sabato 29 novembre 2014

Poesie inedite di Giusi Montali


"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare.


Due poesie inedite di Giusi Montali (Carpi, 1986) da L'agiografia umana



III.


in india ogni tre anni si è liberi dal ciclo terrestre:
né vita né morte, l’elisir cade da un catino conteso
ai quattro angoli del paese le gocce svelano il regno
del sole, alla confluenza dei fiumi la purificazione

si trasmette per generazioni, mentre il sadhu si salva
individualmente e fa ritorno al cosmo, shiva fuma
con lui hashish e si ritrova sull'eminenza tanar delle
discrezioni: hegel ha torto, e preferisce la coincidenza

di pensiero e modus vivendi, si scopre gimnosofista
eremita del corpo nell'ascesi del silenzio, nell'imbuto
del bacino le voci percorrono il corpo mesmerizzato:

anche i topi sono sacri, nell'inconscio si ingravida
il ramo d'oro, i bambini e i cantastorie si sottraggono
alla morte e proseguono lesti un altro giro di vita


VII.

l'how to do risuona preciso e ossessivo tra l'erba
e il sole: l'affinità e la predisposizione non contano
vince l'etichetta che si insinua nei primi giochi, legate
le gambe, stretti i piedi, il passo è contratto e incerto

- nemmeno l'istinto è tanto perentorio se abbandona
i figli alla soglia - nasce lenta e invasiva l'opposizione
che lima l'asta al cromosoma, la disobbedienza diviene
precisa e costante, simone sostituisce ifigenia ma a maggio

la datura apre gli occhi: la visione si staglia geometrica
nel blu, mentre il sangue percuote il ritmo dei tamburi
la sinistra diventa destra, il bianco nero, l'uomo capovolto

nella donna che spalanca gli occhi al campo di battaglia
la porta, quella, la lascia sempre aperta: ogni gesto appreso
ora è un'opposizione al canone

mercoledì 26 novembre 2014

"Atlantide" di Hart Crane. Poesie, prose e corrispondenze tradotte da Simone Maria Bonin

Librobreve intervista #49

Oggi propongo un'intervista a Simone Maria Bonin, traduttore e curatore del volume del poeta statunitense Hart Crane intitolato Atlantide (Thauma edizioni associazione culturale, pp. 238, euro 10). Mi risponde dall'Inghilterra dove vive e studia matematica e questa chiacchierata a distanza, per molti versi, è una boccata d'aria fresca.



Hart Crane (1899-1932)
LB: Hart Crane era scomparso dalla circolazione in Italia, pur avendo avuto in passato anche importanti edizioni (si ricordi soltanto quella di Guanda curata da Roberto Sanesi). Ci racconti del tuo avvicinamento alla sua opera, dando anche qualche coordinata su questo autore?
R: Ci sono autori che amano disperdere le proprie tracce. Hart è fra questi. Nasce in Ohio nel 1899 ed è figlio del nuovo secolo delle macchine, per la quali ha un forte interesse. Non nasconde la propria omosessualità e questo, nell’America puritana del tempo, gli rende la vita difficile. Si scontra continuamente col padre e vagabonda da un posto all’altro in cerca di lavori per sostenersi. Scrive nei ritagli di tempo e la frustrazione di non potersi dedicare alla Poesia lo perseguiterà tutta la vita. C’è un constate richiamo all’oceano nei suoi scritti. Crane è una vera e propria mere-maid, un compagno del mare. Alza la voce dai fondali marini aspettando un eventuale palombaro che ne percepisca il suono e si immerga e lo riporti in superficie, giusto per qualche istante. Ricordo di essermi avvicinato alla letteratura americana a 14 anni. I miei primi contatti furono con Leaves of Grass di Whitman, un libro che porto con me dovunque vada. Scoprii poi le impennate linguistiche di Cummings, gli scritti di Ezra Pound, per il quale ho una lieve ossessione e poi Masters, Moby Dick e infine gli ordigni esplosivi della beat generation, penso a Howl, Naked Lunch o Mexico City Blues. Un giorno lessi un commento di Ginsberg circa il lavoro di Crane, che non conoscevo. Lo chiamava un esempio di Stupidità e Genio fusi assieme. Mi informai sull’autore e incuriosito dal commento mi feci arrivare dagli Stati Uniti una vecchia copia dei Complete Poems di Crane, edita Doubleday Anchor Book. Non riuscivo a coglierlo. L’inglese di Crane è un inglese difficile, ricco di termini ricercati e riferimenti alchemici. Sta di fatto che c’era qualcosa in quel libro che richiamava la mia attenzione. Alcuni distici furono per me una rivelazione.
In quel periodo traducevo e scrivevo molto. Stavo lavorando a una traduzione del Prufrock di Eliot e delle canzoni di Blake. Così decisi di provare a mettere le mani su Crane. Fu un tentativo fallimentare. Non avevo né la capacità tecnica necessaria né una comprensione dell’inglese adeguata per renderlo in italiano. Decisi di mettere il progetto da parte, con il sogno e la convinzione che un giorno ci sarei riuscito e così è stato. 
Credo che il significato del verbo “leggere” sia un equivoco linguistico. Si guarda spesso a un libro come a un codice da decifrare e immagazzinare attraverso lo sguardo. Sono di un parere contrario. Il foglio in questo caso è il nostro corpo. Il libro, o qualsiasi altra manifestazione di linguaggio, porta in sé delle tracce, dei meccanismi iscrittori che ci scrivono. Ed è sempre il libro a scegliere il proprio “lettore” e non il contrario.


Vachel Lindsay (1879-1931)
LB: "Giovane" è una brutta categoria. Sembra più un ritrovato del marketing letterario, oramai. Resta il fatto che sei indubbiamente giovane. Da come ho percepito, questo tuo lavoro assomiglia molto al risultato di un innamoramento e folgorazione che ha cercato di concretizzare in un libro il tutto. Davvero è così? Altri innamoramenti e folgorazioni?
R: È davvero così e mi rende molto felice sapere che questo è quanto ne traspare. Atlantide è scritto in forma di preghiera, di canto liturgico, nel senso di pegno spirituale. La mia attività di lettore (iscritto – seguendo quanto detto prima) è molto carnale. È un continuo corteggiamento che parte dal primo contatto con la copertina di un libro e si addentra fra le pagine. Per dirla con G. Deleuze, cerco di mettere in contatto le mie macchine desideranti coi meccanismi del libro. Se gli ingranaggi combaciano scatta la scintilla. Mi sono sempre sentito in dovere di tradurre quegli autori che mi hanno dato una mano nel groviglio del mondo. Tradurre un autore è un modo di includerlo nelle proprie tracce, e prolungarne le risonanze. Riuscirci è una soddisfazione enorme. Mi chiedi se ci sono altri innamoramenti e folgorazioni in vista? Sì, molti.
Assieme a Gerardo de Stefano, ideatore della collana Rigor Mortis, stiamo svolgendo un lavoro di ricerca che va a mappare la letteratura europea e americana (al momento). Vogliamo individuare tutti quei nomi mai tradotti e dimenticati. Viaggiamo sulla stessa lunghezza d’onda ed è un piacere lavorare assieme. Purtroppo l’editoria del nostro paese non dà alcun valore a progetti come questo e la gente non è interessata alla poesia. Ma non ci importa molto. La RigorMortis nasce proprio per mettere in evidenza i cortocircuiti del mercato del libro in Italia. Il titolo è corrosivo e dà voce al fastidio che proviamo ogni qual volta vediamo gli stessi autori riproposti sulle vetrine delle librerie. Sempre più spesso mi accorgo di quanti contemporanei che pensano di aver scoperto linguaggi nuovi non facciamo altro che riscoprire vecchi poeti sconosciuti che hanno scritto le stesse cose decenni prima. Dovrebbero avere l’umiltà di pubblicare meno e tradurre di più, e di guardarsi intorno prima di invocare la sibilla del Linguaggio. Vachel Lindsay, volume primo della Rigor Mortis e tradotto magistralmente da Paola Roberta Berizzi, pure giovane, è un bellissimo esempio di quanto sto affermando. Un autore che ha anticipato la beat generation di più di 50 anni.

LB: Come nasce il rapporto con Thauma edizioni?
R: Ho incontrato Gerardo de Stefano e Serse Cardellini per la prima volta a Treviso, nel 2010, presentavano un loro libro a un serata di poesia organizzata da Marco Scarpa. Con Gerardo è nato subito un reciproco interesse. Siamo tipi piuttosto solitari e non sopportiamo la letteratura da circoli e club, che crea sempre meccanismi di potere critico molto pericolosi. Abbiamo continuato a sentirci, fino a quando mi ha parlato di quest’idea che aveva in mente da tempo. Seduti al bancone di un’osteria, Gerardo tira fuori dalla sua sacca un malloppo di libri vecchi e qualche appunto. Parla di autori andati dispersi, di rabbia per un mercato del libro che non funziona, del sogno di farsi tombaroli e rispolverare i tesori che nessuno considera più. Ne nasce la collana RigorMortis. Serse Cardellini dà alle stampe la sua traduzione di Edith Stein che aveva pronta da molto tempo. Paola Roberta Berizzi traduce magistralmente Vachel Lindsay. Paolo Galvagni si unisce al team con Nere sopracciglia di Taras Ševčenko. Insomma succede tutto molto per caso e abbastanza in fretta e siamo contentissimi d’essere riusciti a stampare 4 libri in meno di un anno e di averne molti altri in progetto.

LB: Rimanendo al tuo lavoro di traduzione, quali difficoltà hai incontrato nella scelta dei testi, nell'ottenimento di eventuali autorizzazioni e soprattutto nel confronto testuale con l'opera di Crane?
R: La scelta dei testi muove da due volumi principali. I Complete poems della Doubleday Anchor Book e un epistolario - The Letters of Hart Crane- curato da Brom Weber. Sapevo cosa mi sarebbe piaciuto includere nell’antologia e cosa invece preferivo tralasciare. Individuare i testi importanti è stato piuttosto semplice. Non ho dato troppo peso agli ultimi lavori di Hart, agli scritti dal Messico, né ai versi giovanili, mai pubblicati durante la sua vita. Atlantide comincia dalla presa di coscienza di Crane d’essere poeta, comincia dalla carne, e termina con Eos, dea dell’Aurora, sorella del Sole e della Luna, eppure lontana, è divinità che sorge ogni mattina dal confine ultimo degli oceani e risplende. È inoltre Madre dei venti e per questo causa delle nostre navigazioni. Quello che io credo sia la poesia: né apollinea né luna bianca, come definita da Graves, ma piena resurrezione dell’alba e costante moto di materialità e linguaggio.
Il confronto testuale con l’opera di Crane non è stato affatto semplice. Fortuna vuole che il mio stile personale si avvicini abbastanza alla sua ritmica, pure se completamente differente. Per darne una breve analisi, credo sia utile suddividere il verso di Hart in tre tipologie diverse. C’è un Hart Crane simbolista, dove l’arcano della parola è indissolubilmente legato alla parola stessa. È il Crane di Edifici bianchi, quello per me più difficile da tradurre. Qui la ritmica passa in secondo piano ed è la densità di significati che la fa da padrone. Ha richiesto un’attenzione maniacale al linguaggio. Ci sono testi in Edifici bianchi dove la volontà alchemica di Crane di manipolare la magia delle parole sfocia in risultati particolarmente estremi e intraducibili: penso a Lachrymae Christi o a Recitativo. C’è poi il Crane epico-simbolista ad ampio respiro. È il Crane del Ponte. Gli arcani sono legati al simbolo dell’opera, i versi sono invece epici, fluviali. Lo stesso Crane afferma come il distendere il verso scrivendo il Ponte l’abbia aiutato molto. Cominciava a sentirsi costretto. C’è poi un terzo Crane. È il Crane mitologico e prosaico di Eternità. Eternità è una narrazione del diluvio, un uragano che colpisce l’isola dei pini a Cuba. Il tema è biblico, la simbologia è completamente rovesciata. L’uomo sopravvissuto trova conforto nel discorrere con arroganti soldati. L’apocalisse è raffigurata da due cavalli che si affrettano verso il mattino. Le lacrime che ne sgorgano sono di rassegnazione e di salvezza. “Tutto perduto, o ravvolto di grazia e mistero”.
Rendere la poesia polimorfa di Crane ha richiesto l’uso di ogni mia risorsa. Mi sono sentito messo alla prova tecnicamente sotto ogni aspetto. Non facile poi è stata la traduzione delle lettere. Ci sono passaggi decisamente ambigui dove l’uso della sintassi inglese è inconsueto e arduo da decifrare.


LB: Il libro che ci troviamo tra le mani, Atlantide, è un un'opera che ibrida poesia, prosa, interventi e bellissime lettere. Come ti sei mosso nel montaggio?
R: Atlantide in corso d’opera ha assunto molte forme diverse. L’idea iniziale era quella di pubblicare una selezione di saggi e lettere, escludendo le poesie, per paura che potesse trattarsi di una mole di lavoro esagerata. Il pensiero di scontrarmi con alcuni testi di Edifici bianchi e con l’unità primordiale del Ponte mi spaventava. Eppure era evidente che i saggi e le lettere, da soli, non bastavano; di Crane emergevano gli organi interni, mancavano le forme degli arti, mancavano i moti, le folgorazioni poetiche. Così iniziai a tradurne i versi. Non avevo però alcuna voglia di presentare all’eventuale lettore un’antologia di quelle che si sono sempre scritte, mantenendo stagne le opere poetiche e relegando lettere e saggi in epistolari che non legge mai nessuno. È un modello che non funziona e non serve. Crane inoltre è un autore che i più definiscono difficile e complesso. Mi sono deciso a districare questa apparente complessità su carta. Ho cercato di svolgere il corpo di Crane e creare una specie di superficie, un atlante, che permettesse al lettore di addentrarsi nei versi di Hart e di coglierne le scintille che li hanno fatti nascere. Assemblare un libro così che l’uomo e le lettere coincidano, perché è sempre il caso se si tratta di Poesia. Allo stesso tempo distinguere la vita dall'eternità e riaffermare la vita nell'eternità. Volevo che tra le pagine di Atlantide trasparisse quel ragazzo combattuto, dilaniato dalla dea della poesia e ferito dai traumi familiari, dalle situazioni e dalle necessità del quotidiano, dai compromessi. Volevo che trasparisse il modo in cui quell'entità che ci domina il cuore e che non riusciamo mai a definire, la parola, sconvolge la vita di un Poeta, come Crane. I versi sono crudeli. La poesia non concede spazi. È farmaco e veleno che non accetta rimedio, in una contorsione continua. Ne è nato un ibrido, come definisci tu. Un’antologia che attentamente intervalla lettere e saggi alle opere poetiche. Ho semplicemente seguito il mio istinto, cercando di non deframmentare troppo conglomerati come il Ponte e le suites di Edifici bianchi. Spero questo ibrido riesca nel suo intento.

LB: Non vivi in Italia, per cui immagino ti sia difficile promuovere e veicolare questa tua fatica. Ci riesci e ci provi comunque? Grazie.
Mi è molto difficile. Vivo in Inghilterra da ormai tre anni e mi sposto spesso. Torno in Italia di rado. La promozione della collana è portata avanti principalmente da Gerardo. Per ora stiamo organizzando varie presentazioni e all'orizzonte c’è qualche invito interessante. Purtroppo dobbiamo sempre guardare ai fondi, limitati, ed è importante credo, trovare persone che siano disposte a darci un po’ di visibilità. Sono fermamente convinto della validità artistica del nostro lavoro, della validità di quanto è stato fatto finora e di quanto verrà dato alle stampe a breve. Ti ringrazio moltissimo per questa discussione. 

lunedì 24 novembre 2014

Place to Be. A quarant'anni dalla morte di Nick Drake un ricordo dei testi curati da Paola De Angelis in "Journey to the Stars"

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #25
Musicali pretesti #2

Di tanto in tanto, una notizia su un libro e un brano da ascoltare, al libro collegato.

Sono passati quarant'anni dalla morte di Nick Drake, ritrovato ucciso da un'overdose di antidepressivo triciclico nella casa dei genitori il 25 novembre 1974. Le notizie su quel giorno ci ricordano sempre i Concerti brandeburghesi di Bach sul piatto del suo giradischi. Penso si possa spendere la dicitura "quasi classico" per questo Journey to the Stars (pp. 251, euro 14, ancora in commercio), libro che Arcana pubblicò nel 2007 per la cura di Paola De Angelis. Chi ascolta la bella trasmissione "Sei gradi" di Radio 3 (alle 18, dal lunedì al venerdì) sa bene chi è Paola De Angelis. Non c'è forse molto da aggiungere. D'altra parte questi "Musicali pretesti" di Librobreve sono appunto una scusa per ricordare un libro musicale, recente o datato, magari letto anni fa e sempre meritevole di attenzione, e infine un pretesto per chiudere con l'ascolto di un brano. Aggiungo però che anche qualora conosciate a memoria da una vita i testi di Drake, la curatela di Paola De Angelis è davvero notevole, non comune in libri simili e per questo ho parlato di "quasi classico" e lo ricordo oggi. 

Five Leaves Left del 1969 resta forse il mio album preferito, ma ora scelgo Place to Be, la seconda traccia di Pink Moon.
 

When I was young, younger than before
I never saw the truth hanging from the door
And now I'm older see it face to face
And now I'm older gotta get up clean the place.

And I was green, greener than a hill
Where flowers grew and the sun shone still
Now I'm darker than the deepest sea
Just hand me down, give me a place to be.

And I was strong, strong in the sun
I thought I'd see when day is done
Now I'm weaker than the palest blue
Oh, so weak in this need for you.

giovedì 20 novembre 2014

"Le cose sono due" di Francesco Targhetta, Premio Ciampi - Valigie Rosse 2014

Le cose sono due di Francesco Targhetta è il recente vincitore dell'importante riconoscimento poetico "Premio Ciampi - Valigie Rosse 2014" (Valigie Rosse, pp. 52, s.i.p.). Contiene anche le belle fotografie di Riccardo Bargellini e la postfazione di Paolo Maccari, curatore della collana assieme a Valerio Nardoni. Arriva dopo l'esordio dal titolo bifronte di Fiaschi del 2009 e dopo il romanzo esploso in versi intitolato Perciò veniamo bene nelle fotografie del 2012, di cui s'è scritto anche in queste pagine molti mesi addietro. In realtà Targhetta è apparso in queste pagine anche in veste di curatore intervistato sui Fuochi d'artifizio di Corrado Govoni non molto tempo fa. E le govoniane (crepuscolari, foucaultiane ecc.) "cose" appaiono sin dal suo nuovo titolo, che si pone come frammento prelevato da un parlato quotidiano del quale però non ritroveremo tante altre tracce nei testi. O, meglio, troveremo anche inserti di parlato, ma stravolti, attorcigliati in una frase, spesso tra virgolette o protagonisti di iperbati. Il titolo spinge dentro il campo del testo poetico il classico aut-aut, senza dire però quali siano i termini della disgiunzione. Due sono le cose e due le sezioni dell'opera, intitolate laconicamente "Uno" e "Due", due come i lati di un 33 o di un 45 giri, come quelli di una musicassetta: la prima sezione senza titoli, la seconda con tutti testi titolati e la breve prosa che, con sapore quasi landolfiano, titola "Le quattro vedove". Due sono anche i momenti, se come sostiene Paolo Maccari, i testi qui raccolti "alternano un momento metaforico e uno più spiccatamente narrativo, naturalmente intersecati e vicendevolmente alimentati."

Da un punto di vista stilistico, abbandonata l'ironia dei Fiaschi o il marzialiano fulmen in clausola che a lungo ha accompagnato la sua scrittura, Targhetta qui recupera un serbatoio di immagini anche macabre, talvolta sconsolate e comunque assai intense che quasi certamente in Govoni s'è alimentato e rigenerato. In "Appuntamenti mancati" chiude così: "Solo a casa ho poi sentito il sapore, / dentro le ossa, / di questi transiti un poco tardivi: / non l’aroma all’incenso dei morti, / ma la puzza violenta dei vivi." Lo si nota spesso quando chiama in causa parti del corpo umano o il corpo umano stesso, o quando definisce "moka" il colore delle pelli degli studenti all'altezza di giugno, dopo i primi soli in piscina. Tutto questo però coesiste assai naturalmente con innesti plurimi, con scelte lessicali eteroclite e con altre quasi eterodirette da situazioni di vita tanto codificate nel loro punto di partenza quanto aperte nello svolgersi della poesia, come nel caso del testo intitolato "Flessioni", dove fa capolino un finale che potrebbe essere stato cantato dalla Mina di Città vuota: si tratta forse di quella componente pop, ricordata anche da Maccari, che in realtà non è mai stata disgiunta dal versificare di Francesco Targhetta. C'è pure un gusto
nuovo, almeno per il mio orecchio, per quello che si sarebbe chiamato un tempo il forestierismo, ampiamente assorbito e addomesticato eppure ancora diligentemente lasciato in italico nel testo: crooner, nachoseyeliner, front-office ma anche il dialettismo di picà per "impiccato" o il francesismo di brulé (con accento acuto come va scritto e non con accento grave come si pronuncia da queste parti), il latino di una targa che recita parva sed apta mihi. Propongo un testo per esemplificare l'uso che Targhetta fa della rima, in parte già intravisto nell'esempio sopra, ma anche per dare una clip significativa del nuovo impasto fonico di questo libro. Allora non esito a ricopiare "Vecchi con moldave", che potremmo leggere anche inseguendo la ricorrenza compulsiva della fricativa labiodentale sonora /v/, assurta quasi a simbolo nella lettera iniziale di un ballo, il "valzer" finale, con esiti avvolgenti e ipnotizzanti. Sembra di stare dentro uno sterminato e "eterno" piano sequenza di una danza girato da un Béla Tarr nostrano privato della macchina da presa:

Negli inverni delle scritte fasciste
sugli svincoli, sui rami, e sui muri,
vanno come divi i vecchi con moldave
virando con vanto davanti ai tabacchi,
agli occhi dei vuoti acconciatori
maschili: spalline ottanta, capelli
tinti, gli zigomi duri come i baristi,
a bere caffè asciugando le bave
li regge con gelo la loro badante,
e fuori, poi, i palazzi di muffa.

Tutti noi indietro nel tempo, solo loro
in sincrono eterno: vanno a vortice,
su valzer, i vecchi con moldave,
succhiando chi li guarda nella truffa.


Dicevo in apertura che l'espressione "le cose sono due" del titolo ("strepitoso" per Maccari) è prelevata dal parlato colloquiale. E lo stesso Targhetta nel secondo testo del libro scrive: "I giorni in cui non parli con nessuno / le cose sono due: / o arrivi a cogliere il senso di tutto / o confondi corrompi ti ingarbugli, / e la tua voce che chiama il gatto / è quella, alla sera, di un crooner / («eccoti i miei rimasugli»), / l’eco rauca e lunga / nella notte che ti riprende in scacco". Solitamente infatti tale espressione ripresa dal titolo anticipa una disgiunzione: o è così, o è colà. Nel caso di questo nuovo libro di Francesco Targhetta, l'affermazione contenuta nel titolo dell'opera sembra suggerire congiunzione e non disgiunzione, come se questo titolo sorgesse da uno schema "questo-e-quello" e non da uno schema "o-o". E il dolore - se c'è (ma c'è) - è quasi racchiuso, espresso, in questo schema che potremmo tradurre coi simboli dei connettivi logici, in termini pressoché booleani. Le cose, le relazioni, la rielaborazione del nostro vissuto esiste in un rapporto di dualità, devono esserci almeno due cose per specchiarci e riconoscerci (emblematico allora il testo conclusivo "Carità"), per pensare vita e morte. E non esisterebbe lo spazio e non esisterebbe nemmeno il tempo delle domeniche, degli ultimi giorni di scuola trascorsi a battere la carta di scala quaranta con Coca e sfogliatine, o il tempo del sabato sull'autostrada A4, nulla esisterebbe al di fuori di una relazione duale, nemmeno la monade della solitudine che è invece il viatico alla molteplicità del reale. E la riflessione sulla solitudine, che in fin dei conti combacia perfettamente, come nel caso di due insiemi coincidenti, con la nuova scrittura di Targhetta, non può che riverberarsi: spazi e tempo esistono solo in quanto relazione e interazione (questo è forse ovvio) ma se c'è solitudine questa è solo quella della scrittura (questo è meno ovvio). E se una solitudine non si può unire a un'altra, si può provare a dirla, scriverla, raffigurarla, dipingerla. Leggerla. Finanche amarla o odiarla, forse. Così sembra che spesso si verifichi sulla pagina un'interazione di solitudini, tra qualcuno che non resta più appeso da nessuna parte, ma che cade e sprofonda come in una migrazione di calore, umano e animale assieme, pur in un'aridità e sconsolatezza che restano sullo sfondo delle giornate. E ci vorrà allora un nome nuovo per questa che non è più la solitudine come la intendevamo. In fondo, volendo fare un volo e una planata pindarica, lo sappiamo anche dalle acquisizioni della termodinamica che è il calore che fa esistere una differenza tra passato e futuro, i quali sono diversi solo quando c'è stato flusso di calore. E il tempo incompreso di ciò che è stato il nostro passato recente, il tempo "gigante" come il giorno, quel tempo che in queste poche pagine sembra avere un peso schiacciante e enigmatico, in realtà non esiste, è un'illusione, e non esisterebbe nemmeno la differenza tra un passato e un futuro, veri protagonisti in absentia di questi versi (presenza-assenza esattamente come quella di un calco o di un fossile) se non ci fosse quel calore che migra secondo traiettorie di probabilità fra i nostri sguardi randagi; non esisterebbe quel senso profondo di potente distacco di retina di cui s'accorge questa poesia quando registra un guardarsi e fiutarsi tra generazioni e fra simili. Manchiamo tutti a un appello, non sappiamo bene a quale appello, però. In una poesia di clima elettorale leggiamo "e intanto tu chiuso rimani in casa / e rifletti in ascolto, secche le mani, // che c’è ancora chi ti chiede di battere / un colpo.": è un testo che per qualche via mi ha riportato a La giornata d'uno scrutatore, uno dei libri più belli di Italo Calvino. Nel componimento che parla di un invito domenicale dei genitori si legge una domanda che deve restare senza risposta: "Provare ad arginare la solitudine / adulta di chi, un tempo, / si era pensato alla vita: / chi, dunque, ha sbagliato tra noi?". Ma si prenda anche l'immagine del padre in un'altra poesia: "Di mettere gli orologi in avanti / è una delle manie di mio padre, / tutti, di tre o quattro minuti, non / abbastanza per cambiare le cose / ma solo per far salire / un po’ di angoscia / sempre." 

Che il tempo ci serva sempre meno, nella scienza com'anche in poesia? Non sappiamo cosa farcene se, anche da un testo come quello che scelgo per chiudere, emerge che il poeta ha finalmente rinunciato a una piena comprensione di tutti tempi probabili e possibili, rinunciato persino a un addomesticamento dello spazio di una vita (si badi: non più di uno "spazio vitale"), bensì di quello spazio che è una vita. Se la scrittura ha un qualche futuro, allora questo passa anche per l'abbandono di alcune sue certezze. E la poesia diventa un arco sempre in tensione che tira frecce in un giorno in cui, con un anagramma quasi perfetto e irresistibile tra nome e aggettivo, i treni diventano eterni "lungo la pioggia delle coste adriatiche", sui binari che guarda caso sono due, guarda caso sono due cose. Parallele.

5.

Il lavoro distrae, ma il lavoro
non c’è, e resta allora la fame,
spietata e pura, un trentatré giri
che stura il silenzio del mattino,
mentre il giorno è gigante
e mica lo fermi,
sale in sordina su quei treni eterni
lungo la pioggia delle coste adriatiche

finché è sera dentro le stanze
e niente, attorno, si è mosso,
come (ricordi?) belle statuine,
marce, però:
hanno i volti smangiati,
gli occhi venati di rosso.

lunedì 17 novembre 2014

Una poesia inedita di Antonella Bukovaz


"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare.


Una poesia inedita di Antonella Bukovaz (Cividale del Friuli, 1963) da STO, poesie per stare


Mentre attraversi la strada può succedere che la parola
ti nasca dalla mano sbuchi dal solco del palmo
e si rintani come un piccolo di canguro
nella tasca del cappotto.

(Abbandona allora la presa delle orme
e rivolgiti all’aria che si fa cesto per insegnarti
il verso della tessitura. Lancia la tua calotta
al cielo come un cappello.
L’acqua nella sua natura più essenziale ti attende
orizzontale per la paura che ha
del fondo
del seno
del mondo.
Intorno alla tua parola piccola crescerai orfano
innamorato davanti alla montagna, ladro
tradito dal respiro affannato.
La tua parola nuova ti consolerà
della morte
del deserto
della vita.
Stai con lei.)


venerdì 14 novembre 2014

La guerra d’Europa 1914-1918 raccontata dai poeti. Un'antologia a cura di Maria Pace Ottieri e Andrea Amerio

Leggere una grande guerra #10
Una poesia da #47

"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).

Esce oggi in libreria per nottetempo, nella collana poeti.com e per la cura di Maria Pace Ottieri e Andrea Amerio, un libro che ha il carattere dell'unicità nel panorama versicolore delle pubblicazioni che trovano la loro ragion d'essere nel centenario della Prima guerra mondiale. Si intitola La guerra d’Europa 1914-1918 raccontata dai poeti (pp. 272, euro 15) e si propone come un'innovativa antologia di poeti che hanno scritto su quella strage e su quegli anni. Assieme a Le notti chiare erano tutte un'alba, l'antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale ideata e curata da Andrea Cortellessa (di cui si attende la ristampa), va a costituire un binomio antologico importante per qualsiasi lettore italiano interessato alla poesia scaturita in quel frangente.

Molti sono i poeti antologizzati e qui ospitati. Ha senso nominarli tutti perché questo elenco diventa uno sguardo d'insieme interessante su quanti autori si sono soffermati a scrivere su quella Grande Guerra: Anna Achmatova, Endre Ady, Guillaume Apollinaire, Louis Aragon, Hugo Ball, Peter Baum, Milutin Bojić, Bertolt Brecht, Rupert Brooke, Velimir Chlèbnikov, Jean Cocteau, Gabriele D’Annunzio, Theo van Doesburg, Carlo Emilio Gadda, Gyóni Géza, Corrado Govoni, Nikolaj Gumilëv, Thomas Hardy, Ernest Hemingway, A. E. Housman, Piero Jahier, James Joyce, Pierre-Jean Jouve, Erich Kästner, Rudyard Kipling, Wilhelm Klemm, Karl Kraus, Alfred Lichtenstein, Karl Liebknecht, Vladimir Majakovskij, Curzio Malaparte, Osip E. Mandelstam, Filippo Tommaso Marinetti, Eugenio Montale, Wilfred Owen, Boris Pasternak, Pastuškin (Andrej Budal), Clemente Rebora, Isaac Rosenberg, Umberto Saba, Siegfried Sassoon, Camillo Sbarbaro, Edward Słonski, Ardengo Soffici, Charles Sorley, August Stramm, Carlo Stuparich, Ernst Toller, Georg Trakl, Tristan Tzara, William Butler Yeats, Franz Werfel.


BOLLETTINO DI GUERRA
di Pastuškin (Andrej Budal)
 

Quarto anno di guerra. Verso sera
al bollettino mi spinge attraverso i castagni
in un’attesa ogni giorno piú dolorosa.
“Niente di nuovo”, dice il corriere.


Niente di nuovo: la morte prosegue il banchetto,
oggi come ieri lo stesso macello,
agonie, centinaia di migliaia di lamenti.
Quarto anno di guerra… Quando la pace?


Niente di nuovo – solo la morte mieterà per sempre;
e anche se per milioni di anni
l’umanità accumulerà lavoro,


niente di nuovo piú potrà vedere il mondo;
solo chi oggi è stato colpito dalla palla
libero dal vecchio, potrà guardare il nuovo.


(trad. di Luca Matteusich)

mercoledì 12 novembre 2014

"John Bonham. Il motore dei Led Zeppelin" di Mick Bonham

Musicali pretesti #1

Di tanto in tanto, una notizia su un libro e un brano da ascoltare, al libro collegato.

Chi ha amato i Led Zeppelin ha quasi certamente amato la formazione al completo, senza esclusione di colpi. I Led Zeppelin, per quello che mi è stato possibile notare, riescono persino a mitigare certe faziosità e estremismi chitarristici che prendono di mira molte formazioni di quegli anni. Come non considerare ad esempio John Paul Jones importante quanto il duo Page&Plant? (E che bello The Sporting Life, il disco che fece con la cantante di origine greca dall'impressionante spettro vocale, Diamanda Galás, vent'anni fa.) Quello che magari non ci si aspetta è che Arcana esca con la traduzione del libro che Mick Bonham ha deciso di dedicare al fratello scomparso all'età di 32 anni, il batterista del gruppo, definito nel titolo Il motore dei Led Zeppelin (pp. 206, euro 23,50, traduzione di Marco Lascialfari). Il libro ha la stessa copertina dell'edizione inglese che però titola The Powerhouse behind Led Zeppelin. Nella traduzione del titolo si perde il senso spaziale di quel "behind". Motore o centrale elettrica, chiamatelo come volete, "Bonzo" riceve qui la sua biografia tradotta in italiano. E se volete lo ascoltiamo in questo video di Immigrant Song.


domenica 9 novembre 2014

Due presentazioni della collana Isola, a BILBOLBUL di Bologna e al Teatro Capovolto di Carbonera (Treviso)

LIBRICCINI DI POESIA E DISEGNI

Due presentazioni ravvicinate della collana Isola
a Bologna e a Treviso:

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domenica 23 novembre 2014 alle ore 16:30
nell'ambito del festival BILBOLBUL
Libreria Modo Infoshop - Bologna 

Letture e conversazioni con poeti e illustratori della collana
Modera l'incontro Domenico Rosa de Il Sole-24 Ore
 
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venerdì 28 novembre 2014 alle ore 21
Carbonera - Treviso

Letture di Marco Simonelli da Ora di chiusura (illustrazioni di Luca Genovese)
e di Alberto Cellotto da I piani eterni (illustrazioni di Nicolò Pellizzon)
Introduce l'incontro Marco Scarpa

Il sito della collana Isola sta qui.

giovedì 6 novembre 2014

"Lo specchio vuoto. Fotografia, identità e memoria" di Ferdinando Scianna

...io, ad esempio, quando vedo nella pagina di cronaca di un quotidiano locale una foto di una persona giovane morta in un incidente stradale avverto quasi, nei tratti del viso, una predestinazione a una morte in giovane età. Direte voi che questo giocoforza accade, data la cornice in cui si situa la percezione, ma a me questa sensazione ha portato sempre e solo inquietudine. Per converso, non ho mai cercato di intuire morti precoci a partire da una foto di una persona giovane ancora in vita. Il fatto è che forse della fotografia possiamo provare a dire di tutto, tanto lei tace. Forse sto esagerando, ma la realtà e varietà di pensiero che la fotografia ha conosciuto lungo tutto il corso della propria vicenda storica ha dato vita a plurimi orizzonti di speculazione, spesso contrastanti fra loro, che si sono via via depositati su una crosta terrestre che da quasi due secoli accumula fotografie su fotografie ed è diventata mappatura fotografica essa stessa. Voglio dire che della fotografia ad esempio possiamo dire che invecchia con noi e che non necessariamente congela l'attimo, possiamo raccontarci che è obiettiva ma che anche non lo è affatto, che ci interessa in rapporto alla realtà ma ormai non sappiamo più se ci interessa più o meno della realtà stessa. Riconosciamo evidentemente che la fotografia ha un qualche rapporto con il mondo, ma ci è difficile sciogliere e spiegare qual è questo rapporto che intrattiene col reale. Insomma, quella che resta forse l'invenzione positivista per antonomasia, con applicazioni e implicazioni scientifiche note a tutti, è divenuta il più bizzarro scherzo della ragione che quell'epoca potesse lasciarci in eredità, con sempre maggiori margini di contatto con l'irrazionale e l'imponderabile. E la stessa fotografia sta cambiando e noi con lei. Mi interrogo spesso, ad esempio, sul perché in tanti amiamo le foto di Luigi Ghirri. Possono essere date molte motivazioni e ognuno ha le proprie, per fortuna, ma il suo lavoro mi pare si collochi in un punto ben preciso della storia della fotografia, laddove davanti a una foto iniziamo a non dire più "questo c'era, e non c'è più" bensì "questo c'era, e forse c'è ancora". Luigi Ghirri, tra le tante altre sue qualità, mi pare avesse questa in massimo grado e ce l'aveva soprattutto quando inquadrava.

Sembra prendere le mosse da analoghi pensieri ondivaghi questo Lo specchio vuoto. Fotografia, identità e memoria di Ferdinando Scianna pubblicato da Laterza (pp. 110, euro 12). Il tono e il dipanarsi di questi capitoli depositati dal grande fotografo di Bagheria, che quasi cinquant'anni fa unì il proprio nome a quello di Leonardo Sciascia per il celebre Feste religiose in Sicilia (nella copertina allora era Fernando e non Ferdinando), è quasi amichevole, sempre schietto e diretto, anche quando ci racconta di come si rivolge ai suoi amici neuroscienziati per provare a capire di più di memoria e identità oppure nel finale del libro, quando si descrive alle prese con la digitalizzazione di un archivio mastodontico e con i tanti scherzi di memoria che questo lavoro complesso gli procura, soprattutto con gli scatti più datati. Il libro parte riprendendo una chiassosa scena di selfie vissuta in treno, di ritorno dalla mostra roveretana che il MART ha dedicato lo scorso anno a un grande ritrattista (autoritrattista?) senza macchina fotografica, Antonello da Messina. Il titolo di questo libro di Laterza è già un buon viatico e ci consente di immaginare le pagine che leggeremo: dal lacaniano specchio, si passa a concetti fragili e poco maneggevoli come quelli di identità e memoria. Ma la fotografia non è la nostra memoria e la memoria non è simile alla fotografia, e sarebbe bene fare attenzione quando parliamo con disinvoltura di "memoria fotografica" perché le aree del ricordo sono spesso inganni o menzogne, placidi imbrogli, sempre più povere o sempre più ricche di una fotografia, la quale si esprime su un piano bidimensionale e attraverso un'inquadratura.

Oggi che la fotografia è a portata di tutti e onnipresente (nei cellulari) paradossalmente riflettiamo forse poco e male su di essa. Quando un fotografo importante come Scianna si abbandona alla speculazione lo fa in modo sorprendentemente elastico e plastico, ricordando anche un interessante scritto di Giovanni Arpino che recentemente le edizioni Henry Beyle hanno reso disponibile (Contro la fotografia, con una nota di Scianna stesso). Dopo aver letto questo libro di Scianna mi pare di ravvisare che c'è un aspetto che la speculazione lascia spesso fuori, fuori dall'inquadratura. E tale aspetto è l'inquadratura stessa! Voglio dire che Scianna ricaccia giustamente all'interno del dibattito anche chi sta dietro l'apparecchio fotografico e non solo chi o cosa è dentro l'obiettivo o il piccolo monitor della macchina fotografica; ci parla sempre, più o meno direttamente, anche della persona che sta dietro il mirino, che inquadra, proprio ora che mirare e inquadrare sono gesti quasi slegati dal fotografare. E se il digitale non ha portato nessuna vera e propria rivoluzione (soltanto un aggravio quantitativo e di archiviazione, divenuta missione quasi impossibile oltre che evidenti cambiamenti sul versante produttivo e postproduttivo), il vero cambiamento mi pare stia in un aspetto posturale di chi fotografa. Potremmo quasi leggere l'evoluzione del fotografare proprio su questo versante della postura: da come si fotografava con la camera oscura a come si fotografa sempre più spesso oggi, senza nemmeno più mirare o inquadrare, con braccia tese distanti dagli occhi e dal cuore, quasi nuotando nell'aria con una macchina fotografica tra le dita. In questa ottica allora diventa molto interessante e innovativo il capitolo in cui Scianna parla di Snapchat, ovvero del servizio di messaggistica istantanea e applicazione per smartphone che "consente di inviare le foto ad amici solo per un certo numero di secondi e poi la visibilità viene annullata. Per questo motivo, l'applicazione è anche frequentemente usata per sexting" ovvero "l'invio di messaggi sessualmente espliciti e/o immagini inerenti al sesso, principalmente tramite telefono cellulare, ma anche tramite altri mezzi informatici" (come leggiamo nelle relative pagine Wikipedia dedicate alle voci "Snapchat" e "sexting").

Mi voglio congedare dalla lettura di questo libro con una canzone che parla di un luogo (la città di Torino), di un film ricordato e di una scena, di vetrine che riflettono e che possono rompersi come uno specchietto per il trucco. Si intitola "Meglio di uno specchio". Ho l'impressione che c'entri con tutto questo.

martedì 4 novembre 2014

Poesie inedite di Fabio Franzin


"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare.

Due poesie inedite di Fabio Franzin (Milano, 1963) scritte nel dialetto Veneto-Trevigiano dell’Opitergino-Mottense


Cavàr erba


Cavàrla via l’erba, co’e man,
bricàrlo tut intièro ‘l ciuff, l’é
vardàrse, l’é trar fòra daa tèra

vene e nervi, rame de siénzhi
sutìi, che core zo, là, tel scuro,
in zherca de l’aqua, dea vose

che li ‘à persi, un dì, drio l’aria.
Cavàr erba, cuzhàdhi, l’é mistièr
che ne mostra come che sen fati

drento, fra ‘e zhope dea carne.
I dhenòci che se maca tii sassi:
un fià castigo, un fià preghiera.


Estirpare


Estirpare erba, con le mani, / afferrarlo tutto intiero il cespo, è / guardarsi, è estrarre dalla terra // vene e nervi, esili ramificazioni / di silenzi penetrati lì, nell’oscurità, / in cerca dell’acqua, della voce // che li ha persi, un giorno, lungo l’aria. Estirpare erba, accucciati, è mestiere / che ci mostra come siamo fatti // dentro, fra le zolle della carne. / Le ginocchia ammaccate dai sassi: / un po’ espiazione, un po’ preghiera.
 


Paura, cavéi (Otobre 2013)


Stanòt el mé fioét l’à paura.
I ‘o ‘à portà in gita al Vajont,
daa diga, tii posti dea straje.
No’ l’è pì bon de ciapàr sòno,
inpressionà da l’aqua che se fa
scura cascata, da tuti chii morti
sepoìdhi tel paltàn. Cussì son
qua co’ lù, tel só letìn (in càibrio
anca mì, a franàr un tòc al dì,
come chel monte, sora i parché
de ‘sta vita senpre pì dura e scura,
nassù l’istesso àno de chel splonf,
po’), qua che ghe parle dee stée,
lo ‘carezhe, ghe sgarùfe i cavéi
e po’, co’ i déi verti, ghii pètene
indrìo, daa front fin al grun dei só
pensieri. E petenàndo i sui, mori,
lissii, longhi co’fà i mii, co‘ncora
li ‘vée, da tosàt, me perde via, fra
‘dèss e ‘l passà, ciape sòno anca mì.


Paura, capelli (Ottobre 2013)


Stanotte il mio figlioletto ha paura. / L’hanno portato in gita al Vajont, / dalla diga, nei luoghi della strage. / Non è più capace di prendere sonno, / impressionato dall’acqua che diventa / buia cascata, da tutti quei morti / seppelliti nel fango. Così sono / qui con lui, nel suo lettino (in equilibrio / anch’io, a franare un pezzo al giorno, / come il monte Toc, sopra i dubbi / di questa vita sempre più dura e scura, / nato lo stesso anno di quello splonf, / poi), qui che gli parlo delle stelle, / lo accarezzo, gli scompiglio i capelli / e poi, con le dita aperte, glieli pettino / all’indietro, dalla fronte sino al groviglio dei suoi / pensieri. E pettinando i suoi, mori, / lisci e lunghi come i miei, prima / della calvizie, da ragazzo, mi perdo via, fra / questo attimo e il passato, e mi addormento anch’io.

domenica 2 novembre 2014

da "Notti di pace occidentale" di Antonella Anedda

Una poesia da #46
Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #24

Quasi emblematicamente apparso a chiusura di secolo nel 1999, nella collana di poesia di Donzelli che fu inaugurata da Meteo di Andrea Zanzotto, ovvero da un libro contraddistinto da una simile tensione a captare le guerre di quel lembo di storia, Notti di pace occidentale di Antonella Anedda (pp. 72, euro 9,30, ancora in commercio) resta un libro con il quale si continua il confronto quindici anni più tardi. Sono tanti o pochi quindici anni per la poesia? Oggi anche persone intelligenti, quasi a guisa di consolazione, ripetono che il tempo farà pulizia e lascerà solo la "vera poesia". Io non sono molto convinto di questo effetto-delega sul tempo e simili discorsi mi sembrano sempre più spesso viziati e guidati, oltre che da un atteggiamento rinunciatario di fondo, dal solito tarlo-desiderio di poter accedere ad una qualche forma di "immortalità" letteraria per mezzo del tempo che passerà, laddove credo che la letteratura ci serva più ora, nel presente. Allora quando sento questi discorsi mi risalgono improvvisi pensieri foschi e foscoliani per la testa. Ad ogni modo, quindici anni più tardi possiamo dire che questo libro ha avuto una portata considerevole, e lo si capisce anche banalmente nelle tante prove di scrittura oggi costruite su esitanti imitazioni del giro di verso aneddiano. Tuttavia, a una rilettura, sembra tuttora insistere in un altrove la squisita indole di questo versificare. Ho voluto riprenderlo a distanza di tempo e ho scelto un testo che pubblico qui sotto perché è domenica sera, anche adesso. L'autrice, che come Fabio Pusterla esordì con un libro dal titolo-omaggio all'inverno - Concessione all'inverno lui, Residenze invernali lei - deposita in quest'opera la propria concessione al buio e alle notti tanto più evidente nella sezione che accosta poesia e prosa poetica nella stessa pagina, la fede in un'insularità della scrittura che consenta di guardare davvero al Continente (il rapporto con le isole a sud di Genova, da lei considerata come città natale, è evidente nel recente Isolatria. Viaggio nell'arcipelago della Maddalena uscito per Laterza). In Notti di pace occidentale Antonella Anedda inculca una fede ancor più forte in una reinvenzione dell'accostamento analogico, che tanta parte ha avuto nella definizione della lirica moderna. Ed è un accostamento divenuto desiderio di seguire con occhi e orecchie, da un posto lontanissimo eppure fra noi, il trascolorare della vita, la quale è per forza più forte di tutto. Una poesia cieca che vede di più m'appare oggi quella di Antonella Anedda, ma anche una poesia sorda che sembra sentire tutto. Il suo spostamento fra i versi è capace di ricordarci continuamente che dentro di noi, da qualche parte, magari in ammutinamento, risiederà sempre anche la persona che siamo stasera, questa domenica sera o notte, mentre la leggiamo e percepiamo in lontananza la luce sfrigolante di uno sforzo di scrittura che avviene dentro la prepotente ebollizione della realtà, al cospetto delle visioni di "spettri dei mondi che verranno".


È scesa la notte di una domenica notte
di un tavolo con la tovaglia cerata
e strade in salita e inghiottite dal buio.

Non nevica da giorni.
Il marciapiede asciuga sui suoi fianchi
schegge di asfalto e fischio morto di fuochi.
Nessun incanto né memoria di un gesto
desiderio e cenere verde dell’abete –
nessun tremore nel volto accanto al nostro.

Questa notte insegna solitudine
sceglie un nome alle cose: al muro
nell’alba d’estate
alle scarpe tra i rovi
prima della discesa sulla sabbia.
Eppure nessuno ha mai sottratto qualcosa
noi siamo uniti – stelle
rese perfette dalla tenebra, pietre
premute sulla pietra della stanza in penombra.

Le cose che amiamo, le cose che custodiamo
le sere come questa più lontana di altre
indecifrabile nella sua fredda luce
sono spettri dei mondi che verranno.

Un lampo batte sui bambini addormentati
sul tavolo sgombro e pulito.

Tutto è quaggiù – il poco, l’immenso
che avanza verso l’alba feriale.