mercoledì 26 marzo 2014

Gli scritti sull'arte di Piero Manzoni. "Non c’è nulla da dire: c’è solo da essere, c’è solo da vivere."

Quote #1

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.

A scrivere che considero la merda d'artista di Manzoni una delle più importanti opere d'arte del Novecento mondiale rischio di fare la figura del banalotto e fessacchiotto o, peggio, del parvenu nel mondo degli enthusiasts. Tuttavia non mi preoccupo più di tanto. Non penso wow che figata o cool che trovata. Se avesse prodotto anche le fiale con il suo sangue, come sperava, penserei forse la stessa cosa delle fiale, senza per questo credere che Manzoni sia pulp (sangue + merda). In fondo questo che dico sulle 90 scatoline di merda è quello che penso da più di quindici anni, rafforzando e integrando, anno dopo anno, defecazione dopo defecazione, questo pensiero, sin da quando ne parlavo anche con un'indimenticata professoressa di Icononologia e iconografia, Caterina Virdis Limentani, grande esperta di arte fiamminga ma deliziosa anche in altri ambiti (solo se dimostra questo grande agio e intelligenza a muoversi tra le epoche, mi risulta accettabile la lezione di un professore di storia dell'arte). In quella latta sono davvero condensati, come un sugo di pomodoro concentratissimo, millenni di arte, anzi millenni d'artisti. Ma c'è davvero la merda dentro? E adesso come sarà? Polvere simile a terra? Chi se ne frega. La "Artist's shit" è un fulmine di intelligenza destinato a rischiarare ancora a lungo. 

Achrome, 1960
Non conoscevo la produzione teorica di Piero Manzoni, anche se mi erano lacunosamente note le vicende della rivista "Azimuth" e dell'omonima galleria milanese,  fondata assieme a Enrico Castellani. Credo sia fondamentale conoscere la riflessione teorica dell'artista, se c'è. Se non c'è, pazienza. Ma se c'è è meglio. E nel caso dell'enfant terrible degli Achromes al caolino, dell'è: essere, delle uova firmate con l'impronta digitale e fatte mangiare, della linea di lunghezza infinita racchiusa nel cilindro, del fiato d'artista (come leggere oggi Jeff Koons senza Piero Manzoni? Come leggere l'ennesimo americano senza questo dirompente e unico italiano?) ora c'è questa possibilità di lettura realizzata dall'editore Abscondita. Questo artista morto giovanissimo come il suo cugino ideale, il judoka Yves Klein che operava, negli stessi anni, al di là delle Alpi, riflessioni analoghe sul monocromo, sul corpo come pennello vivente nelle Antropometrie, ha la capacità di riportarmi continuamente davanti una verità pronunciata da Ernst Gombrich: dovremmo parlare tutti meno di arte e parlare, più semplicemente, di artisti, che sono uomini, persone in carne e ossa (e che fanno anche la cacca). Una precisazione retta da uno scarto minimo che apre un territorio sterminato. E le cantonate che prenderemmo, seguendo Gombrich, sarebbero molte di meno.

Difficile scegliere da questo scrigno intitolato Scritti sull'arte e pubblicato da Abscondita (pp. 104, euro 14, a cura di Gaspare Luigi Marcone). Evito quei passi dove la prosa si fa più densamente filosofica (anche se qui sotto lo è eccome!), evito i passaggi indimenticabili sul quadro come spazio di libertà e quelli ancora più importanti ed essenziali sulla "gioia", e riporto questo passaggio, questa quote, che dice bene una cosa semplice e che in fondo ho sempre creduto vera. Sentite anche di quale prosa e scrittura era capace. Quanto bello è l'uso che fa della parola ginnastica, ad esempio?

"Il verificarsi di nuove condizioni, il proporsi di nuovi problemi comportano, con la necessità di nuove soluzioni, nuovi metodi, nuove misure; non ci si stacca dalla terra correndo o saltando: occorrono le ali; le modificazioni non bastano; la trasformazione deve essere integrale. Per questo io non riesco a capire i pittori che, pur dicendosi interessati ai problemi moderni, si pongono a tutt’oggi di fronte al quadro come se questo fosse una superficie da riempire di colori e di forme, secondo un gusto più o meno apprezzabile, più o meno orecchiato. Tracciano un segno, indietreggiano, guardano il loro operato inclinando il capo e socchiudendo un occhio, poi balzano di nuovo in avanti, aggiungono un altro segno, un altro colore della tavolozza, e continuano in questa ginnastica finché non hanno riempito il quadro, coperta la tela; il quadro è finito; una superficie d’illimitate possibilità è ora ridotta ad una specie di recipiente in cui sono forzati e compressi colori innaturali, significati artificiali. Perché invece non vuotare questo recipiente? Perché non liberare questa superficie? Perché non cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce pura e assoluta?

[...]

È per me quindi oggi incomprensibile l’artista che stabilisce rigorosamente i limiti di una superficie su cui collocare un rapporto esatto, in rigoroso equilibrio forme e colori; perché preoccuparsi di come collocare una linea in uno spazio? Perché stabilire uno spazio, perché queste limitazioni? Composizioni di forme, forme nello spazio, profondità spaziale, tutti questi problemi ci sono estranei; una linea si può solo tracciarla, lunghissima, all’infinito, al di fuori di ogni problema di composizione o di dimensione; nello spazio totale non esistono dimensioni.
Inutili sono anche qui tutti i problemi di colore, ogni questione di rapporto cromatico (anche se si tratta di modulazioni di tono); possiamo solo stendere un unico colore, o piuttosto ancora tendere un’unica superficie ininterrotta e continua (da cui sia escluso ogni intervento del superfluo, ogni possibilità interpretativa); non si tratta di “dipingere” blu nel blu o bianco su bianco (sia nel senso di comporre sia nel senso di esprimersi); esattamente il contrario: la questione per me è dare una superficie integralmente bianca (anzi integralmente incolore, neutra) al di fuori di ogni fenomeno pittorico, di ogni intervento estraneo al valore di superficie; un bianco che non è un paesaggio polare, una materia evocatrice o una bella materia, una sensazione o un simbolo od altro ancora; una superficie bianca che è una superficie bianca e basta (una superficie incolore che è una superficie incolore) anzi, meglio ancora, che è e basta: essere (e essere totale è puro divenire)."


[Piero Manzoni, Libera dimensione, in Azimuth 2, Milano 1960; ora anche in Scritti sull'arte, Abscondita, 2013.]

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