giovedì 20 novembre 2014

"Le cose sono due" di Francesco Targhetta, Premio Ciampi - Valigie Rosse 2014

Le cose sono due di Francesco Targhetta è il recente vincitore dell'importante riconoscimento poetico "Premio Ciampi - Valigie Rosse 2014" (Valigie Rosse, pp. 52, s.i.p.). Contiene anche le belle fotografie di Riccardo Bargellini e la postfazione di Paolo Maccari, curatore della collana assieme a Valerio Nardoni. Arriva dopo l'esordio dal titolo bifronte di Fiaschi del 2009 e dopo il romanzo esploso in versi intitolato Perciò veniamo bene nelle fotografie del 2012, di cui s'è scritto anche in queste pagine molti mesi addietro. In realtà Targhetta è apparso in queste pagine anche in veste di curatore intervistato sui Fuochi d'artifizio di Corrado Govoni non molto tempo fa. E le govoniane (crepuscolari, foucaultiane ecc.) "cose" appaiono sin dal suo nuovo titolo, che si pone come frammento prelevato da un parlato quotidiano del quale però non ritroveremo tante altre tracce nei testi. O, meglio, troveremo anche inserti di parlato, ma stravolti, attorcigliati in una frase, spesso tra virgolette o protagonisti di iperbati. Il titolo spinge dentro il campo del testo poetico il classico aut-aut, senza dire però quali siano i termini della disgiunzione. Due sono le cose e due le sezioni dell'opera, intitolate laconicamente "Uno" e "Due", due come i lati di un 33 o di un 45 giri, come quelli di una musicassetta: la prima sezione senza titoli, la seconda con tutti testi titolati e la breve prosa che, con sapore quasi landolfiano, titola "Le quattro vedove". Due sono anche i momenti, se come sostiene Paolo Maccari, i testi qui raccolti "alternano un momento metaforico e uno più spiccatamente narrativo, naturalmente intersecati e vicendevolmente alimentati."

Da un punto di vista stilistico, abbandonata l'ironia dei Fiaschi o il marzialiano fulmen in clausola che a lungo ha accompagnato la sua scrittura, Targhetta qui recupera un serbatoio di immagini anche macabre, talvolta sconsolate e comunque assai intense che quasi certamente in Govoni s'è alimentato e rigenerato. In "Appuntamenti mancati" chiude così: "Solo a casa ho poi sentito il sapore, / dentro le ossa, / di questi transiti un poco tardivi: / non l’aroma all’incenso dei morti, / ma la puzza violenta dei vivi." Lo si nota spesso quando chiama in causa parti del corpo umano o il corpo umano stesso, o quando definisce "moka" il colore delle pelli degli studenti all'altezza di giugno, dopo i primi soli in piscina. Tutto questo però coesiste assai naturalmente con innesti plurimi, con scelte lessicali eteroclite e con altre quasi eterodirette da situazioni di vita tanto codificate nel loro punto di partenza quanto aperte nello svolgersi della poesia, come nel caso del testo intitolato "Flessioni", dove fa capolino un finale che potrebbe essere stato cantato dalla Mina di Città vuota: si tratta forse di quella componente pop, ricordata anche da Maccari, che in realtà non è mai stata disgiunta dal versificare di Francesco Targhetta. C'è pure un gusto
nuovo, almeno per il mio orecchio, per quello che si sarebbe chiamato un tempo il forestierismo, ampiamente assorbito e addomesticato eppure ancora diligentemente lasciato in italico nel testo: crooner, nachoseyeliner, front-office ma anche il dialettismo di picà per "impiccato" o il francesismo di brulé (con accento acuto come va scritto e non con accento grave come si pronuncia da queste parti), il latino di una targa che recita parva sed apta mihi. Propongo un testo per esemplificare l'uso che Targhetta fa della rima, in parte già intravisto nell'esempio sopra, ma anche per dare una clip significativa del nuovo impasto fonico di questo libro. Allora non esito a ricopiare "Vecchi con moldave", che potremmo leggere anche inseguendo la ricorrenza compulsiva della fricativa labiodentale sonora /v/, assurta quasi a simbolo nella lettera iniziale di un ballo, il "valzer" finale, con esiti avvolgenti e ipnotizzanti. Sembra di stare dentro uno sterminato e "eterno" piano sequenza di una danza girato da un Béla Tarr nostrano privato della macchina da presa:

Negli inverni delle scritte fasciste
sugli svincoli, sui rami, e sui muri,
vanno come divi i vecchi con moldave
virando con vanto davanti ai tabacchi,
agli occhi dei vuoti acconciatori
maschili: spalline ottanta, capelli
tinti, gli zigomi duri come i baristi,
a bere caffè asciugando le bave
li regge con gelo la loro badante,
e fuori, poi, i palazzi di muffa.

Tutti noi indietro nel tempo, solo loro
in sincrono eterno: vanno a vortice,
su valzer, i vecchi con moldave,
succhiando chi li guarda nella truffa.


Dicevo in apertura che l'espressione "le cose sono due" del titolo ("strepitoso" per Maccari) è prelevata dal parlato colloquiale. E lo stesso Targhetta nel secondo testo del libro scrive: "I giorni in cui non parli con nessuno / le cose sono due: / o arrivi a cogliere il senso di tutto / o confondi corrompi ti ingarbugli, / e la tua voce che chiama il gatto / è quella, alla sera, di un crooner / («eccoti i miei rimasugli»), / l’eco rauca e lunga / nella notte che ti riprende in scacco". Solitamente infatti tale espressione ripresa dal titolo anticipa una disgiunzione: o è così, o è colà. Nel caso di questo nuovo libro di Francesco Targhetta, l'affermazione contenuta nel titolo dell'opera sembra suggerire congiunzione e non disgiunzione, come se questo titolo sorgesse da uno schema "questo-e-quello" e non da uno schema "o-o". E il dolore - se c'è (ma c'è) - è quasi racchiuso, espresso, in questo schema che potremmo tradurre coi simboli dei connettivi logici, in termini pressoché booleani. Le cose, le relazioni, la rielaborazione del nostro vissuto esiste in un rapporto di dualità, devono esserci almeno due cose per specchiarci e riconoscerci (emblematico allora il testo conclusivo "Carità"), per pensare vita e morte. E non esisterebbe lo spazio e non esisterebbe nemmeno il tempo delle domeniche, degli ultimi giorni di scuola trascorsi a battere la carta di scala quaranta con Coca e sfogliatine, o il tempo del sabato sull'autostrada A4, nulla esisterebbe al di fuori di una relazione duale, nemmeno la monade della solitudine che è invece il viatico alla molteplicità del reale. E la riflessione sulla solitudine, che in fin dei conti combacia perfettamente, come nel caso di due insiemi coincidenti, con la nuova scrittura di Targhetta, non può che riverberarsi: spazi e tempo esistono solo in quanto relazione e interazione (questo è forse ovvio) ma se c'è solitudine questa è solo quella della scrittura (questo è meno ovvio). E se una solitudine non si può unire a un'altra, si può provare a dirla, scriverla, raffigurarla, dipingerla. Leggerla. Finanche amarla o odiarla, forse. Così sembra che spesso si verifichi sulla pagina un'interazione di solitudini, tra qualcuno che non resta più appeso da nessuna parte, ma che cade e sprofonda come in una migrazione di calore, umano e animale assieme, pur in un'aridità e sconsolatezza che restano sullo sfondo delle giornate. E ci vorrà allora un nome nuovo per questa che non è più la solitudine come la intendevamo. In fondo, volendo fare un volo e una planata pindarica, lo sappiamo anche dalle acquisizioni della termodinamica che è il calore che fa esistere una differenza tra passato e futuro, i quali sono diversi solo quando c'è stato flusso di calore. E il tempo incompreso di ciò che è stato il nostro passato recente, il tempo "gigante" come il giorno, quel tempo che in queste poche pagine sembra avere un peso schiacciante e enigmatico, in realtà non esiste, è un'illusione, e non esisterebbe nemmeno la differenza tra un passato e un futuro, veri protagonisti in absentia di questi versi (presenza-assenza esattamente come quella di un calco o di un fossile) se non ci fosse quel calore che migra secondo traiettorie di probabilità fra i nostri sguardi randagi; non esisterebbe quel senso profondo di potente distacco di retina di cui s'accorge questa poesia quando registra un guardarsi e fiutarsi tra generazioni e fra simili. Manchiamo tutti a un appello, non sappiamo bene a quale appello, però. In una poesia di clima elettorale leggiamo "e intanto tu chiuso rimani in casa / e rifletti in ascolto, secche le mani, // che c’è ancora chi ti chiede di battere / un colpo.": è un testo che per qualche via mi ha riportato a La giornata d'uno scrutatore, uno dei libri più belli di Italo Calvino. Nel componimento che parla di un invito domenicale dei genitori si legge una domanda che deve restare senza risposta: "Provare ad arginare la solitudine / adulta di chi, un tempo, / si era pensato alla vita: / chi, dunque, ha sbagliato tra noi?". Ma si prenda anche l'immagine del padre in un'altra poesia: "Di mettere gli orologi in avanti / è una delle manie di mio padre, / tutti, di tre o quattro minuti, non / abbastanza per cambiare le cose / ma solo per far salire / un po’ di angoscia / sempre." 

Che il tempo ci serva sempre meno, nella scienza com'anche in poesia? Non sappiamo cosa farcene se, anche da un testo come quello che scelgo per chiudere, emerge che il poeta ha finalmente rinunciato a una piena comprensione di tutti tempi probabili e possibili, rinunciato persino a un addomesticamento dello spazio di una vita (si badi: non più di uno "spazio vitale"), bensì di quello spazio che è una vita. Se la scrittura ha un qualche futuro, allora questo passa anche per l'abbandono di alcune sue certezze. E la poesia diventa un arco sempre in tensione che tira frecce in un giorno in cui, con un anagramma quasi perfetto e irresistibile tra nome e aggettivo, i treni diventano eterni "lungo la pioggia delle coste adriatiche", sui binari che guarda caso sono due, guarda caso sono due cose. Parallele.

5.

Il lavoro distrae, ma il lavoro
non c’è, e resta allora la fame,
spietata e pura, un trentatré giri
che stura il silenzio del mattino,
mentre il giorno è gigante
e mica lo fermi,
sale in sordina su quei treni eterni
lungo la pioggia delle coste adriatiche

finché è sera dentro le stanze
e niente, attorno, si è mosso,
come (ricordi?) belle statuine,
marce, però:
hanno i volti smangiati,
gli occhi venati di rosso.

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