum Fax, ad esempio? Forse è passato anche il momento di Minimum Fax...). Il lettore disegnato e presupposto dalle scelte di Adelphi è un lettore seriale, collezionista (non a caso campeggia in bella vista il numero di volume nelle principali collane della casa editrice, la Biblioteca Adelphi e la Piccola Biblioteca Adelphi), fedele, in altre parole un lettore sempre più difficile da scovare negli scenari attuali, contraddistinti da instabilità somma. Parise, autore precipitato nel catalogo Adelphi soltanto negli ultimi anni, in un suo contributo si dilungava su Adelphi definendolo a più riprese, bonariamente e con stima, editore "snob". In fondo credo che uno scrittore elegante come lui sognasse di approdare nel catalogo di quella casa editrice. Ci è riuscito, come Gadda e molti altri negli ultimi lustri. Adelphi tra l'altro è l'unico editore italiano che fa notizia quando "include" qualcuno nel proprio catalogo, se ben ci pensate e a riguardo si potrebbe anche citare Ian Fleming e il recente Casino Royale. Per fare un passo indietro e concludere con Parise, chissà come recensirebbe oggi questo interessante libro del suo attuale editore chi dedicò al suo vecchio editore e "datore di lavoro", Livio Garzanti, un romanzo dal poco affettuoso titolo de Il padrone...

(Su temi parzialmente affini segnalo infine un contributo di Richard Nash su VQR).

martedì 16 aprile 2013

Giacomo Sandron ospite a Venezia a "La poesia del giovedì"

Nuovo appuntamento della rassegna veneziana di poesia curata da Giulia Rusconi e Maddalena Lotter. Stavolta si ritorna all'orario originario e la serata dedicata a Giacomo Sandron incomincia alle ore 19:00.


Giovedì 18 aprile 2013
Osteria da Filo, Venezia, h. 19:00
Presentazione e reading di Giacomo Sandron
Alla chitarra: Ulisse Fiolo
info: portalepoesie@gmail.com



Giacomo Sandron è nato verso la fine dell'estate del 1979. Ha studiato Filosofia a Trieste. È membro dell'Associazione Culturale Porto dei Benandanti di Portogruaro (Ve) con la quale ha organizzato varie edizioni di Notturni Di_Versi – piccolo festival di poesia e delle arti notturne. Amante della poesia “dal vivo”, negli ultimi anni ha partecipato a numerose letture pubbliche, performance, poetry slam, iniziative culturali, festival, specialmente in Nord Italia, Austria, Slovenia e Portogallo. Suoi testi sono presenti in qualche raccolta, in qualche rivista e su diversi siti web tra cui Absoluteville, Poetarum Silva e Nazione Indiana. Ha all'attivo le plaquette Triestitudine, autoprodotta nel 2007, Cossa vustu che te diga, pubblicata nell'estate 2010 dall'Associazione Culturale Culturaglobale, e La malattia professionale/Lato destro (Sartoria Utopia edizioni, 2012). È autore, assieme all’architetto Mauro Gentile, della trilogia di libri oggetto Germinal.

Per una selezione di testi di Giacomo Sandron rimando al sito "Poetarum Silva" e a questo link in particolare. Buona lettura e, a chi sarà presente a Venezia, buon ascolto. Queste poesie trovano infatti nella dimensione live, prima ancora che in quella silenziosa della pagina letta, la loro più ampia  e ricca valenza.

lunedì 15 aprile 2013

Marianna Martino ci racconta la nuova Zandegù offrendoci "i Bignè"

Librobreve intervista #14



Per me Zandegù significa prima di tutto un libro al quale mi ero affezionato, Cosa Faccio Quando Vengo Scaricato – e altre storie d'amore crudele di Simone Marcuzzi, autore di cui ho parlato qui. Zandegù è stata una casa editrice che ha pubblicato per prima bravi narratori, autori poi approdati anche ad esiti molto interessanti (lo stesso Marcuzzi, ad esempio, ha pubblicato per Mondadori Vorrei star fermo mentre il mondo va). Mi è quindi molto dispiaciuto, qualche tempo fa, leggere che la casa editrice chiudeva perché la situazione era diventata economicamente insostenibile. Allo stesso tempo mi ha incuriosito apprendere nella rubrica di Mirella Appiotti di TuttoLibri de "La Stampa" del recente rilancio del marchio editoriale, in una veste tutta digitale. Mi sono detto che sarebbe stato interessante seguire le vicende di una casa editrice giovane e fatta da persone giovanissime, nata su carta e poi risorta per pubblicare soltanto ebook. Quando ho letto il comunicato stampa di lancio della nuova collana I Bignè ho allora pensato che avrei potuto intervistare l'artefice principale di Zandegù, Marianna Martino (al centro nella foto), per sentire cosa bolle in pentola e quali sono i progetti in fase di sviluppo proprio in questi giorni, in cui è previsto il lancio della nuova collana di "bignami letterari a fumetti".

----

LB: Bignè/Bignami: c'è qualche motivo che riconduce a questa vicinanza nel nome originale scelto per la collana?
RISPOSTA: Bignè è il nome della nostra collana di bignami letterari a fumetti che inauguriamo il 15 aprile con Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, riletto dall’illustratrice romana Sicks. Bignè è un nome trino (ogni riferimento è puramente casuale!). Ha un’assonanza con i famosi libri brevi e veloci che tutti abbiamo usato a scuola, perché gli ebook di questa collana saranno una sorta di riassunto di classici della letteratura mondiale. Si riferisce ovviamente al dolcetto, perché i nostri ebook a fumetti sono rapidi da leggere e si mangiano in un boccone come pasticcini e, infine, è un nome ironico. Che poi l’ironia è il nostro marchio di fabbrica.

LB: Qual è il concetto che sta dietro alla progettazione di questa collana?
RISPOSTA: Volevamo metterci alla prova con un terreno non facile: quello dei fumetti e della grafica. Mondi che sono strettamente legati alla carta. Per questo, abbiamo deciso di puntare su pubblicazioni in ebook brevi, che altrimenti non avrebbero trovato collocazione nel mercato tradizionale. Inoltre, l’idea di far conoscere, anche se solo in pochissime tavole, libri culto ci piace moltissimo!

LB: Potresti raccontare brevemente com'è avvenuto il rilancio di Zandegù?
RISPOSTA: Dopo una pausa di 2 anni, abbiamo riaperto in versione totalmente digitale nel dicembre del 2012. Oggi pubblichiamo ebook e organizziamo corsi di scrittura creativa e professionale. Il digitale ci dà la possibilità di essere meno vincolati e di poter sperimentare di più con più creatività.  Come dicevo, puntiamo su libri brevi e divertenti: guide ironiche, reportage narrativi che indagano il mondo con sguardo intelligente e, ora, anche i fumetti. In questa nuova veste, puntiamo molto sui social, sul tenere il sito aggiornatissimo e sul contatto diretto con lettori e corsisti. E cerchiamo di sfruttare le potenzialità della rete con iniziative promozionali originali e particolari: come Sf*ama, dove in cambio di condivisioni, post e acquisti da parte dei nostri fan su Facebook, regaliamo premi di giovani designer. Questo mese abbiamo le ragazze di YouKnow e proponiamo le loro agende; il mese prossimo arriveranno i ragazzi di Mnmur, un’istituzione di Torino, con le loro borse e accessori in copertone riciclato molto trendy.

LB: Qualche giorno fa si leggeva di tagli in casa Feltrinelli. L'anno orribile dell'editoria è alle spalle o il 2013 per l'editoria tradizionale potrebbe andar peggio? E per chi ha scelto come voi di piantare i piedi nell'ebook quali le prospettive?
RISPOSTA: Recentissimamente l’associazione americana degli editori ha comunicato una crescita del settore dell’8,7% rispetto al 2012. E il dato interessante è che l’ebook segna un +160% di vendite! Chiaramente qui non è l’America, ma i dati sono confortanti e io credo davvero che si andrà sempre più verso il digitale (senza mai rinunciare al bello della carta, ovvio).

LB: In un mio post dedicato alle copertine e ad Anita Klinz dicevo che forse ebook è un nome "nato male". Sei d'accordo?
RISPOSTA: Ho letto il tuo articolo e in effetti è uno spunto interessante perché la parola “book”è legata a un oggetto ben noto e che esiste da tempo immemore. Sì forse hai ragione, ma ormai mi ci sono affezionata!

LB: In un passato comunicato stampa leggevo della volontà della casa editrice di toccare temi-tabù. Potresti riprendere quei passaggi?
RISPOSTA: Più che tabù, vorremmo, con la collana dei reportage, raccontare storie magari ancora poco note e che meritano di essere messe in luce (per esempio la storia del wrestler di Bovolone Jhonny Puttini o il reportage di prossima uscita dedicato alla comunità di sottotitolatori di serie tv e film). La speranza è migliorarci sempre più e scovare temi totalmente inediti e vorremmo anche allargarci al mercato internazionale con pubblicazioni in inglese, anche di autori stranieri.

LB: Per concludere potresti darci qualche anticipazione sulla collana I Bignè e su Zandegù più in generale.
RISPOSTA: Ti posso dire che Orgoglio e pregiudizio di Sicks, che pubblichiamo proprio nell’anniversario per i 200 anni dalla pubblicazione (avvenuta nel 1813), è il primo ebook di una trilogia dedicata alle eroine. A maggio e a giugno, dunque, arriveranno altri Bignè a fumetti con altre storie dedicate a donne che sono rimaste nel cuore dei lettori!
Zandegù inoltre avrà un maggio pieno: stiamo lavorando per organizzare una giornata interamente dedicata a noi con letture totalmente fuori di testa e il 17 maggio saremo presenti allo stand del Digital Festival al Salone del libro perché organizziamo una conferenza sui nuovi mestieri dell’editoria digitale. Come relatori, oltre alla sottoscritta, avremo Marco Drago di Laurana, Lele Rozza di Blonk e Marco Croella di Simplicissimus Book Farm. La giornalista Letizia Cavallaro modererà l’incontro. Per quanto riguarda i libri: stiamo progettando molte uscite, almeno 2 al mese fino a fine anno ma contiamo di aumentare. E stiamo lavorando al calendario per i corsi di narrativa e di scrittura digitale che partiranno in autunno.

sabato 13 aprile 2013

Ritorna "Illazioni su una sciabola" di Claudio Magris

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #14



Tante sono le vite di un libro, breve come questo Illazioni su una sciabola di Claudio Magris (Garzanti, pp. 80, euro 9,90) riproposto nella collana Garzanti Novecento. Se ci soffermiamo sulla pagina a sinistra, accanto al frontespizio, possiamo scoprire che questo libriccino è uscito prima nella "Rivista Milanese di Economia", poi a puntate ne "Il Piccolo", negli "Anelli" di Laterza, nella collezione "Filo di perle" delle mitiche edizioni Studio Tesi di Pordenone per poi approdare in Garzanti in varie collane, fino alla recente "tuta blu" di questa collana nella quale è uscito lo scorso mese di marzo.

Il fatto narrato è noto ma spesso ignorato: l'inganno tedesco ai danni dei cosacchi, aggirati e illusi di poter costruire nella regione montana della Carnia un loro stato alla fine della Seconda guerra mondiale, la cosiddetta "Kosakenland". Fatto noto, eppure marginale, come molti di quelli che accadono nelle aree di confine, nelle membrane geografiche delle guerre e delle mappe solcate dalle guerre, in quei fragilissimi cunei che si formano a ridosso della "pace". Il libro, che in quest'edizione ha la sola pecca di qualche refuso di troppo, è un altro grande contributo dello scrittore triestino al racconto del Novecento ed è esempio mirabile di quel tipo di opere che fondono con grazia quasi irripetibile ricerca storica e capacità narrative. Magris, in fondo, è anche questo e non serve nemmeno ribadirlo. E qui, fatto non trascurabile, riesce persino a fondere queste difficili arti in un libro esile e breve, che nulla toglie alla complessità della storia, ma che al contrario la esalta, rispettandola così maggiormente. Spesso invece questo tipo di tentativi di incrocio di narrativa e ricerca storica si dilungano in tomi ponderosi. Anche questo è un valido motivo per avvicinare Illazioni su una sciabola, se già non l'avete fatto in una delle molte e citate precedenti edizioni.

I misfatti e le efferatezze di cui furono protagonisti e anche vittime i cosacchi scesi dall'Austria nell'autunno del 1944, diretti in quella "terra promessa"in cui avrebbe inverosimilmente dovuto trasformarsi la regione carnica, sono parte della ricostruzione sghemba e originale che ne fece Magris, ponendo fine a un silenzio e un disinteresse generale sulla vicenda che durava da troppo. Lo scrittore dei Microcosmi ricorre alla forma della lettera scritta da un sacerdote ormai anziano, un "pensionato dello spirito" come si definisce, in missione in quei luoghi tra l'ottobre e novembre del 1944, con il compito proibitivo di sfruttare il proprio plurilinguismo per esercitare un certo controllo sulla situazione esplosiva dell'occupazione. Quest'espediente narrativo è ricco di (e in) prospettiva.

Il titolo recita "illazioni", mentre la "sciabola" è un dettaglio importante del racconto. Perché illazioni? Perché ciò che leggiamo sono dei ragionamenti dai quali il protagonista trae una conseguenza da una o più premesse che possono essere anche false. La ricerca di verità dello storico (e anche dell'autore di fiction?) è minata da questo incedere, da ragionamenti che possono trasformarsi in illazioni. Chi legge Magris sa bene come sia chiaro quest'assunto in tutta la sua prosa, da quella dei romanzi a quella giornalistica e d'occasione (non meno significativa, a mio avviso). La sciabola (l'elsa soltanto, per la precisione) è quella che riemerge al cimitero di Villa Santina, nel 1957, durante un'operazione di riesumazione. Se sia effettivamente appartenuta al comandante cosacco Krasnov non è dato a sapersi in quanto nient'affatto univoca è la versione sulla sua morte e tantomeno la data di questa. La sua figura è in sostanza sospesa nelle nebbie del mito.

Verso la fine leggiamo: “Quell’elsa affiorata fra le zolle mi fa pensare a quel tronco, che ora sarà ancor più cancellato, ma non ancora del tutto, mi fa pensare alla brevità ma anche alla durata della nostra vita e mi sembra conciliare il grande sì che diciamo al nostro tramonto, accettandolo serenamente, con la piccola resistenza che giustamente gli opponiamo, anche quando crediamo, come credo io, di essere sazi e stanchi di vita, perché anche un pomeriggio in più al caffè San Marco è poca cosa rispetto all’eternità ma è pur sempre qualcosa e forse non tanto poco”. Questo piccolo grande libro unisce ricerca storica e narrazione, passione per i fatti apparentemente marginali e la cosiddetta grande storia. E i cosacchi dove finirono? Furono come detto ingannati dai tedeschi e coll'avanzare dell'Armata Rossa divenne a loro chiaro che la fuga rimaneva l'unica soluzione. Cercarono pertanto riparo in Austria (da dov'erano prima scesi al fianco dei tedeschi) e lì si diedero agli inglesi, i quali, secondo le istruzioni di Yalta, li consegnarono al loro incubo, i sovietici. Molti cosacchi, per evitare questo, preferirono suicidarsi nella Drava, altri invece morirono dopo aver varcato il confine sovietico. Cosacco: dal polacco kozac, dal turco qazac, "vagabondo", recita il dizionario etimologico quasi ad accompagnare quest'altra tragedia della storia, intesa sia come tempo trascorso e come sua narrazione tra illazioni, verità, menzogna, il suo "non finire mai", le sue "prosecuzioni" (a tal proposito, resta il P.S. di Magris in fondo al libro).

mercoledì 10 aprile 2013

Ca' dei Ricchi a Treviso ospita Antonella Bukovaz e Luca Rizzatello per "TRA Versi"


Venerdì 12 aprile 2013 alle ore 21
Ca' dei Ricchi, via Barberia, Treviso
Rassegna di poesia "Tra Versi" - a cura di Marco Scarpa
con Antonella Bukovaz e Luca Rizzatello

Il prossimo appuntamento di TRA Versi, ben amalgamato e assortito dal curatore, prevede la presenza di Antonella Bukovaz e Luca Rizzatello. Il rumorista Massimo Croce e i video di Paolo Comuzzi accompagneranno Antonella Bukovaz, mentre le incisioni di Nicola Cavallaro saranno parte integrante del progetto presentato da Luca Rizzatello. Sarà un incontro un po’ atipico all’interno della rassegna, dove sarà possibile capire come alcuni autori uniscano la poesia dei loro libri, musica e suoni, video arte, installazioni, performance. 

Altre informazioni su quanto avviene a Ca’ dei Ricchi, nuovo spazio vivo e ricco di iniziative a Treviso, le puoi trovare sul sito di TRA - Treviso Ricerca Arte.













Antonella Bukovaz è originaria di Topolò-Topolove, borgo sul confine italosloveno, nelle valli del Natisone. Lì ha cresciuto le sue figlie e scritto poesie che sono confluite in un libro, Tatuaggi, edito da Lietocolle (2006). Dal 1995 ha partecipato a diverse rassegne di arte contemporanea in Italia e in Slovenia; dal 2005 si dedica prevalentemente alla poesia e alle interazioni tra parola, suono e immagine in forma di lettura, videopoesia e videoaudioinstallazione. Ha realizzato i suoi lavori collaborando con i musicisti Sandro Carta, Marco Mossutto, Hanna Preuss, Antonio Della Marina, Teho Teardo, Massimo Croce, Antonella Macchion. Per Storia di una donna che guarda al dissolversi di un paesaggio ha vinto il Premio Antonio Delfini 2009. Ha scritto per il teatro il poema breve Maipiù-Nikolivec rappresentato al Cankarjev dom di Ljubljana, al Teatro Miela di Trieste e alla Gekken galery di Kyoto. Suoi versi sono pubblicati su riviste web e cartacee. Nel 2011 ha pubblicato al Limite, editore Le Lettere, con dvd (video di Paolo Comuzzi, musiche di Antonio Della Marina), è uscita nell’antologia Poete a nord est, Ellerani editore e nell’antologia
Einaudi Nuovi poeti italiani 6. Del 2012 è la pubblicazione del librino koordinate per pulcinoelefante e del cd Casadolcecasa per Ozkyesound. Collabora alla realizzazione di Stazione di Topolò-Postaja Topolove. Insegna, in lingua slovena, nella scuola bilingue di San Pietro al Natisone. Vive a Cividale del Friuli.










Luca Rizzatello è nato a Rovigo nel 1983. Nel 2005 fonda con l'artista Nicola Cavallaro il laboratorio Prufrock spa, producendo un album musicale (Albus, -a, -um) e videoinstallazioni per reading poetici. Dal 2004 è giurato e coordinatore del Premio letterario Anna Osti di Costa di Rovigo. Nel 2007 pubblica il libro Ossidi se piove (Valentina Editrice). Nel 2008 cura la raccolta antologica Grilli per l’attesa – Una riscrittura di Pinocchio (Valentina Editrice), versione libresca del progetto di riscrittura per ambienti Make it Happening, elaborato con Federico f. (Father Murphy, St. Louis & Lawrence Books). Dal 2009 cura la rassegna "Precipitati e composti", per la promozione del rapporto tra composizione poetica e composizione musicale. Collabora con il portale Poesia 2.0, con la rubrica "tigre contro grammofono". Nel 2012 pubblica il libro mano morta con dita (Valentina Editrice), e fonda le Edizioni Prufrock spa.
prufrockspa.com
manomortacondita.wordpress.com
viveresenzapoesia.wordpress.com

lunedì 8 aprile 2013

Günther Anders su Kafka. Pro e contro

Ripescaggi #21



----
Kafka. Pro e contro di Günther Anders è un libro pubblicato da Quodlibet qualche anno fa (si trova ancora e costa € 14,50). Ripropongo qui una breve recensione che passai per il sito della rivista "daemon". Il saggio merita davvero l'attenzione di tutti coloro i quali si sono impiastricciati nell'opera dello scrittore boemo (credo non siano pochi). Per me è l'occasione per dire una cosa, cioè che l'opera kafkiana della quale ho un ricordo più nitido è America. Forse dipende dal quando e dal come si legge qualcosa di uno scrittore... Chissà se qualcun altro o qualcun'altra condivide questa predilezione per questo titolo spesso dimenticato.
----


Che Gregor Samsa si svegli una mattina e si ritrovi trasformato in uno scarafaggio non è poi sbalorditivo. Sbalorditivo è che questo fatto venga accettato come qualcosa di normale dal protagonista. Chi, durante la lettura de La metamorfosi, non ha fatto questo pensiero?
Nel 1934 il filosofo tedesco Günther Anders (1902-1992) è esule a Parigi. Invitato dall’Institut d’Études Germaniques della capitale francese, decide di tenere una conferenza sull’opera dello scrittore boemo, fameux inconnu, sconosciuto ai più tra i suoi ascoltatori (non a Hannah Arendt e Walter Benjamin), ma già un “mito” in ambito letterario. La conferenza mette letteralmente in guardia contro tutte le mode kafkiane e di critica kafkiana di cui sarà costellato il Novecento. La precoce analisi, condotta con grande finezza e acume, di quella meteora costituita dalla prosa kafkiana, è il fondamento di questo scritto politico, nell'accezione più profonda del termine ed esempio, tra gli altri, di quel filosofare en plein air che ha contraddistinto buona parte della produzione di Anders. Obbiettivi primari non sono tanto Kafka e la sua prosa, bensì tutte le letture estetizzanti che da questa sarebbero scaturite e che, con vista lunga, Anders previde. Basso continuo del suo ragionamento è l’inaccettabile e non legittimabile inversione tra colpa e pena, in qualsiasi contesto (sociale, politico, religioso) questa si trovi ad abbarbicare.

Che si condivida o meno quanto Anders ha pensato, questo rimane uno dei testi capitali, nonché più precoci, dell’ermeneutica kafkiana. Il volume, curato da Barnaba Maj, autore anche di un’incisiva postfazione, era già uscito in italiano. Quest’edizione, nel riportare in libreria un testo ormai introvabile, s’arricchisce della polemica, successiva alla prima pubblicazione del 1951, tra Günther Anders e Max Brod, figura ambigua e responsabile della trasmissione ai posteri di buona parte dell’opera di Kafka.

giovedì 4 aprile 2013

Laura Liberale ospite de "La poesia del giovedì" all'Osteria da Filo

Questa sera è in programma il nuovo incontro della rassegna veneziana curata da Maddalena Lotter e Giulia Rusconi. Stavolta l'Osteria da Filo ospita la voce di Laura Liberale. Chi volesse dare un'occhiata allo storico della rassegna può pigiare qui. Ricordo che le curatrici hanno aperto un nutrito blog a questo indirizzo.



Giovedì 4 aprile 2013
Osteria da Filo, Venezia, h. 18:00
Presentazione e reading di Laura Liberale
Alla chitarra: Ulisse Fiolo
info: portalepoesie@gmail.com



Laura Liberale, nata a Torino nel 1969, si è laureata in Filosofia con una tesi di Religioni e Filosofie dell’India e dell’Estremo Oriente. Dopo la laurea ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Studi Indologici. Dal 2006 tiene corsi e seminari di Scrittura Creativa (per adulti e per studenti di elementari e medie). Autrice di saggi indologici, insegnante e bassista, ha ottenuto riconoscimenti in svariati premi di poesia e narrativa. Nel 2009 ha pubblicato il suo primo romanzo, Tanatoparty (Meridiano Zero, Padova) e la silloge poetica Sari - poesie per la figlia (d'If, Napoli). Nel 2011 è uscita la raccolta di poesie Ballabile terreo (d'If). Le sue poesie si trovano nell’antologia Einaudi Nuovi poeti italiani 6. Il suo secondo romanzo, Madreferro (Perdisa ed.) è dell'anno scorso.

Riporto sotto un paio di testi di Laura Liberale e la copertina del suo ultimo libro di poesia, Ballabile Terreo (edizioni d'if, pp. 36, euro 8), un titolo molto bello che è anche (soprattutto?) anagramma del nome del padre.














Per cortesia, ne ascolti il suono:
adenocarcinoma
un settenario, dottore, dunque cantabilissimo.
Senta come s’impone, pagano e orfico
con le sue prime tre.
Come vada poi a strozzarsi sulla quinta
quasi prendesse di sé quel tanto di paura
(se prova a dirlo piano
è lì che in bocca fremono le salivari).
Con le restanti due tutto è compiuto
la chiusa del definitivo.
Ma ha mai pensato che fa rima
con pleroma e aroma?
Che abbia anch’esso tutta una pienezza
l’effluvio di se stesso o qualcos’altro?
Qualcosa che ci sfugge per terrore?

-

“Non fare quella faccia”
le tue ultime parole.
Così si chiude un dialogo
lungo trentacinque anni:
con un rimprovero esalato.
Nemmeno da morente
vuoi rinunciare al ruolo
rifiuti la muta di una pelle
ormai inservibile
fino all’ultimo ti ribadisci.
E dunque ancora mi proteggi da me
dagli occhi che divorano in angoscia
la tua morte
specchiandotela infami.
Proteggi e pure chiedi protezione
mi esigi madre e psicopompo
che spenga in volto le spie paurose
e per te accenda
la verosimiglianza della quiete.

martedì 2 aprile 2013

Intervista con Silvia De March in occasione della presentazione del Meridiano di Amelia Rosselli a Treviso

Librobreve intervista #13



Venerdì 5 aprile 2013 - ore 21
Libreria Canova di Treviso
Piazzetta Lombardi 1
Presentazione del Meridiano Mondadori
di Amelia Rosselli L'opera poetica
con Silvia De March e Paola Bellin

Proseguo con le segnalazioni di appuntamenti interessanti, in programma nelle vicinanze dei luoghi dove vivo e che hanno a che fare con i libri, all'insegna del motto che mi sono inventato or ora breve distanza/libro breve. Stavolta però il libro non è breve, visto che si tratta del Meridiano Mondadori contenente l'opera poetica di Amelia Rosselli. Tuttavia, l'utilità immediata di opere simili è quella di rendere possibile la lettura, in edizioni critiche e commentate da esperti, le tante opere di poesia - quelle sì quasi sempre brevi - divenute introvabili (pensate a un poeta come Sandro Penna ad esempio, del quale manca ancora un'edizione critica di riferimento dell'intera opera poetica). La vicenda editoriale dei libri di Amelia Rosselli coincide con questa situazione: da tempo molti libri erano divenuti introvabili o contenevano addirittura degli errori, com'è il caso dell'Elefante Garzanti su cui mi baso anch'io. 
Le domande di quest'intervista sono per Silvia De March, tra i maggiori "rossellisti" e autrice di una monografia innovativa intitolata Amelia Rosselli tra storia e poesia, uscita qualche anno fa per la casa editrice L'Ancora del Mediterraneo. Anche Silvia De March è stata convocata da Andrea Cortellessa nella squadra che ha reso possibile l'impresa di questo Meridiano. Proprio lo scorso 28 marzo Andrea Cortellessa ha ricordato Amelia Rosselli su Radio3 nel giorno dell'anniversario della nascita e rimando a questo link per la pagina descrittiva e il podcast della trasmissione. Sempre nell'ottica di segnalare risorse interessanti disponibili in rete, rinvio ad un lucido paper di Silvia De March sul rapporto tra Amelia Rosselli e Ingeborg Bachmann, contributo che stava alla base di una domanda che poi, per ragioni di spazio, abbiamo deciso di tagliare. Prima di lasciare parola a Silvia De March ricordo infine Enzimi, il notevole progetto tra arti visuali, musica, danza e teatro del quale l'intervistata è coordinatrice.

LB: Nel 1963 si registra l'esordio in poesia della Rosselli, le 24 poesie uscite su "Il Menabò". Il Meridiano dedicato ad Amelia Rosselli, che andrete a presentare alla libreria Canova di Treviso il 5 aprile, è uscito nel 2012 ed è frutto di un lavoro corale. Oltre alla curatela di Stefano Giovannuzzi e allo sguardo concentrato di Emmanuela Tandello, sua traduttrice in Sleep, molti studiosi si sono spesi per la sua riuscita. Potresti brevemente ricordare il compito di ciascuno dei curatori e soffermarti infine sul tuo compito specifico?
RISPOSTA: Una caratteristica inedita per la collana Meridiani Mondadori è stato proprio il lavoro di équipe, concepito da Andrea Cortellessa, per realizzare un'opera capitale come questa integrando gli apporti delle migliori risorse specializzate. Il ragionamento di base era semplice e molto affine al processo che ha guidato il lavoro collettivo di Parola plurale: radunare in questo caso i rossellisti più incalliti e qualificati e affidare a ciascuno la responsabilità di una parte, quella per cui si erano distinti, esponendoli ad un reciproco confronto costruttivo. Oltre agli studiosi da te citati, sono stati coinvolti Chiara Carpita, Francesco Carbognin, anch'essi italianisti che hanno dedicato la propria carriera di ricerca alla Rosselli, e Gabriella Palli Baroni, già autrice del Meridiano di Bertolucci. Ciascuno di loro ha curato la raccolta che meglio aveva studiato, mirando ad avvicinarsi alla volontà d'autore e arricchendo gli apparati di quelle considerazioni che nutrirebbero un'edizione critica. Io, invece, ho proseguito la ricostruzione delle vicende biografiche dell'autrice, al di là della soglia del mio libro precedente, che si assestava all'inizio degli anni '60, su Variazioni belliche.
È sempre difficile avere a che fare con grandi opere editoriali: la libertà di intervento è ridotta, l'organizzazione ben calibrata. In questa prospettiva un po' tutti gli studiosi coinvolti hanno rinviato a pubblicazioni future di quel "surplus" di ricerca che non ha potuto confluire nel Meridiano. Mi sembra un buon compromesso pragmatico, che può anzi mantenere il Meridiano alla funzione libro e spostare il dibattitto letterario, spesso estraneo al lettore comune, su altre sedi.

Un suo singolare 
libro breve: 
Serie ospedaliera
LB: Restiamo per poco ancora sull'antitesi del libro breve, il Meridiano, opera che spesso però raduna tanti libri brevi. Ricordo che Andrea Zanzotto, poeta da te amato e che a sua volta ha elogiato la tua monografia sulla Rosselli, brontolava sempre, in quel suo modo simpatico e toccante al tempo stesso, contro la "forma Meridiano". Anche se in fondo costituiva un approdo importante e canonizzante, usciva spesso dicendo che nel suo caso era arrivato troppo presto, quasi come "una pietra sopra" e finiva a lamentarsi persino del formato "poco arioso", dove era difficile far rientrare l'esuberanza segnica che si incontra ad esempio sulla pagina de Il Galateo in Bosco. Diverso il caso della Rosselli, per la quale il Meridiano arriva post-mortem. Ti è capitato di riflettere su questa forma-libro del Meridiano? Siete soddisfatti del risultato o lavorare ad opere così grandi comporta sempre qualche inevitabile rimpianto o ripensamento ex post?
RISPOSTA: Il Meridiano è senz'altro una forma fossilizzante; se l'opera è in divenire, ovvero se gli autori sono viventi, la iberna, le infligge un oltraggio. Tuttavia, nel caso di Zanzotto ha consentito - pur con un dispendio di fatica non commensurabile - di risalire precisamente alla volontà d'autore, che poteva egli stesso ancora chiarire. Senz'altro la ricerca scientifica è stata implementata dalla testimonianza diretta e precisa, col limite di essere forse condizionata nella sua oggettività. Il rapporto tra gli autori e i propri testi e le varie loro versioni è sempre controverso. 
Inoltre, Zanzotto, a proposito dei Meridiani di Pasolini, denunciava una sorta di "abuso" perché "Pasolini non avrebbe mai conservato o dato valore a così tante carte".
Il limite di una restituzione fedele alle intenzioni formali dell'autore è stato evidente anche nel caso Rosselli: il principale timore iniziale era che il formato del Meridiano sacrificasse il verso lungo dell'autrice, con rimandi a capo poco rispettosi dell'occupazione dello spazio (considerando poi la rilevanza degli Spazi metrici, saggio della Rosselli sul rapporto tra metrica, ritmica e geometria). Il risultato tipografico ha superato invece le aspettative iniziali, presentando pochi casi di adattamento. Ciò che invece non si è potuto allineare alla veste del Meridiano è stata la concezione originaria di Serie ospedaliera. Si tratta di una raccolta edita nel 1969 da Il Saggiatore, impresa ardita di Alberto Mondadori, figlio di Arnoldo. Soltanto lui, a differenza di Garzanti o Feltrinelli, aveva accettato di stampare trascrivendo i caratteri della macchina da scrivere IBM utilizzata dalla Rosselli: su di essi, l'autrice aveva fatto uno studio matematico per trovare lo spazio che corrispondesse alla giusta unità di tempo e potesse definire il lato di un quadrato che contenesse e limitasse il testo poetico. L'edizione originale è assolutamente sui generis ed è stato un peccato non poterla riprodurre nel Meridiano.
Si attendeva da circa un decennio che la Rosselli rientrasse in questa collana. Innanzitutto perché  la precedente edizione integrale nella linea economica della Garzanti era fuori catalogo e non risultava nemmeno corretta. Le singole raccolte, a bassa tiratura, stavano diventando introvabili. Chi avesse voluto confrontarsi coi testi della Rosselli avrebbe dovuto avventurarsi tra scaffali isolati di biblioteche sepolte e disperse. Per chi intendesse avvicinarsi alla lettura con intento di studio ed analisi approfondita mancava dunque uno strumento necessario.
L'attenzione su di lei si è notevolmente accesa dal 2006, decennale dal suo suicidio, in cui sono comparse diverse pubblicazioni. Ma anche negli anni precedenti proprio questo suo gesto aveva fatto rivalutare molto la sua figura, sempre ai margini della scena letteraria. Il senso di colpa del mondo letterario si è commisto ad altri sentimenti agiografici talvolta parassitari, ispessendo un'aura orfica che non ha giovato ad una lettura attenta.
Il Meridiano ha il merito di restituire il testo e ricostruire vicende biografiche ed editoriali con oggettività.
Soprattutto riconosce il valore assolutamente originale e al tempo stesso rappresentativo della Rosselli, svincolandola da letture che l'hanno relegata alla dimensione della bizzarria formale.


La copertina del libro
di Silvia De March
LB: Addentriamoci ancor di più dentro il libro (più) breve della puntata, il tuo Amelia Rosselli tra storia e poesia, uscito per L'Ancora del Mediterraneo nel 2007. Questo studio si caratterizza per un approccio innovativo, pur nascendo da un momento "canonico" della vita universitaria qual è quello della tesi, con la quale è difficile essere innovativi o, peggio ancora, secondo il costume accademico, "eretici". Ci racconti di come ha preso forma in te, quali le premesse, quali le sorprese strada facendo? A mio avviso un aspetto innovativo si ravvisa già nel titolo, il quale, nell'apparente ma sibillina semplicità, inserisce quel binomio assai problematico di "storia e poesia"... 
RISPOSTA: L'incontro con Amelia Rosselli fu assolutamente casuale. Rientrava in un mio folle percorso di catalogazione sistematica della poesia degli anni Cinquanta, a cavallo tra neorealismo e nuovi sperimentalismi. Ci arrivai per caso senza averne mai sentito parlare prima e senza conoscere la sua provenienza famigliare. Ricordo benissimo il giorno in cui la lessi per la prima volta. Fu per me folgorante: ogni altra ipotesi di ricerca fu d'emblée stralciata dalla potenza della sua figura e della sua scrittura e dalla molteplicità di sollecitazioni che aveva innescato.
Fu una tesi assolutamente formativa, che mi schiuse ambiti anche lontani, come la storia della musica nel Novecento, oppure l'ingresso della psicanalisi in Italia, la densità di contenuti del dibattito nel pieno della Ricostruzione dell'Italia.
La scelta rispondeva ad una mia propensione, che andava chiarendosi, verso scritture letterarie impegnate nella ricerca formale e al tempo stesso nella pregnanza di contenuti d'urgenza attuale. I temi trattati acquisivano spessore proprio grazie ai meccanismi letterari che ne innescavano le potenzialità comunicative. L'originalità della forma faceva la differenza letteraria e misurava anche l'"impegno" nella testimonianza della realtà.
Tra il 2004 e il 2006 si poteva ancora parlare di "approccio innovativo" perché il mio studio fu il primo, nel panorama rosselliano, a spostare l'attenzione dalla descrizione stilistica all'interpretazione ermeneutica a partire da una ricostruzione realistica e storica del mondo che l'autrice intendeva esprimere. Avere il coraggio di dire "cerchiamo di capire cos'ha da dirci Amelia" nel 2004, nell'estrema provincia dell'impero, certo, sembrava eretico, specie in ambito accademico dove non era consentito trattare autori del Nocecento su cui pagine critiche dovevano ancora essere scritte da altri. Più complessivamente fino ad allora sulla Rosselli erano state prodotte soltanto esercitazioni di analisi morfologica. Sembrava mancasse la legittimazione a indagare il messaggio dell'autrice incluso nel miracolo della sua forma.
La mia pubblicazione è stata salutata favorevolmente nel mondo dei rossellisti e ha schiuso o meglio anticipato una serie di pubblicazioni orientate all'indagine dei contenuti. La ricostruzione del background storico-culturale della nostra restituiva tridimensionalità e complessità ad una voce troppo sottile quanto pungente. Ciò è stato possibile raccogliendo una varietà di testimonianze di conoscenze dirette, estranee al mondo letterario e legate soprattutto alla sua formazione. Ma soprattutto ho ricevuto per prima e in via esclusiva l'autorizzazione di accedere all'archivio privato di Amelia Rosselli depositato al Centro di Tradizione Manoscritta di Pavia, prima precluso dal vincolo di riservatezza. L'operazione è stata resa possibile grazie alla fiducia accordatami dalla famiglia Rosselli. Il contatto diretto con la scrittura privata di Amelia, in particolare con le lettere inviate al fratello, ricordo che è stato caustico perché evidenti erano le stigmate della patologia schizofrenica. Si trattava di un ampio materiale che consentiva di ricostruire quasi la sua quotidianità, collocando precisamente esperienze, incontri, viaggi accanto alla riflessione sulla sua opera poetica.
È quindi stato naturale dedicare una parte del mio studio all'interpretazione dei testi come forme di sporgenza di quel parterre che via via mi si chiariva. Alla mia interpretazione, che considerava la rilevanza e l'imminenza della politica nell'orizzonte della poetessa, si è spesso attribuita una marca "ideologizzante", senza volersi confrontare con la realtà dei fatti: Amelia Rosselli ad ogni sua presentazione (oggi consultabili nella raccolta di interviste È vostra la vita che ho perso, volume curato da me e Monica Venturini per Le Lettere) forniva alcuni elementi fissi, come se interpretasse un canovaccio; tra queste costanti c'era il fatto di essere figlia di Carlo Rosselli e di essere comunista. Evidentemente sono elementi centrali nella costruzione della propria immagine autoriale e della propria prospettiva esperienziale. Sta a noi appiattirli ad una lettura ideologica oppure interpretarli alla luce di una contestualizzazione.


Il libro
di Giulio Ferroni su
Giudici e Zanzotto
LB: Per concludere vorrei frugare all'interno della tua duratura attenzione verso la scrittura poetica e lanciare idealmente qualche ponte per proseguire la lettura. Quali secondo te le esperienze più significative nel panorama attuale, non necessariamente soltanto italiano? Quali sono le aperture per le quali sei debitrice ad Amelia Rosselli e quali le tue ultime "conquiste"?
RISPOSTA: Il discorso è piuttosto complesso. La curiosità letteraria di Amelia Rosselli fu gravemente compromessa dalla sua malattia, che non le lasciava molti spazi mentali ed energie emotive per svolgere la funzione di intellettuale vigile che essa stessa si era prefissa, subendo poi un forte senso di impotenza. Senz'altro per definire la sua collocazione e comprendere la sua formazione mi sono schiusa la lettura di molti suoi contemporanei e alcuni autori inglesi per lei di riferimento, a partire da Dylan Thomas.
Grazie a lei non mi è più parso chiaro il limite tra soggettivismo e oggettività che è divenuto parte strutturante della mia ricerca. La Rosselli muove dalla lirica trovando ogni forma che possa ridimensionare l'io: lo spazio metrico cubico, l'affidamento all'I Ching nella composizione, la misura del tempo e dello spazio geometrico, i mandala, la metrica atonale e quindi universale. A cavallo tra la I e la II guerra mondiale, inizialmente in ambito anglosassone, poi anche nel cuore dell'Europa e in Italia, un insieme di ricerche mirano a desoggettivizzare la scrittura oppure oggettivizzare il vissuto soggettivo, pur mantenendo un legame inscindibile con l'esperienza della realtà. Sono scritture che sfidando l'interpretazione più meramente fattuale del realismo e ciò che mi affascina è la controversa fedeltà alla restituzione della realtà di cui si è sintomo.
Se dovessi invece valutare l'influenza letteraria della Rosselli sulle generazioni successive dovrei aprire un capitolo dedicato a questioni di ricezione in relazione ai momenti precedenti o successivi alla canonizzazione. Senz'altro la Rosselli è stata molto nota trasversalmente nell'ambiente romano. Ma la sua circuitazione libraria era assai di nicchia e si è spesso ribadito come la Rosselli vivesse ai margini della società letteraria. Poetesse oggi mature hanno scritto anche in mancanza della sua conoscenza diretta, pur raggiungendo risultati degni di nota anche all'interno della famiglia degli sperimentalisti.
La canonizzazione di Amelia Rosselli all'interno di antologie scolastiche è cominciata intorno ai tardi anni Novanta, grazie in particolare al magistero di un critico tetragono come Luperini. La sua più ampia divulgazione coinvolge dunque generazioni che cominciano ora ad esprimersi o che sono a venire.
Difficile concludere indicando le esperienze più significative del panorama attuale: è appena morto il Novecento italiano - Zanzotto, Pagliarani, Giudici - e riferimenti esterni come la Szymborska lasciano il vuoto. Le loro stature si sono consolidate per accrescimenti successivi. Occorre tempo per maturare altezze e stagliarsi in prospettiva.