sabato 6 settembre 2014

Tradurre Seamus Heaney. Un'intervista con Marco Sonzogni in occasione dell'uscita di "Morte di un naturalista"

Librobreve intervista #46

Morte di un naturalista, il libro con cui il poeta e premio Nobel Seamus Heaney esordì nel 1966, esce in questi giorni per Mondadori all'interno della collana Lo Specchio (pp. 128, euro 17). La traduzione è di Marco Sonzogni, poeta e traduttore che mi risponde da Wellington dove vive e lavora e che per l'occasione ho il piacere di ospitare nuovamente in questo spazio, in veste di intervistato, commentatore e artefice della scelta dei testi che qui proporremo. Parleremo di Heaney e di questo importante esordio, di traduzione, dei rapporti di Heaney con l'Italia. E siamo in grado di offrire ai lettori, per gentile concessione della casa editrice, un paio di testi da questo volume freschissimo di stampa. Oltre all'intervistato ringrazio anche per la proficua e reattiva collaborazione Federico Napoli della casa editrice Mondadori.

LB: Prima ancora che la tua fatica confluisca nel Meridiano di Mondadori con l’opera poetica di Seamus Heaney, il lettore italiano avrà la possibilità di leggere a breve la tua traduzione di "Morte di un naturalista", il libro d'esordio del 1966 del premio Nobel nordirlandese morto lo scorso agosto. Che libro è? Cosa resta di questo esordio nel Seamus Heaney che verrà e in che cosa Heaney si distanzierà decisamente nella scrittura successiva?
R: Morte di un naturalista è un libro – volendo ricorrere a un solo aggettivo – pre-potente. Mi spiego. Segnala l’ingresso nel mondo della poesia di un autore nuovo e già maturo con un libro che è potente in sé e predice e prepara la piena potenza che troverà espressione nelle raccolte successive. Un libro di eclatante (e quasi spaesante) trasparenza: un libro che rivela. In esso, infatti, il poeta si conosce e ci aiuta a conoscerlo. In questo senso ogni poesia è un tassello prezioso con cui cominciare a comporre il puzzle di una figura straordinaria. Morte di un naturalista decreta la nascita di un uomo e di un autore che dal paesaggio (umano, animale, vegetale) della natia campagna nordirlandese ha tratto valori e coordinate esistenziali (sociali, culturali, politiche, religiose) che lo accompagneranno sia dal punto di vista umano che artistico (per questo ho scelto ‘Un avanzamento delle conoscenze’ e ‘Le prime purghe’ come testi rappresentativi). Inizia con questo libro un viaggio che si è prematuramente interrotto un anno fa con una raccolta, uscita postuma, di traduzioni pascoliane: L’ultima passeggiata.  

LB: "C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole, / anzi d'antico: io vivo altrove, e sento / che sono intorno nate le viole." Heaney fu traduttore  di Giovanni Pascoli. In particolar modo ricordiamo la sua versione de "L'aquilone". Che cosa ricerca e cosa trova Heaney nel poeta di San Mauro?
R: Heaney ha trovato in Pascoli un compagno di campagna, se mi passi il gioco di parole – un’affinità umana prima ancora che poetica: un modo di vedere, di comprendere, di sentire le cose – e quindi un compagno di passeggiata. Quel ciclo di madrigali all’interno di Myricae è stato dunque un richiamo naturale e per questo poeticamente produttivo. Paolo Febbraro ed io ci siamo trovati a seguire lo sviluppo di questa raccolta, restando colpiti, appunto, dalla naturalezza con cui Pascoli era diventato Heaney: un incontro, quello tra Pascoli e Heaney, che illustra tutte le dimensioni della traduzione. 

LB: Tradusse anche altri poeti? E, al di là di questo, quali furono i poeti di cui Heaney scriveva spesso o i poeti dei quali magari ti parlava più spesso?
R: Heaney ha letto e tradotto Dante, e l’ombra lunga del sommo poeta avvolge tante poesie di Heaney, dagli anni ’70 fino alla fine. Heaney ha letto anche Leopardi e Montale, che non ha però tradotto – non nel senso letterale di traduzione. Alcune osservazioni, alcuni scarti epifanici per così dire, hanno, infatti, riflessi leopardiani (tanti poeti inglese e irlandesi del resto si sono confrontati in modo più o meno diretto con il poeta di Recanati); e le anguille che troviamo in Heaney sono anche di matrice montaliana, seppur mediate da quel poeta-traduttore tanto particolare quanto influente che è stato Robert Lowell.  

LB: Questa intervista appartiene a una serie che intendo dedicare ai traduttori. Tu vivi da tempo lontano dall'Italia. Che effetto ti fa tradurre e usare l'italiano, oltre che per ragioni quotidiane, per tradurre in poesia poeti che ami? Voglio dire, il fatto che tu viva lontano dall'Italia ha qualche riverbero sul modo in cui traduci e senti la lingua che usi?
R: Non ho mai preso per scontata la mia lingua madre. Quindi anche dopo più di vent’anni lontano dall’Italia, continuo, per così dire, a ri-scoprirla e ri-impararla, soprattutto attraverso la poesia – non solo le voci consacrate dalla tradizione ma anche quelle di oggi. L’esempio di altri traduttori (sono tanti quelli che si sono cimentati con la poesia e la prosa di Heaney) mi ispira e mi incoraggia sempre:  ci sono sempre tante cose da imparare e da migliorare. Ma i momenti più gratificanti sono stati quelli che ho vissuto attraverso la revisione. La generosità e la fiducia di Seamus Heaney, la sua incredibile pazienza e umiltà, mi hanno illuminato e guidato. E così la competenza e l’esperienza di Anna Ravano, che mi ha accompagnato oltre i miei limiti di traduttore. La traduzione richiede in primis umiltà – è, after all, un atto di servizio: tanto al testo originale quanto a chi a quel testo originale non ha accesso. 

LB: C’è un poeta che sogni di tradurre? E un romanziere?
R: Tradurre la poesia Seamus Heaney era un sogno che avevo dal momento in cui lessi una delle sue prime poesie dedicata ai trattori. Delle sue dodici fatiche – “twelve labours”, così Seamus si riferiva alle raccolte di poesia– in italiano mancano solo Wintering Out (1972) e Field Work (1979). Mi piacerebbe tradurre questi due libri. Ma il sogno si è avverato, e non voglio passare per ingordo o ingrato. Chamber Music di Joyce è un libro che mi ha sempre intrigato. E uno di questi giorni cercherò di tradurre gli haiku (Inchicore Haiku) dell’irlandese Michael Hartnett – persona e poeta di grande integrità e talento. Con così tanta poesia non avrei tempo per un romanzo: lasciamo allora la porta aperta a un’altra intervista.

An Advancement of Learning


I took the embankment path
(As always, deferring
The bridge). The river nosed past,
Pliable, oil-skinned, wearing

A transfer of gables and sky.
Hunched over the railing,
Well away from the road now, I
Considered the dirty-keeled swans.

Something slobbered curtly, close,
Smudging the silence: a rat
Slimed out of the water and
My throat sickened so quickly that

I turned down the path in cold sweat
But God, another was nimbling
Up the far bank, tracing its wet
Arcs on the stones. Incredibly then

I established a dreaded
Bridgehead. I turned to stare
With deliberate, thrilled care
At my hitherto snubbed rodent.

He clockworked aimlessly a while,
Stopped, back bunched and glistening,
Ears plastered down on his knobbled skull,
Insidiously listening.

The tapered tail that followed him,
The raindrop eye, the old snout:
One by one I took all in.
He trained on me. I stared him out

Forgetting how I used to panic
When his grey brothers scraped and fed
Behind the hen-coop in our yard,
On ceiling boards above my bed.

This terror, cold, wet-furred, small-clawed,
Retreated up a pipe for sewage.
I stared a minute after him.
Then I walked on and crossed the bridge.


Un avanzamento delle conoscenze


Presi il sentiero lungo l’argine
(come sempre, schivando
il ponte). Il fiume correva annusando,
flessuoso, impermeabile, coperto

da una decalcomania di facciate e di cielo.
Curvo sulla ringhiera,
ormai lontano dalla strada
osservai i cigni dalla chiglia sporca.

Qualcosa sciaguattò, brusco, vicino,
sbavando sul silenzio: un ratto
sgusciò viscido dall’acqua e
la nausea mi salì in gola così di colpo che

ripiegai lungo il sentiero sudando freddo
ma, Dio, un altro svelteggiava
su per l’argine opposto, tracciando i suoi archi
bagnati sui sassi. Incredibilmente allora

stabilii una temuta
testa di ponte. Mi girai a fissare
con meditata, fremente attenzione
il mio roditore fin lì snobbato.

Girò a vuoto su se stesso per un poco,
si fermò, rinsaccato e luccicante,
le orecchie appiattite sul cranio nocchiuto,
insidiosamente in ascolto.

La coda affusolata che lo seguiva,
gli occhi gocce di pioggia, il vecchio muso:
uno alla volta presi atto di tutto.
Mi puntò. Ressi la sfida e la vinsi

dimentico del panico che mi prendeva sempre
quando i suoi grigi fratelli grattavano e mangiavano
dietro al pollaio nel nostro cortile,
sulle assi del soffitto sopra il mio letto.

Quel terrore, freddo, il pelo bagnato, i piccoli artigli,
ripiegò su per un tubo delle fogne.
Stetti a guardarlo un altro istante.
Poi mi rimisi in cammino e attraversai il ponte.


The Early Purges


I was six when I first saw kittens drown.
Dan Taggart pitched them, ‘the scraggy wee shits’,
Into a bucket; a frail metal sound,

Soft paws scraping like mad. But their tiny din
Was soon soused. They were slung on the snout
Of the pump and the water pumped in.

‘Sure isn’t it better for them now?’ Dan said.
Like wet gloves they bobbed and shone till he sluiced
Them out on the dunghill, glossy and dead.

Suddenly frightened, for days I sadly hung
Round the yard, watching the three sogged remains
Turn mealy and crisp as old summer dung

Until I forgot them. But the fear came back
When Dan trapped big rats, snared rabbits, shot crows
Or, with a sickening tug, pulled old hens’ necks.

Still, living displaces false sentiments
And now, when shrill pups are prodded to drown,
I just shrug, ‘Bloody pups’. It makes sense:

‘Prevention of cruelty’ talk cuts ice in town
Where they consider death unnatural,
But on well-run farms pests have to be kept down.


Le prime purghe


Avevo sei anni la prima volta che vidi affogare dei gattini.
Dan Taggart li lanciò, “stronzetti tutt’ossa”,
dentro un secchio; un fragile suono metallico,

soffici zampe che graffiavano all’impazzata. Ma il loro minuscolo chiasso
fu presto affogato. Li appese al muso
della pompa e pompò l’acqua.

«È meglio così per loro, no?» disse.
Come guanti bagnati sobbalzarono lucenti finché lui li rovesciò,
acqua e tutto, sul letamaio, lustri e morti.

Di colpo impaurito, per giorni gironzolai triste
nel cortile, osservando i tre resti mollicci
diventare farinosi e croccanti come vecchio letame estivo

finché me li dimenticai. Ma la paura ritornava
quando Dan catturava grossi ratti, acchiappava conigli, sparava ai corvi
o, con uno strattone nauseante, tirava il collo alle galline vecchie.

Comunque, vivere rimuove i sentimentalismi
e adesso, quando striduli cuccioli sono spinti sott’acqua,
alzo solo le spalle, “Maledetti cuccioli”. Ha senso:

“Protezione degli animali” sono parole che fanno presa in città
dove la morte è ritenuta innaturale,
ma nelle fattorie ben gestite i parassiti vanno contenuti.


Per gentile concessione di:
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano

Tratto da “Morte di un naturalista” di Seamus Heaney – traduzione di Marco Sonzogni
© 2014 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
© Seamus Heaney, 1966, 1991

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