giovedì 27 febbraio 2014

La vita e l'opera di Diego Valeri nell'efficace ricostruzione di Matteo Giancotti

Ci sono forti lacune nella biografia di Diego Valeri (1887 - 1976). Lo stesso poeta e professore nato a Piove di Sacco schivò durante tutta la sua vita le occasioni per rendere più serrate le maglie di una cronologia che tuttora si fa fatica a stringere. A mettere in ordine appunti e studi approfonditi ci prova però Matteo Giancotti, che per la collana "Ottonovecento a Padova", nuova proposta dalla casa editrice il Poligrafo diretta da Mario Isnenghi, ha saputo ripercorrere seguendo il più semplice e il più insidioso dei criteri, quello cronologico, le tappe fondamentali della vita dell'uomo. Ogni fase sembra aver trovato spazio in questo studio intitolato semplicemente Diego Valeri (pp. 188, euro 18): l'infanzia e gli studi, l'episodio giustamente ritenuto fondamentale della morte del fratello maggiore, il pittore Ugo, probabilmente suicida nel 1911, la famiglia di provenienza e quella alla quale diede vita il poeta, il vasto peregrinare (impensabile per certi prof d'oggi, pur tra i più "mobili"!) del neoprofessore di liceo dopo la laurea, l'impegno intenso di pubblicista e giornalista uniti a quello politico, i viaggi e l'esilio dopo la caduta del Fascismo, le stagioni della scrittura e quelle dell'insegnamento universitario, le relazioni letterarie nazionali e internazionali, i libri scritti e quelli studiati, le traduzioni e la morte del poeta. La prosa di Giacotti abbraccia tutta una vita con l'attenzione e il rigore che la scelta del criterio cronologico, a torto ritenuto il più facile, sempre richiede.


Diego Valeri con Ezra Pound
Oggi che c'è la rete e che ci sembra facile, rapido e finanche scontato costruire una trama di relazioni umane e letterarie di un certo tipo, non pensiamo alla fatica fatta da Valeri (un primato il suo, davvero) nel costruire moltissimi ponti verso altre zone d'Italia e del mondo. Credo che una delle tante motivazioni della grande stima che Andrea Zanzotto, suo allievo degli anni difficili a Padova, ha continuamente testimoniato in vita e in morte del poeta sia dovuta al quasi ciclopico tentativo di sottrarre il Veneto e il Nordest d'Italia da una sorta di isolamento nel quale, periodicamente, sembra ripiombare. Le antenne di Zanzotto erano sensibilissime a questo problema. Va finalmente riconosciuto questo merito nient'affatto secondario di Valeri ed è questo, a mio avviso, anche uno dei meriti principali di questo lavoro paziente di Giancotti. Prova ne sia il modo in cui Giancotti esordisce, citando un Montale un po' sopra le righe, che prova a sminuire, quasi a "provincializzare", il poeta veneto in vista di una posizione di prestigio internazionale alla quale sono entrambi candidati e il modo in cui "il ligure" risarcisce Valeri, in un passaggio riportato nella parte finale di questo volume. E prova sia di questo grande merito del poeta padovano-veneziano, il fatto che ancor oggi uno scrittore come Gian Mario Villalta, che pure dirige pordenonelegge, cioè la manifestazione che è diventata negli anni il principale festival letterario della penisola, si sente di dover scrivere un libro, dal titolo evidentemente redazionale ma significativo, di Padroni a casa nostra. Perché a Nordest siamo tutti antipatici.

Naturalmente molti altri sono gli spunti per avvicinare questo libro che diventa quasi la prima biografia intellettuale del poeta. Giancotti è attento al contesto editoriale in cui il suo studio si situa, ovvero una collana tutta dedicata a una città, alla sua storia passata, a una città simbolo di tante cose. E di certo non va fuori tema perché trascinato dal calibro della figura di cui sta scrivendo. Già... Padova. Scrive Isnenghi nella presentazione, tra le altre cose, "Ottonovecento a Padova: questo il nostro ambito. Profili ambienti istituzioni: il ventaglio degli approcci, fra persone e luoghi identificati come quelli che definiscono e strutturano una storia. Una non piccola storia, una storia non minore: con una grande università, un grande santo, una grande piazza, un grande caffè... I ritratti stereotipati qualche volta tradiscono, lasciando fuori troppe cose; ma un po’, anche, ci pigliano, dando alveo e direzione allo sguardo." E così il volume di Giancotti, ritratto tutt'altro che stereotipato, diventa l'occasione per rileggere aspetti del Novecento padovano e della storia d'Italia recente. Si ritrovano pure certi nomi, come quello di Paola Drigo, l'autrice di Maria Zef. Il senso dei luoghi attraversati da Valeri è ricostruito minuziosamente. E allora arriva non soltanto la Padova che presta il titolo alla collana, ma anche Cremona, Roma, Parigi, il campo di Mürren, nello Jungfrau durante l'esilio assieme ad Amintore Fanfani, Dino e Nelo Risi e Giorgio Strehler (riporto in fondo una poesia dedicata a questo passaggio) e quindi Venezia, l'insostituibile Venezia, l'altra sua città.


 Officina Meccanica della Stanga
Per concludere vorrei elencare quelli che sono o saranno i luoghi, le persone e l'immaginario che ha già affrontato o che s'appresta ad affrontare la collana diretta da Isnenghi: il caffè Pedrocchi, la libreria Draghi Randi, i Vivai Sgaravatti, Alfredo Rocco, Tono Zancanaro, il Teatro Garibaldi, il Santo, Luigi Pellizzo vescovo a Padova, la Fiera, la Banca Antoniana, Palazzo Papafava, il Teatro Verdi, La Zedapa, i Colli, il Liceo Tito Livio, il Vescovo Bordignon, il Seminario, il Rettore Carlo Anti (inevitabilmente spesso citato anche nel lavoro di Giancotti), l’Antonianum, la Sala della Gran Guardia, la Breda, il Bacchiglione, le Officine Meccaniche della Stanga, Luigi Luzzati e Leone Wollemborg, il Museo Bottacin, Stefania Omboni, Filomena Cuman e Bona Viterbi. C'è da augurarsi che un'operazione editoriale del genere, lungi dal diventare motivo di schiacciare il presente sotto il peso di un passato controverso,talvolta glorioso talvolta ingombrante, diventi invece vero stimolo per ripercorrere anche l'attuale trasformazione della città, da altre angolature e da nuove altezze fotografiche. In fondo credo ce ne sia bisogno, e non solo a Padova. Nuove intelligenze e un grande coraggio sono necessari per vivere nella nostra epoca. Serve un rinnovamento radicale e quindi fors'anche ereticale dell'intelligenza. Al di là di questi conclusivi pensieri, urge, lì come altrove, e non solo nel nostro paese, un rinnovamento assiologico, il ritrovamento di architetture mirabili, su tutti i fronti del vivere e del pensare, come a ridare finalmente vita a quella progettualità che ci sembra per sempre sfuggita di mano, come a ridare forma ad un nuovo... Palazzo della Ragione.


CAMPO DI ESILIO
di Diego Valeri

Percossi sradicati alberi siamo,
ritti ma spenti, e questa avara terra
che ci porta non è la nostra terra.
Intorno a noi la roccia soffia vènti
nemici, fuma opache ombre di nubi,
aspri soli lampeggia da orizzonti
di verdi ghiacci. Le nostre segrete
radici, al caldo al gelo, nude tremano.
E intanto il tempo volge per il cielo
i mattini le sere: alte deserte
stagioni; e i lumi del ricordo, e i fuochi
della speranza, e i pazzi arcobaleni.
Come morti aspettiamo che la morte
passi; e l’un l’altro ci guardiamo, strani,
con occhi d’avvizzite foglie. E un tratto
trasaliamo stupiti, se alla cima
di un secco ramo un germoglio si schiuda,
e la corteccia senta urgere al labbro
delle vecchie ferite un sangue vivo;
tra le nubi scorrendo un dolce vento
di primavere nostre.

martedì 25 febbraio 2014

Umberto Fiori a Treviso a Ca' dei Ricchi per "TRAversi 2" (e l'Oscar Mondadori "Poesie 1986-2014")



Venerdì 28 febbraio 2014 alle ore 21
Ca' dei Ricchi, via Barberia 25, Treviso
Rassegna di poesia "TRAversi 2" - a cura di Marco Scarpa
con Umberto Fiori



Da qualche settimana è uscito l'Oscar Mondadori intitolato Poesie 1986-2014 (pp. 272, euro 20, a cura di Andrea Afribo) e così Marco Scarpa ha pensato bene di invitare Umberto Fiori a Treviso, nell'ambito della rassegna di poesia "TRAversi 2", che cura negli spazi di Ca' dei Ricchi  e TRA - Treviso Ricerca Arte. Non credo abbia senso spendere molte parole su chi è Umberto Fiori. L'esperienza con il gruppo musicale degli Stormy Six, quella di poeta pubblicato segnatamente dalla casa editrice Marcos y Marcos fino all'esordio ne Lo Specchio di Mondadori nel 2009 con Voi: per il pubblico molte sono state le occasioni di incontrare la sua scrittura e la sua voce, che poi difficilmente si dimentica, tanto resta attaccata, tanto è aderente. Ma vorrei qui aggiungere anche un altrettanto interessante percorso di saggista, perché si parla poco di libri come La poesia è un fischio o di un libro di taglio completamente diverso eppure così interessante come Tutto bene professore? Croci e delizie del corpo docente uscito per Baldini&Castoldi. Non trovate che un poeta si vede e si scopre meglio anche al di fuori del recinto della poesia?

PER STRADA
Se all’angolo una signora
-o magari un vigile-
si volta
con la faccia scavata dalla luce
della bella giornata
e parla –proprio a me,
a me, qui- del rispetto che si è perso
o del caldo che fa,
io mi sento mancare, come un santo
quando lo sfiora l’eternità.

Sento le piante crescere, sento la terra
girare. Tutto mi sembra forte e chiaro, tutto
deve ancora succedere.

(da Chiarimenti, 1995) 
SCIVOLO
Spazio giochi, ai giardini. Una signora
issa in cima allo scivolo una palla
di carta di giornale, le dà un bacio:
«Pronti… partenza… via!». Un’altra tiene
per mano un abat-jour, gli sistema
le frange di ciniglia. «Mia figlia,
vedesse che ballerina…
Ha già vinto due premi».
«Pensi che il mio – tre anni – sa già scrivere…».

Le ascolta una ragazza, lì in coda
col suo bambino. Gli stringe forte la mano,
e spera che nessuno
si accorga che è vero, e vivo. 
(da La bella vista, 2002)  Umberto Fiori è nato a Sarzana nel 1949.
Dal 1954 vive a Milano, dove si è laureato in filosofia. Negli anni ’70 ha fatto parte, come cantante e autore di canzoni, degli Stormy Six, gruppo storico del rock italiano. In seguito ha collaborato con il compositore Luca Francesconi (per il quale ha scritto due libretti d’opera, Scene e Ballata, e numerosi altri testi), con il fotografo Giovanni Chiaramonte e con i videoartisti di Studio Azzurro.
E’ autore di saggi e interventi critici sulla musica (Scrivere con la voce, 2003) e sulla letteratura (La poesia è un fischio, 2007), di un romanzo, La vera storia di Boy Bantàm (2007) e del Dialogo della creanza (2007). Del 2009 è Sotto gli occhi di tutti, un cd di canzoni tratte dalle sue poesie, in collaborazione con il chitarrista Luciano Margorani. Il suo primo libro di poesia, Case, è uscito nel 1986 per San Marco dei Giustiniani. Sono seguiti, per Marcos y Marcos, Esempi (1992), Chiarimenti (1995), Parlare al muro (con immagini del pittore Marco Petrus, 1996), Tutti (1998) e La bella vista (2002). L’ultima raccolta è Voi (Mondadori, 2009), ora inclusa, insieme a tutte le sue poesie e ad alcuni inediti, nell’Oscar Mondadori appena uscito.

domenica 23 febbraio 2014

"Trilobiti" di Breece D’J Pancake

Ripescaggi #32

La cronaca: Breece Dexter Pancake (la sigla D’J apparve per sbaglio, per un errore presente nelle bozze del primo racconto pubblicato e volutamente non corretto dall’autore) nacque nel 1952 in West Virginia. Morì suicida a soli 26 anni nel 1979 a Charlottesville. 

Il suo esordio avvenne nel 1976 con il racconto Trilobites pubblicato sull’Atlantic Monthly. Stories of Breece D’J Pancake uscì solamente quattro anni dopo il suicidio, nel 1983. Ci sono stati gli estremi per parlare di caso letterario. Joyce Carol Oates provò a paragonare il suo debutto a quello di Hemingway, Kurt Vonnegut lo esaltò senza mezzi termini, J.T. Leroy disse di leggere Pancake ogni giorno e l’ineguagliabile Tom Waits parlò di Pancake come del suo scrittore preferito. Serve senza dubbio vedere più a fondo, al di là di questi pur importanti e autorevoli giudizi. Pancake non va introdotto come un caso letterario, amplificato dalla precoce scomparsa e dal tardivo riconoscimento (anche al di fuori dell’America): troppo grande sarebbe la perdita di prospettiva e di contatto con il ‘nudo testo’.


L’opera (Trilobiti, Isbn Edizioni, 2005, euro 13, attualmente non più reperibile nella prima edizione illustrata dalla foto in alto, ma disponibile a 9 euro nella collana "Reprints" di Isbn): queste magnetiche dodici short stories hanno il fascino dell’elegia, di quell'indescrivibile sentimento che abbiamo imparato a riconoscere nella migliore letteratura america post recessione. Pancake scrive di cacciatori, marinai, minatori, allevatori. C’è un senso della precarietà che, combinato agli evidenti sforzi di riconciliazione con la propria terra d’origine e con le persone che la popolano, fanno parlare queste prose con la nostra memoria di persone lontane miglia e miglia, spazialmente, temporalmente e culturalmente, da Pancake e dai suoi personaggi. Pancake deposita in dodici racconti il fluire della vita di quella regione d’America. Dopo averlo letto è più facile (e forse banale) ribadire l’urgenza di una narrativa che si confronti con la realtà della memoria più prossima e che rielabori il vissuto, trovando in questo i modelli e i ‘giusti’ impianti della narrazione.

(Recensione apparsa sulla rivista "daemon" nell'anno 2005).

giovedì 20 febbraio 2014

"Pastorali" di John Taggart nella traduzione di Cristina Babino

Dobbiamo a Cristina Babino questa nuova tappa di avvicinamento all'opera del poeta americano John Taggart (Perry - Iowa, 1942). E dopo quanto appreso in questa bella e ricca intervista pubblicata mesi fa su Librobreve, ora possiamo contare sul volume intitolato Pastorali che l'editore marchigiano Vydia mette a disposizione dei lettori italiani (testo inglese a fronte, pp. 250, euro 15; nella stessa collana Dieci bozze di Rachel Blau DuPlessis tradotto da Renata Morresi). Diciamo subito una cosa: è bello, positivo, quando si instaura tra poeta e traduttore un rapporto che va oltre la mera conoscenza ai fini della traduzione. Cristina Babino conosce John Taggart, si sono incontrati, si scrivono per dubbi, per scambiare fotografie. Lei ha bisogno delle fotografie dei ponti coperti che resistono nella zona rurale dove Taggart attualmente vive con la famiglia, Newburg, nella Cumberland Valley (Pennsylvania). Lui manda a lei risposte su carta che passano sopra l'oceano e arrivano ancora intrise dell'odore di pipa. Si sono incontrati, hanno ascoltato assieme musica e lui le ha intimato di alzare il volume durante una canzone di Janis Joplin. Questo e altri aspetti che rinviano all'amicizia, non scontati, ci permettono di rivolgerci con più fiducia al lavoro di cura e traduzione.

Lo stesso Taggart e poi la stessa curatrice mettono in guardia il lettore. Questa è poesia che andrebbe letta ad alta voce. E qui si potrebbe aprire una parentesi sterminata, che parte dalle origini orali della poesia (e pensiamo, in Italia, al lavoro di Ida Travi), passa per le sue derive tipografiche e il colpo di dadi di Mallarmé, si prolunga nella vita silenziosa della poesia del Novecento (Montale, ad esempio, è un poeta che si è letto/consumato quasi esclusivamente in silenzio, nel confronto tra scrittore/pagina/lettore? Ho questo dubbio: come cambia Montale letto ad alta voce?), fino ad arrivare ai tentativi odierni di riportare la poesia all'ascolto, anche nelle occasioni pubbliche, un passaggio importante, attraverso il quale potrebbe esser rivista la marginalità in cui è costretta (si è costretta?) la poesia d'oggi. Taggart è il poeta della fiducia nella parola, nel suo scrigno di suono. Ripetizioni sono all'ordine del giorno, ossessive. Il suo ruscello poetico sgorga dalle parti della poetica oggettivistica teorizzata Louis Zukofsky (nulla di suo tradotto in italiano) e George Oppen (qui trovate ancora Essere in tanti, pubblicato otto anni fa da ETS). Ma Taggart ovviamente non è racchiuso in queste poche disordinate mie note. Nello sviluppo della sua lirica, come ha modo di notare Cristina Babino, ci sono inserti plurimi, dalla passione per il jazz e John Coltrane o Sonny Rollins in particolare, all'eco di compositori come Steve Reich, fino alla pittura di Mark Rothko o a quella di certe solitudini e deserti urbani, lateralmente illuminati à la Caravaggio, di Edward Hopper. E come non capirlo. Aggiungerei - e forse potrebbe essere una interessante strada da seguire - i buoni risultati che potrebbe dare una lettura geopoetica di questa sua opera (e suppongo anche di altre sue opere, ma non ho letto tutto Taggart). Se Gregory Bateson scriveva dell'ecologia della mente, mi pare sia vero che l'opera di Taggart diventi ecologia della lingua inglese da lui adoperata.


Pastorali (Pastorelles, uscito giusto dieci anni fa nel 2004 per Flood Editions con una copertina così lontana da quella italiana) rimanda sin dal titolo ad una dimensione rurale che è quella del fazzoletto da lui abitato in Pennsylvania. Il poeta Robert Creeley (la meritoria Empiria pubblicò a suo tempo Stanze e pure per Mondadori uscì Per amore negli anni Setttanta; ci torneremo su quest'ultimo libro) ha scritto che Taggart è stato un campione dell'accumulo di patterns sonori e di significato complessamente stratificati, che pure usa con un'autorità discreta. Ha scritto inoltre che se la poesia ha un valore persistente è perché riesce ad articolare, come in questo libro, tutto quello di cui una vita arriva a prendersi cura. Cristina Babino ci ricorda inoltre e opportunamente che la  Pennsylvania di Taggart, figlio di pastore metodista, è "terra della cultura Amish (la cui lingua è detta non a caso Pennsylvania Dutch), chiusa nelle sue granitiche consuetudini, nel suo ricercato, intestardito isolamento". A tal proposito, vedete anche uno dei due testi che riporterò per gentile concessione. Pastorali è allora titolo bifronte perché guarda da un lato alla tradizione della poesia e dall'altro alla tradizione della musica che portano questa "etichetta". Le mutazioni di "Arcadia" sono un capitolo tutto da esplorare nella poesia mondiale del Novecento. Solo questa duplice apertura dice della complessità e della sintesi di cui è capace Taggart, sin dalla titolazione dell'opera. 

C'è un aspetto, infine, che mi preme riprendere prima di concludere e di lasciarvi in compagnia di due Pastorali, ovvero l'interdisciplinarietà della scrittura - sarebbe meglio scrivere della vita - di Taggart, un aspetto sottolineato anche dai decenni di lavoro all'interno dell'università americana. Forse "interdisciplinarietà" non è la parola migliore, è troppo accademica infatti. Taggart però è la riprova che gli innesti che provengono da una grande attenzione nei confronti delle altre arti lasciano il segno anche in poesia o, meglio, in ciò che la poesia restituisce della vita. La sua poesia è come una "sciarpa", dalla cui trama entra molto, fiato, aria, luce e sulla quale possiamo far passare persino la nostra voce imbolsita. Le poesie stesse "iniziano come epitaffi e hanno la possibilità di concludersi come vita", ha sostenuto egli stesso durante una recente conferenza.


PASTORELLE 1


Glance to the right all that’s possible
driving south
on 641 what was the old stage coach route
curve on 641 curve and descent
hard on the horses
weight bearing down on them
glance
perhaps all that was ever possible
clearing through the trees at the curve
wide field
brown green brown
where the farmer plowed where the farmer didn’t where he did

glance
and glances
over the years
this is where my ashes are to be scattered
driving south and west.


PASTORALE 1




Guardare sulla destra tutto ciò che è possibile
guidando verso sud
sulla 641 quella che fu la vecchia via delle carovane
curva sulla 641 curva e discesa
dura per i cavalli
carico che pesa su di loro
guardare
forse tutto ciò che fu mai possibile
radura tra gli alberi sulla curva
grande campo
marrone verde marrone
dove il fattore ha arato dove il fattore non ha arato dove ha arato

guardare
e sguardi
attraverso gli anni
qui è dove le mie ceneri verranno sparse
guidando verso sud e ovest.


PASTORELLE 8


Young woman
Amish
green dress black apron translucent white prayer bonnet
strings of her bonnet trailing in the air

rollerskating down the road

by herself alone in the air and light of an ungloomy Sunday afternoon

herself and her skating shadow


the painter said
beauty is what we add to things

and I
chainsawing in the woods above the road
say what could be added
what other than giving this roaring machine a rest.



PASTORALE 8


Giovane donna
Amish
vestito verde grembiule nero translucida cuffia da preghiera bianca
i lacci della cuffia si trascinano nell'aria

pattina lungo la strada

tutta sola nell'aria e nella luce di una chiara domenica pomeriggio

lei e la sua ombra che pattina

il pittore disse
la bellezza è ciò che aggiungiamo alle cose

e io
che taglio legna con la sega elettrica nei boschi sopra la strada
dico ciò che si potrebbe aggiungere
che altro se non spegnere questa macchina rombante.

lunedì 17 febbraio 2014

da "Corruptio optimi pessima" di Antonio Turolo

Una poesia da #31
(in realtà non soltanto una, per stavolta)



Nella biblioteca interiore di questo poeta non c'è spazio per la "letteratura come gioco" e tantomeno per la scrittura intesa come terapia. E non ci vuole molto a capirlo, se si prende in mano questo libro, tanto bello quanto forse dimenticato o passato inosservato. Corruptio optimi pessima di Antonio Turolo (Nuova Dimensione, pp. 132, euro 11, ancora in commercio) rappresentò un libro atteso, almeno qui, tra gli amici della provincia di Treviso e tra chi si interessa di poesia. Proprio sulla sua/nostra provincia si erano lette in rivista alcune composizioni importanti, tra le più sorprendenti di quel periodo. C'era stata prima anche la silloge, altrettanto importante e sorprendente, intitolata Le parole contate, inclusa nel Sesto quaderno italiano di poesia contemporanea di Marcos y Marcos, nel 1998. Nel decennio a cavallo tra la fine degli anni Novanta e i Duemila, poche furono le occasioni di leggerlo, ancor meno forse quelle di ascoltarlo (ma quando capitava, a me sembrava non volasse una mosca tra il pubblico). Quando nel 2007 arrivò questo libro, con una prefazione atipica nei modi e riconoscente di Giulio Mozzi (quasi un'inversione del senso della gratitudine tra prefatore e autore), le cose non cambiarono di molto, nel senso che non mi pare che Corruptio optimi pessima abbia avuto l'attenzione che meritava e merita tuttora. Per fortuna è anche vero che nessuno sta qui a sindacare sui circuiti che segue (o sui quali si segue) la poesia oggigiorno: la poesia resta di chi la trova, e qui secondo me avete un'occasione per trovarla. Per questo motivo ora mi limito a rimettere in circolo una manciata di versi, cercando di contare anch'io le parole. La poesia di Antonio non ha bisogno infatti di molte introduzioni, arriva diretta, come un colpo sparato ad alzo zero. Colpisce, ferisce, talvolta strappa un sorriso con le unghie delle sillabe, anch'esse contate. Mozzi parla anche della "tenerezza" di questo libro, e in fondo ha ragione. Una sola poesia non bastava, secondo me, per tornare a parlare di questo libro intitolato con una massima di Gregorio Magno e così intriso di storia familiare (i due perni sono spesso la zia e la madre dell'autore, ritratta nella foto scelta per la copertina). Facendo allora una piccola violenza a questo spazio intitolato "Una poesia da", ho scelto alcune delle mie orecchie fatte sulle pagine di questo libro.

--

Poesie da Corruptio optimi pessima di Antonio Turolo (Nuova Dimensione, 2007).


Da un'altra psicologa



Quand'è fuori dal nido cosa fa?
Mi chiese dopo che con precisione
di panico e di agorafobia
le avevo riferito.

Domanda errata - le direi oggi -
non è andar fuori, è rincasare
che mi fa male.

Come un cane legato alla catena,
più corta
più lasca
dipende,
abito insieme alle mie ossessioni.

Potrei vivere a New York o a Nuova Delhi,
da questa casa
da questa città
non uscirò più.

--

In un soggiorno una pendola ha scandito
per anni i giorni di noi tre in famiglia.
È un oggetto vecchio robusto e delicato insieme.

Quando mia zia l'aveva rinvenuto
tra le vecchie cose di mia nonna, 
ricordi tramandati tra generazioni,
anche l'orologiaio -
commosso un poco e un poco incuriosito
dal suo meccanismo -
era venuto fino a casa nostra
per stabilire sul muro esattamente
l'unico punto che la faceva andare.

Tutto bene per un po' di anni.

Un precario equilibrio
ritmava
in una scansione ordinata
i miei libri,
i cappelli della zia,
le ombre nella mente della mamma.

Ma 
la tradizione è finita.
Io non avrò figli.
La mamma sta male, io non ho un lavoro.
La pendola è rotta.

La venderò per soldi domattina.


--

Treviso tre




La neghittosa provincia non è priva
di una sua sorniona saggezza.

Con soggezione ci si iscrive
alla grande Università
Universitas Patavina Libertas
la cattedra di Galileo
gli affreschi di Giotto
il magnifico Rettore.

Facendo il pendolo via Mestre,
ci si illude che quelle mete estere
Parigi Monaco Zurigo
declamate dall'altoparlante
saranno nostre un giorno
con tutti questi studi
e che la nostra vita forse cambierà.

Disillusi, un po' invecchiati,
ci si rivede poi a Treviso
a qualche concorso
a far le guardie mediche
o a insegnare la sintassi dei casi
e il pessimismo di Leopardi.

Il cerchio si chiude,
attento, mi dico,
non credere di essere speciale,
la sanno lunga queste sabbie mobili,
ne hanno fatti fuori di più forti di te.

--


Hai fatto bene mamma, a insegnarmi l'italiano.

Non badare nemmeno
ai professori che
difendono il dialetto.

Sono soltanto snob,
ipocriti entomologi
fingono compassione
per l'esemplare che
trafiggono uccidendolo.

Detesta come me
il ristorante tipico     agriturismo rustico
il buon selvaggio in gabbia     spiagge paradisiache
safari fotografici     diete vegetariane
verginità rifatta     in carta riciclata.


Il rustico dei ricchi è un falso rustico.

--

Un disadattato


mi ha definito un giorno
un sacerdote astuto cattivo penetrante.
Non amavo quel frate, e dentro me
più volte ho sognato di fargliela vedere,
di dimostrargli che non è così.

Adesso stai bene    finalmente lavori

post tenebras lux    è stata una fase
guadagni perfino -
mi lusingano altri
lo spettacolo deve continuare.

 

Ma non è vero.

Una tessera di mosaico
scompagnata
una carta
solitaria

un conto che
non torna
un apolide inglorioso.

Io non sono collega di nessuno.

--


La mia vita
assomiglia un poco
all'eterno corridoio
di questa casa di riposo.

Luci al neon
infermiere premurose o sbrigative
con cuffietta,
medicinali, dolcetti, 
aria di chiuso.

E qui in fondo
la mamma che sorride.

--

PS. Antonio Turolo, che fu allievo di Gianfranco Folena, ha pubblicato anche due monografie: Tradizione e rinnovamento nella lingua del Magalotti (Firenze, Accademia della Crusca, 1993) e Teoria e prassi linguistica nel primo Gadda (Pisa, Giardini,1995). Ma per conoscere ciò che Turolo pensa della "carriera universitaria" ("sconcio ossimoro") vi invito a procurarvi
Corruptio optimi pessima.

venerdì 14 febbraio 2014

Le poesie di Hans Sahl. "Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l'uomo" pubblicato da Del Vecchio Editore

Qualche giorno fa mi sono trovato a battibeccare con l'account Twitter di Einaudi, che a mio avviso commetteva la mossa infelice di scrivere "dei cinque lettori di poesia in Italia". Si trattava ovviamente di un'iperbole di manzoniana memoria (ulteriormente decurtata), ma pur sempre un errore, un'affermazione che non aiutava niente e nessuno. Non l'ho reputata una mossa felice, insomma, e l'ho fatto presente al twittatore/alla twittatrice in modo educato, beccandomi inizialmente risposte del tipo "Meglio prenderci in giro?" oppure "Contento tu". (Non ho fatto presente al twittatore/alla twittatrice che il tono antipatico di quelle risposte quasi sicuramente dimezzerà il budget annuo dei miei acquisti dedicati a libri Einaudi, alla faccia del social media marketing e del mito della comunicazione one-to-one! Poi chi twittava dall'altra parte è rientrato nei toni, e mi ha persino ringraziato "perché è bello che qualcuno ci tenga". Non vi racconto qual punto di domanda si è allora dipinto in automatico sul mio volto). Insomma, l'aborto di dialogo twitteresco da pausa-pranzo è finito nello scolo di lavello dei social network, com'è in fondo normale che sia. Possiamo ripeterci fino alla nausea che la poesia non vende (ci credo, ma di questo passo venderanno poco anche tanti libri di prosa), possono anche sbattermi in faccia i dati di vendita imbarazzanti di certe collane di poesia un tempo blasonate, ma non penso che cambierei idea e cioè che, come scrivevo, sono convinto che i lettori di poesia in Italia esistano, forse "comprano pochi libri", e probabilmente (lo scrivo qui, non su Twitter) non si fanno troppo sentire, o magari vivono da "nuovi emarginati" la marginalità e la frammentazione della poesia stessa. C'è poi un processo di lettura e ascolto pubblico della poesia che va recuperato e si iniziano a vedere alcune buone operazioni in tal senso. Forse i lettori di poesia sono stati anche delusi, non trattati poi così bene dai loro editori di riferimento. Altro discorso - e qui provo a uscire dalla secca in cui sto saltando pericolosamente a piè pari - è vedere cosa ha fatto chi aveva gli strumenti, i canali e il "blasone" (il brand editoriale, insomma) per fare sensate operazioni editoriali di poesia: buio pesto. Quanto ci manca uno Scheiwiller del ventunesimo secolo! Insomma, anche i nostri editori storici di poesia dovrebbero fare un'opportuna analisi e chiedersi se la situazione che lamentano riconduce anche a certe loro scelte e, visto che proprio si lamentano dei lettori mancanti all'appello, potrebbero smettere di pubblicare poesia, visto che non vende. Chissà che dal vuoto creatosi non si generi qualcosa di veramente nuovo. In fondo sono imprese anche le case editrici, pur tra mille particolarità e nessuno le obbliga a lavorare in perdita. Ma mi fermo, sono tempi difficili per tutti, davvero, e questi sono discorsi che forse lasciano il tempo che trovano. Anche perché poi, ogni tanto, si accende una luce, ovvero libri come questo di cui vorrei dar notizia ora. D'accordo, è un progetto di traduzione finanziato con il sostegno della Commissione Europea EACEA, insomma è uno di quei libri che diventano economicamente realizzabili soltanto grazie a dei contributi per la traduzione di istituzioni culturali internazionali; tuttavia quello che conta, agli occhi di un lettore, è che appare come foglia di un albero (fuor di metafora: il catalogo dell'editore Del Vecchio) che sta crescendo con un portamento di fusto e una disposizione fogliare sempre più rare nel panorama. Chissà che non colga il vuoto che altri stanno osservando, creando (coltivando?) con colossali dormite e lamenti inerti. Le uscite di poesia di Del Vecchio sono poche, ma l'inizio è buono. E allora, se avete voglia di leggere (o regalare) un bel libro di un poeta in Italia semisconosciuto, puntate diritti e con serenità a questo Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l'uomo di Hans Sahl, un librone di più di 500 pagine pubblicato nella cura e traduzione di Nadia Centorbi all'onesto prezzo di € 17,50. Un libro corposo, che se però come me leggerete prevalentemente nelle pagine di destra, gettando solo qualche occhiata al tedesco di sinistra, diventa tutto sommato un libro breve. L'occasione della pubblicazione è la "Giornata della Memoria", che in editoria sta diventando un momento topico di riferimento nella pianificazione delle uscite, il che sta bene, ma ha anche dei tratti che indispettiscono. Non trovate? Ma tranquilli, è un libro senza data di scadenza, che si potrà leggere anche quest'estate o la prossima. L'autore (Dresda 1902 - Tubinga 1993) è noto al pubblico italiano per un titolo pubblicato da Sellerio, Memorie di un moralista. L'esilio nell'esilio, dedicato a quello sterminato fenomeno che fu l'emigrazione e l'esilio dalla Germania di Hitler. Quella biografia incentrata sulla forza centrifuga dell'esilio è un passaggio importante per giungere alla poesia di Sahl, che è poesia scritta dall'esilio e con una componente autobiografica limpida.

Oppurtuno dare qualche coordinata. Nel 1933, "non solo come ebreo, ma anche come oppositore di Hitler" Sahl lascia la Germania. Passa per Praga, Zurigo (è in Svizzera che incrocia Ignazio Silone) e poi staziona a Parigi per un bel po'. Vive lì e spancia di brutto in quella che finì per chiamarsi drôle de guerre, ovvero quei mesi surreali-tragici che precedettero il pieno dispiego delle operazioni militari. Il primo libro di poesia che pubblica esce in America nel 1942 e si intitola Le chiare notti, sottotitolato Poesie dalla Francia e qua si concentrano davvero tutti gli anni francesi, l'esperienza dei campi di internamento dove finisce anche Walter Benjamin. Bellissimo, in questo primo libro, è il gruppo di poesie intitolate a Marsiglia, dove Sahl nel 1941 attende la nave che lo porta in salvo, dall'altra parte dell'Atlantico, e dove collabora attivamente anche con Varian Fry e la sua organizzazione che aiutò duemila intellettuali e artisti a fuggire da Hitler (tanto da meritarsi un film e il soprannome di "Shindler" degli artisti, oltre a altri riconoscimenti post mortem). A New York Sahl rimase per quasi tutta la vita, fino al 1989, con una parentesi di rientro non ancora "maturo" in Germania a fine anni Cinquanta. Per la cronaca, negli Stati Uniti Sahl visse di giornalismo (importanti collaborazioni come corrispondente di testate tedesche) e traduzioni (Arthur Miller, Eugene O'Neill, Thornton Wilder e Tennessee Williams).

Andando più dentro questo libro, senza invaderlo troppo, c'è da notare una forte componente pseudodiaristica nei diversi nuclei che compongono le raccolte, radunate sotto il bellissimo e apertissimo titolo del volume italiano ("Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l’uomo come se fosse / un incidente biologico / tra due epoche glaciali"). Ed è sicuramente altrettanto forte il senso dell'essere testimone. Il volume Le chiare notti. Poesie dalla Francia lascia poi posto nel libro di Del Vecchio a una nutrita antologia dei libri che seguirono, distanziati di molti anni uno dall'altro: Noi siamo gli ultimi. Poesie del 1976 e Noi siamo gli ultimi. La talpa del 1991. E in tutto questo percorso di poesia però è come se ricadessimo, anche con l'immaginazione, in quei fondamentali anni trascorsi in Francia, anni di fame, sospetto, "esilio nell'esilio", solitudine radicale e radicalizzata. La migrazione e l'esilio furono forzate, necessarie, e tuttavia divennero poi scelta, conferma quotidiana. Visto che la curatrice conosce bene la materia di cui scrive, lascio la parola a Nadia Centorbi e rimando alla fine del post per un link contenente un gruppo di testi della raccolta. Nel suo saggio introduttivo intitolato Il cristallo nella lavina, Centorbi marca bene lo scivolamento lirico dalla prima raccolta alle successive:

"la centralità dell'io sembra dissolversi nella coralità di un soggetto lirico polimorfo, in quel noi che scandisce ossessivamente la sequenza lirica. Attraverso il noi il destino individuale del poeta si identifica con il destino di molti altri esuli incontrati, incrociati o semplicemente presenti nella schiera di quanti furono segnati dall’esperienza della fuga dalla patria. Con ciò, il poeta suggerisce che nell’esperienza dell’esilio, che egli ha condiviso con migliaia di altri profughi, non esiste un destino d’eccezione che possa valere su tutti gli altri come modello emblematico: tutti gli esuli, al di là delle diverse peculiarità che ne scandirono le rotte, costituiscono un unico coro, condividendo omogeneamente le stesse difficoltà, lo stesso martirio della persecuzione, della fuga nonché del disorientamento derivato da un’esistenza irreparabilmente stravolta. A differenza delle poesie del primo ciclo poetico, nei componimenti più tardi Sahl non cede alla malia di centralizzare la sua personale esperienza di esule e perseguitato. All’estemporaneità dei versi della fuga subentra la responsabilità morale di preservare una “memoria dell’esilio” che attecchisce, appunto, nella coralità del noi [...]."

Vorrei chiudere con due plausi. Il primo per il lavoro di cura e traduzione della giovane Nadia Centorbi, che non posso giudicare appieno ma che trovo centrato e coerente nella lingua d'arrivo. (Nadia Centorbi è autrice anche di due saggi che appaiono davvero unici nel panorama, uno del 2011 sull'androginia nella letteratura tedesca e l'altro del 2009 sulla poesia di Gottfried Benn e l'estraneità della patria, un tema che ora evidentemente s'incastra e s'arricchisce di questo lavoro su Sahl.) Il secondo plauso, già accennato, per l'editore Del Vecchio, una casa editrice nata a Roma soltanto nel 2007 e che a mio avviso rappresenta la più bella sorpresa del panorama italiano dell'ultimo lustro. Per approfondire vi consiglio davvero un giretto qui: propagazione del catalogo appassionante e volumi contraddistinti da una cura e soprattutto da una progettazione grafica che non si vedevano da tempo, affidate all'enfant terrible della comunicazione visiva Maurizio Ceccato e IFIX.

(Rinvio al blog di poesia di Ottavio Rossani su Corriere.it per la lettura di qualche testo di Hans Sahl nella traduzione di Nadia Centorbi. Sempre per Del Vecchio Editore segnalo che è appena uscito il libro - stavolta davvero breve - I passanti di Laurent Mauvigner, un "campione del libro breve" e autore del discusso Storia di un oblio.)

martedì 11 febbraio 2014

da "Le poesie" di Attilio Bertolucci: "In tempi di disimpegno"

Una poesia da #31


Non è mia consuetudine parlare di promozioni di prezzo in libreria, tuttavia l'occasione mi sembra interessante e tanto vale approfittarne (se un blog riesce a essere utile dando informazioni ritenute interessanti tanto meglio). C'è da approfittare fino a fine febbraio dell'invitante prezzo di euro 4,90 per il lancio della rinnovata collana "I grandi libri Garzanti", che si presenta in una veste grafica rivisitata (meno caratterizzante e in fondo più "anonima" della precedente, ma forse più adatta ai tempi che vive il libro). E tra i volumi di questa rinfrescata collana, torna disponibile la poesia di Attilio Bertolucci, dopo una sorta di sparizione. Meno di 5 euro per il volume intitolato Le poesie (che poi dovrebbe tornare a un prezzo di € 18) mi sembra un buon prezzo. La poesia che ho scelto è "In tempi di disimpegno". Mi ha colpito il lessico, la scelta delle parole. Anche il verso lunghissimo in ottava posizione, che non credo si possa definire nemmeno un doppio endecasillabo. Potrebbe essere una poesia scritta oggi e intendo: negli ultimi anni. Invece ha più di quarant'anni. Altrove il campo di concentrazione lessicale di Bertolucci non è così vicino a quello attuale. La trovo infine una poesia molto bella; mi piace insomma, altrimenti non l'avrei scelta. Quattro euro e novanta, non male, se non avete già "l'Elefante Garzanti" con le sue poesie.












IN TEMPI DI DISIMPEGNO


Non è infrequente per queste
strade familiari – anche se esse
ti hanno portato al di là d'un fiume,
o torrente, confine spesso di due province,
nell'ora di perdizione che è sempre

il passaggio a un'altra riva col sole
in una salute languente –
incontrare dei cippi dedicati a chi uomo o donna anche ragazzo
qui vivente o transitante
venne ucciso perché ribelle o ostaggio.
Su marmo pietra o umile laterizio
una lapide ricorda i nomi e il giorno dell'eccidio –
ma tu che passi procedi oltre, t'affretti
punto dal primo freddo e dal trasmutarsi
all'orizzonte del rosso in viola
mentre la siepe accoglie arruffata
e misera il ritorno dei passeri
dai seminati in ombra – ormai
indistinti quei cippi dai tumuli
che il cantoniere o il colono
innalzò di ghiaia o terra o letame
nella luce lavorativa d'un giorno senza data.

domenica 9 febbraio 2014

da "Il sangue amaro" di Valerio Magrelli

Una poesia da #30

Credo possa starci l'attesa, a maggior ragione dopo la sorpresa rappresentata da Geologia di un padre. In questi primi giorni di febbraio sta per uscire Il sangue amaro, il nuovo libro di poesie di Valerio Magrelli (Einaudi, pp. 160, euro 13). Lo aspettiamo, con la bella poesia scelta per la copertina e l'"acuta nostalgia per una forma di vita estinta". (Finalmente qualcuno che si prende la briga di giocare amaramente in poesia con i tanti acronimi che ci piovono addosso, appestandoci.)


Natale, credo, scada il bollino blu
del motorino, il canone URAR TV,
poi l'ICI e in piú il secondo
acconto IRPEF - o era INRI?
La password, il codice utente, PIN e PUK
sono le nostre dolcissime metastasi.
Ciò è bene, perché io amo i contributi,
l'anestesia, l'anagrafe telematica,
ma sento che qualcosa è andato perso
e insieme che il dolore mi è rimasto
mentre mi prende acuta nostalgia
per una forma di vita estinta: la mia.


venerdì 7 febbraio 2014

Brancusi fotografo

Chi ha visitato la casa di Goffredo Parise, non tanto lo spoglio buen retiro in golena del Piave a Salgareda, bensì l'altra, quella davanti alle scuole in paese a Ponte di Piave ("la prima vera casa o home della mia vita" scriveva contento nel 1984, a due anni dalla morte), si sarà aggrappato a determinati oggetti. Se uno ci arriva dopo aver letto delle sue discese sulla neve, una parte importante dei Sillabari, è probabile che si soffermi un po' davanti agli scarponi da sci, come è capitato a me (forse anche per deformazione lavorativa), oppure davanti a certi arredi (alle bianche poltrone!). Uscendo nel verde, in uno dei "due giardini" tra i quali la casa rossa si incastra, viene normale compiere il periplo della copia di "Mademoiselle Pogany", la statua di Costantin Brancusi. Mi sono spesso chiesto del perché di quella statua e del perché di Brancusi. Non che abbia trovato risposte illuminate al mio peregrinare interrogativo, tuttavia, sfogliando questo volume dedicato alle fotografie lasciate dallo stesso artista rumeno e pubblicato da Abscondita (Brancusi fotografo, pp. 153, euro 33, a cura di Paola Mola), mi pare ora di girare meglio anche per la casa che accolse Parise negli ultimi anni di vita e forse anche di girare meglio attorno a Mademoiselle Pogany.

Colonna senza fine
A dire il vero, più che una circolarità, mi pare sia una una sorta di verticalità che spicca in questo lavoro fotografico, ad esempio nelle varie foto che l'artista dedica alla celebre "Colonna senza fine" oppure all'enigmatico "Uccello nello spazio". Le fotografie che Brancusi scatta ai propri lavori o a certe vedute dell'atelier parigino di Impasse Ronsin sono parte viva e non collaterale della sua arte. Fotografia e scultura diventano davvero due facce che non si possono delaminare, due sostantivi che si declinano nello stesso caso, genere e numero. L'artista contadino nato nel 1876 nel villaggio rumeno di Hobiţa, al cospetto dei Carpazi, non amava spiegare il proprio lavoro sulla materia (legno, alabastro, marmo, bronzo, gesso, tanto gesso, chiodi ecc). In fondo la consapevolezza di un artista, anche quella teorica, a patto che ci sia davvero, si può spiegare nei modi più disparati, non necessariamente con tomi vergati magari da tediosa speculazione. E a suo dire, bastavano le fotografie che egli stesso dedicava alle sue creazioni per "spiegare" il suo lavoro d'artista. Pensando anche alla centralità che occupano i nomi/titoli delle sue opere, e da egli stesso sottolineata in alcuni aforismi, la scultura fotografata diventa un nome e un titolo (s)colpito e sostanziato dalla luce. Quando ritrae "Leda", Brancusi dimostra un approccio addirittura cinematografico. Quest'insieme di foto radunate da Abscondita e da Paola Mola diventa allora importante per addentrarsi persino nel non trascurabile rapporto tra forma e piedistallo delle sue opere. Brancusi lavorò molto anche su questo aspetto, e tutto ciò emerge bene da questo nucleo di foto, e in tutto questo possiamo ravvisare anche un'eco prolungata di quel discorso che uno dei più importanti scrittori amici, Ezra Pound, fece sull'accumulo delle forme che percorre trasversalmente l'intera sua opera.

Uccello nello spazio
Diceva Costantin Brancusi che la scultura è "l'acqua, l'acqua". Sicuramente qualcosa della levigazione dell'acqua è riposto nel suo magazzino di forme. L'atelier stesso è ritratto in momenti diversi, da angolature e altezze nuove ogni volta, immerso in luci diverse. Non c'è tormento creativo in Brancusi, c'è gioia, e ripenso che anche questo aspetto mi riporta a Parise. Eppure è preservata integra la tragicità di quelle "apparizioni larvali" (Montale) che, dalla "Musa addormentata" al "Bacio", riservano - almeno per me - anche etruschi rimandi con il lavoro quasi coevo di Arturo Martini. E non c'è l'incompleto o il non-finito nella sua scultura: la forma deve riposare nella materia (per questo la fotografia?). E allora ritorna l'interrogativo che personalmente trovo sempre più affascinante: quando un'opera d'arte è detta/pensata conclusa? Questa è la domanda che vorrei spesso fare ad ogni artista, ai poeti. Non è tanto l'inizio che interessa, l'attacco, neanche in una poesia, ma diventa molto più interessante capire quando una poesia si ritiene conclusa, finita. E queste forme di Brancusi che riposano, riposano spesso in un colore, quello che assomma in sé la luce, il bianco, riverberato dalla presenza diffusa di un materiale tradizionale e in fondo scolastico come il gesso, anche per terra e nell'aria, nell'atelier, o persino nei suoi cani somoiedi bianchi alimentati a latte bianco in una ciotola bianca. Costantin Brancusi fu anche tutto questo, scultore-fotografo e scultore-scrittore (scultura e scrittura condividono radici linguistiche, scrab e scar).

Il numero 19 di "Riga"
Il volume di Abscondita curato da Paola Mola raccoglie in chiusura interventi di Ezra Pound, Michael Middleton, Paul Morand, Eugenio Montale (in una veste di timido reporter accolto nell'atelier e invitato pure, a tempo debito, ad andarsene), Henri-Pierre Roché e Man Ray. Ricordo inoltre che negli ultimi tempi s'è rivisto in libreria pure il diaciannovesimo numero della rivista "Riga" dedicato all'artista, meritorio progetto monografico a cura di Marco Belpoliti e Elio Grazioli, uscito anni fa e ora riproposto in edizione ampliata, sempre dall'editore Marcos y Marcos. Sono tutti brani fondamentali per ricostruire la bibliografia italiana su Costantin Brancusi. Nel volume di Marcos y Marcos troverete, tra gli altri, anche un prezioso contributo di Rosalind E. Krauss, poesie di Jean Arp, altri saggi (ricordo John Berger, Mircea Eliade, Michel Frizot, Sidney Geist, Ettore Sottsass) e "interventi visivi" di Aurelio Andrighetto, Dario Bellini e della stessa Paola Mola.

lunedì 3 febbraio 2014

Roberto Cescon e le nuove poesie in "La direzione delle cose": il poeta è un sarto

Il nuovo libro di poesie di Roberto Cescon, La direzione delle cose (Giuliano Ladolfi Editore, pp. 84, euro 10), innesta sopra le composizioni un aspetto di novità, che non mi pare sia ancora stato registrato da chi ne ha già utilmente scritto. Provo a dire meglio, perché siamo di fronte a un libro meritevole, un libro "che resta" si sarebbe detto un tempo, mentre oggi non siamo così ingenui da affermare cose simili, anche se possiamo sempre augurarcelo. Penso a nuove e inedite forme di cura e affetto che emergono sonoramente, come un accordo di bordone, anche nei momenti dove questa cura sembra stare sepolta, quasi una forma adatta (sarebbe più corretto dire forma di adattamento) alla nuova condizione antropologica che per il momento definirei postumana, ma solo perché per ora mancano parole migliori per avvicinarla. Uso anche le parole "cura e affetto" nella massima provvisorietà, in attesa di migliori appigli verbali. Forse è così che si può tradurre l'endiadi che ha scelto Gian Mario Villalta per introdurre alla lettura di questo libro, "impietoso e pietosissimo al tempo stesso". Penso ad esempio alla chiusa di un testo programmatico come L'avanguardia è finita, "Non è tempo di distruggere o fuggire, / dobbiamo starci accanto, / capire che la strada è anche ciò che abbiamo.", alla poesia in cui la compagna lo sollecita a farsi vivo con amici persi di vista con un messaggio, per far sentire che c'è, e che si conclude con questi versi: "Ha ragione, ma io temo / che nessun messaggio possa coprire / la distanza che non voglio coprire / anche se voglio restargli vicino.", oppure in una delle non poche riuscite composizioni metapoetiche, dove la riflessione sul fare poesia stesso riprende un sentiero forse da decenni abbandonato e qui ripercorso coraggiosamente nei versi, e dove la poesia diventa "[...] quello / che passa nel mezzo, nello spazio / che ci divide, quando sentiamo / di essere parte, perché era tutto lì, / bastava solo accorgersi.". Il corsivo nella parola "parte" è mio, l'ho voluto per dire dove riesce questo libro: una poesia che parte e arriva sapendo di essere parte.

Roberto Cescon ha corso con coraggio il rischio di finire catalogato dentro i tanti libri poetici di "antropologia del vicino", ma se certa antropologia del vicino ormai è genere editoriale a parte, con regole che è sufficiente seguire per provare a vendere qualche copia in più, questi testi sono antropologia del vicino soltanto perché questo è la poesia, da che mondo è mondo, ovvero da quando esiste, prima ancora che nascesse la categoria di "antropologia". In realtà, visto che stiamo parlando di antropologia, si dica subito che qui emerge un'antropologia franta, spaccata. Dalle pagine, annota Villalta, emerge chiaramente "la perdita della relazione di continuità antropologica nella quotidianità di un luogo e di un ambiente sociale preciso". Ciononostante, sul fronte della tradizione, si avverte chiaro ed è vivo il dialogo fecondo con un Novecento che non ha smesso di bussare alle porte dell'orecchio e alle porte del cervello, e se la capacità di farsi everyman ricordata da Villalta riporta a Giovanni Giudici, certi componimenti risuonano ancora di Montale. Ci pensavo anche davanti alla bellissima La pianta di limoni, la quale racconta il primaverile trasbordo della "limonera" dal garage al gabbiotto delle galline e il ritorno autunnale, un rito compiuto assieme al padre e che trova posto in un testo dove l'orecchio saprà ravvisare anche il gran lavoro fonico sulla materia sillabica, tanto riuscito quanto per nulla smaccato. Osando potremmo persino ravvisare una pseudobotanica pascoliana da riunione condominiale, allorquando "Sui dettagli converge il disordine / più grande che deforma le priorità: / la gramigna cresce sopra il sofà / il parquet e il silenzio dei led...". I luoghi prediletti dall'autore sono proprio la casa-condominio e i suoi esterni, il supermercato, certi locali, la metro, il parco o il centro città (c'è tutta la vetrinizzazione sociale che forse stiamo subendo dentro questo libro). Le presenze delle persone si rarefanno. C'è la moglie Anna, il figlio Pietro e pochi altri, magari una commessa del supermercato (qui Cescon si avvicina molto agli esiti importanti de I mondi di Guido Mazzoni). Vale la pena, dato che ci siamo, fare anche un altro nome e un altro titolo di riferimento, quel Resoconto su reddito e salute di Igor De Marchi sul quale si potrebbe tornare a parlare a distanza di anni, alla luce di quello che abbiamo letto dopo quel libro, mentre ho trovato che l'autore della prefazione, Villalta, è forse più presente con l'eco di certe sue poesie dialettali (e in un caso anche Cescon ricorre al dialetto).

La vita è spogliazione ("Tutta la vita a spogliarmi / mai veramente del tutto."), la poesia "apre tutti i cassetti" e diventa come un andare controvento. "Vivere era una retta, ora è un segmento" dice un verso fondamentale della poesia che apre la sezione "Principio di indeterminazione", dove il chiarissimo richiamo al principio di Heisenberg sbatte contro quella che in fin dei conti è la sezione più religiosa dell'intero libro, "religiosa" perché riaffiorano determinati ricordi d'infanzia: il prete, la chiesa di paese a Cecchini ritrovata in occasione di una cresima di un nipote, la reazione personale a una richiesta di fare da santolo a un battesimo, oppure il "matrimonio da favola / in un rustico fotovoltaico." de L'auto d'epoca. Sempre nella poesia iniziale della sezione leggiamo che "Il dubbio è un cielo che sta per piovere / dietro il sorriso. Nel frutteto ho piantato / poche cose, che seguono il respiro: / una famiglia, le parole, pochi amici. / Vorrei che la frutta fosse sempre matura, / ma so che basta un attimo. / Rimarranno / le parole, i gesti che siamo stati / da raccontare nel dopo degli altri." e oltre a trovare una marcata direzione di lettura per questo libro troviamo anche alcuni nessi che ci raccontano del lavoro sul verso e la parola, come il divieto d'accesso o le intere elisioni verbali che intuiamo dopo "basta un attimo", oppure l'utilizzo dell'avverbio "dopo" in funzione sostantivata. (In altri punti del libro sarà un convincente utilizzo del discorso diretto o indiretto libero a portare il passo di Cescon all'incontro con le cose "che seguono il respiro".) E ritorna poi quel dire di essere parte, del quale accennavo in apertura.

Come anticipavo, La direzione delle cose è un libro che torna a ragionare sul fare poesia e torna a ragionare anche attorno alle parole. Spesso trovo stucchevole la metapoesia, persino i componimenti dove compare la parola "poesia". Qui invece credo si potrebbe intraprendere un altro percorso di lettura attorno al libro proprio partendo dalle occorrenze di "parola/parole" oppure di "poesia/poeta/poeti". Dal "Non ci sono parole per toccarsi" che termina La poltrona Poäng, un testo dove anche l'operazione di montaggio di una poltrona Ikea diventa motivo di cucitura del libro, al "Non stiamo vedendo le stesse cose. / Le mie sono dove nascono queste parole.", alle parole che non possono scavare "sotto la pelle dei gesti" o a quelle che "ci attraversano / come lastre di ghiaccio / tra la cucina e il salotto". Ragionare attorno alle parole, farlo in versi, è preparazione al più grande ragionamento che questo libro porta avanti sulla trasparenza (prima scrivevo anche "vetrinizzazione sociale") e sul "vero". Villalta scrive nel passaggio centrale della sua introduzione una cosa centrata: "Non è la perdita del passato e del futuro, infatti, a ossessionare il susseguirsi delle annotazioni in versi di Cescon, ma il loro essere già destinati per sempre in una dimensione di  intangibilità, di esclusione da una vera possibilità di essere forza viva dell’agire (e del pensare) quotidiano. La direzione delle cose significa perciò la perdita di opacità del sé, la scomparsa del “segreto” che ognuno almeno una volta ha pensato di portare attraverso la propria esperienza come vera fonte di senso e di rivelazione. Infatti è la trasparenza del fare e dell’appartenere che frustra ogni residua possibilità di trovare in se stessi la via per una dimensione diversa: la stessa lingua diventa ferocemente chiara, ridotta alla forma più denotativa." Mi hanno molto colpito queste parole, a maggior ragione dopo la recente lettura (e recensione) che ho fatto del libretto di Claudio Magris intitolato appunto Segreti e no e incentrato su parole-chiave come "segreto" e "opacità".

Allora, a questo punto, vale la pena riportare per intero la poesia che si intitola Trasparente. Vero e che rappresenta la curvatura più importante di questo libro composto da una cinquantina di componimenti:

È trasparente la parete che divide
i cuochi in cucina dal ristorante,
il guscio del computer, la cupola del Reichstag,
la telecamera negli spogliatoi.

Ci confessiamo per restare nascosti:
l’automobile in leasing, le rate per le vacanze.
Diciamo solo quello che bisogna
sapere coprendo le distanze.

Ma “trasparente” non è “vero”,
perché nessuna parola scava
sotto la pelle dei gesti:
“vero” è se ci sporgiamo
nel buio prima di addormentarci,
le tutine stese in terrazzo,
mia madre quando lavora la pasta,
Anna che copre la mia bicicletta
col telo nuovo della sua.

Per dire le parole quando siamo vicini
occorre una grammatica lenta,
come cercare l’uscita
alla luce di un casco.

Trasparente è il tuo sguardo,
che dice più delle parole
che non hai coraggio.
Vera è l’acqua di questo fiume
che scorre un pensiero negli occhi
fin dove arrivano gli occhi.


La poesia, e quella di Cescon in modo particolare, è nelle cose "quando si spaccano". A stare alla tensione costante di questo libro, viene da pensare che la sua sia una poesia di cose continuamente rotte e spaccate. Il poeta allora è un sarto che "cuce i gesti le cose / per fermare il respiro. // Anche tu / puoi indossare il suo vestito / come una garza o uno spillo / sotto la pelle da tempo." Ripensando alla quotidianità impressa in queste pagine, solo un'assenza mi ha colpito, e penso alla scuola e all'ambiente della classe, contesto nel quale l'autore è attivo per motivi professionali. Materiale di future poesie? Vedremo. Intanto, la stessa vita si può spaccare, si spacca da sé, non c'è bisogno di fare molto, e in fondo la spaccatura serve per provare a raccontarla.

Solo a raccontarla crediamo alla coerenza
della nostra vita quasi fosse una ricetta,
ma la strada resta dritta solo finché la pensiamo:
esistono lepri, buche, strettoie
da attraversare
con le mani ferme sul volante.

La vita è tenere insieme le cose
che abbiamo rotto o sono scappate,
perché facciamo di tutto
per restare a galla,
ci spinge un vento che asciuga
ciò che abbiamo steso.

D’altra parte non possiamo innamorarci
delle storie dei romanzi
e volere che la nostra sia una fiaba.

Dovremmo essere più indulgenti
con gli errori che facciamo
perché vivere è sbagliare, cucire, rialzarsi.

(Ricordo che due poesie poi incluse in questo libro erano già uscite in questo post anche se con qualche variazione di spaziatura tra i versi.)