lunedì 12 maggio 2014

"Come i coralli" di Nicoletta Bidoia

Tempo fa, in una delle scorribande di letture sconclusionate di geologia e paleoantropologia, ero alle prese con un agile volumetto di Laterza, La scienza delle nostre origini, scritto dagli antropologi Claudio Tuniz, Giorgio Manzi e David Caramelli. Mi ero imbattuto in un passaggio sui coralli e avevo da poco letto in anteprima quasi tutte le poesie di Nicoletta Bidoia ora contenute in Come i coralli (La Vita Felice, pp. 84, euro 13). Questo il passo che avevo evidenziato con un orecchio: "Il corallo si forma sott'acqua, ma quando il livello del mare s'innalza, per esempio in seguito allo scioglimento dei ghiacci polari, l'aumentato spessore di liquido scherma il Sole, che così non può raggiungere le alghe che vivono simbioticamente con il corallo. Attraverso la fotosintesi, tali piante microscopiche forniscono ai coralli il nutrimento necessario, per cui l'assenza dell'energia solare fa morire le alghe e, a cascata, il banco di corallo".

"Il corallo è come noi. Pare uno, / ma sono tanti i tremori che lo fanno." Il titolo del libro, quell'allitterante similitudine del fiore-animale acquatico, accetta di arrivare a noi quantomeno in accezione duplice. Se prima vi è la meraviglia (e questo è un libro non estraneo alla meraviglia del vivere e alla festa dell'osservare e del raccontare), in seconda ma non secondaria battuta vi è la consapevolezza del corallo, che diventa scheletro calcareo di qualcosa che vive nascosto, nelle profondità dei mari o come fossile in quota tra le montagne. E se il corallo assomiglia a un tentacolare albero, L'albero è allora il titolo della poesia d'apertura, la prima della sezione intitolata Novecento e tutta incentrata su quel lavoro invischiato che è il recupero orale della memoria. Qui però avviene subito qualcosa di diverso, di nuovo: il riconoscimento di uno scarto che abita pienamente gli ultimi tre versi di questo testo.

Andò a Venezia negli archivi
e compose l’albero della vita,
la dinastia con le bandiere
sulla diramazione di un nome.
Trovò nel sangue tracce di Sardegna
e un più nobile corredo francese.
“Veniamo dai De Lion” diceva,
appuntando d’orgoglio le radici
di una storia. C’era tutto in quelle tavole,
compresa la filigrana dei destini,
ma l’albero si è perso, non si trova
e del disegno fastoso
non è rimasto niente.

Si discende adesso come tutti,
un rametto dopo l’altro
alla cieca.

Nel lungo componimento successivo, La solita storia, assistiamo al racconto della prigionia di guerra del nonno dell'autrice e diventa palpabile la presenza dell'opera, davvero centrale nella formazione e nella scrittura di Nicoletta Bidoia (in questo testo sono Tosca, Rigoletto e L'Arlesiana). Ed è sempre il canto, che davvero andrebbe capito in tutta la sua centralità nella letteratura, che ritorna anche nel testo intitolato Il gigante.

Stacca il turno e ritorna
fischiando Bandiera rossa.
La sventola sottovoce, in bici,
col sollievo di chi sogna. Qualcuno
ascolta - riporta - e in sette
sul piazzale della chiesa
rinfacciano ogni nota, colpendo invano
i suoi due metri e rotti di coraggio.
Li sistema tutti e rincasa.
Ma sono i giorni del ‘28 e un canto
si paga col morire. Basta un soffio,
un’ipotesi di castigo e un camion
tende l’agguato a quella voce.
La squadra si avvicina una sera,
di fronte al bar di Lancenigo,
facendo fuori l’usignolo
lì, sulla strada.

Un'oralità polifonica e fittamente abitata, quasi dolcemente invasa dagli altri e così vivida nella prima sezione, subisce poi un arresto non brusco, tuttavia deciso e meditato, nella parte centrale intitolata Silenzi. Sembra qui sfrondato il numero di persone precipitate dentro i testi. Qui, come nei ritagli dei collage e dei teatrini di carta in cui l'autrice trova la propria più grande beatitudine (si possono vedere su Youtube), si prova davvero a trascrivere il silenzio "quasi fosse l'aria rarefatta di un ghiacciaio". Ed è qui che si registra meglio anche quel rallentamento che appartiene al ricordo. Così, in una poesia che prende lo spunto architettonico e volumetrico da due chiese, leggiamo:

Due chiese mi porto dentro:
quella interna al collegio a Reggio Emilia
- nella viva preghiera ero in attesa
che la pietra si allungasse
e tenesse davvero con sé -
e Santa Lucia a Treviso, sempre di mattina presto,
dopo la corriera e prima dell’ufficio,
deserta anche quella.
Una mezzora di niente, poco meno,
uno slargo atteso di silenzio. Mi ostinavo così
ad accogliere Dio o un suo frammento,
come quando insistevo di andare all’asilo
prima degli altri, per vederli arrivare
e per capire da dove veniva tutta la gioia
che avrei provato dopo (con gli altri
si vive anche così, da soli,
e pieni di pensieri per loro)
- poi le braccia si allargavano
perché avevo fatto spazio. Ecco, il buio
è solo un’altra faccia da guardare
e a volte anche la nostra si spegne
e fa paura, così finisce che tutto
è reciproco di qualcosa, e anche se non vuole
ne fa parte.

Parlami, la terza e conclusiva sezione di Come i coralli, si apre ancor più alla molteplicità del vivere e alla stratificazione di situazioni che ci conducono in molti posti, in tanti piani del sentire e del resistere, persino da un veterinario bizzarro che dà ancora del voi. E se "tutto varia col variare del tutto", come vuole il Fabio Pusterla citato in epigrafe del volume, c'è qualcosa che inevitabilmente resta. In Cima Uomo si legge:

Resta la luce delle cose indovinate,
l’armonia che a fine agosto si incastona
nella conca tra Cima Uomo
e l’ansia. Portiamo qui la vita
- il modesto dono al paesaggio -
davanti a quelle pale,
mai così lontane come oggi nelle nuvole,
mentre sale la musica dal fondo
a ricordare tutta la fatica
di essere cima, burrone,
strapiombo e quasi mai
essere prato. 

I coralli, nel loro essere quasi-pietra quasi-rosso quasi-sangue (Pietra sangue per ritornare a Pusterla?) e nel loro esistere così dipendenti e in fondo grati all'inclinazione dei raggi solari che ricevono, all'habitat dei loro banchi, ci invitano a riunire le barriere del mare con le buzzatiane barriere delle pareti dolomitiche, che furono mari tropicali a loro volta, in tempi lontanissimi, e poi a provare a tastare la temperatura e la pelle di quei visi di roccia dove vediamo proiettato il tremolio rosso-viola dell'enrosadira, quel magnifico fenomeno cromatico che dà il titolo a una poesia di questo libro. I coralli e le rocce ci invitano anche a compiere quello sforzo davvero oltraggioso e creativo che ci vede trasformare il bianco del bicarbonato di calcio e del magnesio nell'accensione di un viso ("Se parliamo di loro, la distanza scompare / e ci raggiunge in pianura una pace / e un lieve discorso di pietre dolomiti / che sanno mutare le pareti come guance, / trasfigurare le crode in alba, /in docile tramonto."). Si verifica in questo libro una sorta di simbiosi di uomo natura e scrittura che non è un artato rimescolamento di piani e dei regni viventi, bensì un'interrogazione fonda e mai calcata del nostro stare al mondo.

Il corallo è come noi. Pare uno,
ma sono tanti i tremori che lo fanno. La fiducia
sembra farsi verticale, poi s’inclina
- basta un’ombra che s’impiglia in uno sguardo.
Chi racconta di colonie millenarie sta parlando
dei giorni nostri in fila, se non fosse che ogni tanto
si spira per un niente.
Siamo scheletri e barriere e rosso vivo
che si annoda e che compone
- sapendo di mentire - un ordine perfetto
e la sua fine.



(La trasmissione Fahrenheit di Radio Tre dedicava proprio oggi un'intervista all'autrice, completata dalla registrazione di alcuni testi di questo nuovo libro letti dalla voce stessa di Nicoletta Bidoia.)

2 commenti:

  1. ho sentito la poesia di bidoia in radio e mi è subito sembrata centrale per come penso io lo scrivere e il leggere. E grazie a lei per averne scritto. margherita

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  2. Mi ritrovo in questo ritmo camminante.

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