martedì 30 dicembre 2014

"Sibber", il romanzo di Walter Nardon

Il sito "Urban Dictionary" definisce sibber come una combinazione di parole, tra "sister" e "sibling", usato come vezzeggiativo (e allora noteremo che una sorta di fratellanza si svilupperà nel corso di questa storia, ma non insistiamo troppo ora). Sibber è il nome del protagonista (non del narratore), nonché titolo del primo romanzo di Walter Nardon pubblicato da Effigie (pp. 98, euro 15). Sibber è il protagonista osservato, perché il protagonista narratore in questo libro che non ricorre sovente a dialoghi è un animatore di un'associazione (anzi, con la maiuscola, come scrive Nardon: Associazione) di una non specificata provincia italiana. L'attacco del romanzo, nella sua schietta semplicità apodittica, mette subito in chiaro lo studio, che è il vero motore di questa storia. Ma leggiamo proprio le prime frasi del romanzo: "Questa non è una storia come tutte le altre. Non lo è perché io mi butto via ogni giorno e la storia l’ho cominciata proprio adesso. Quindi, almeno questo lo posso assicurare. Mi butto via in modo sistematico, un po’ alla volta. Apro il giornale, guardo le immagini, i titoli, il taglio della pagina, l’insieme come un’unica immagine. Mi alzo, mi muovo per la stanza: passo molte ore alla finestra. E andrei avanti sempre così, se fossi coerente, se solo ogni tanto non mi facessi prendere la mano dallo studio, che è rimasto la mia ultima risorsa." E la trama sembra esile, sottile, prossima a spaccarsi subito: il narratore chiede a Sibber, un uomo tozzo di mezza età, di poter stargli davanti e essere osservato mentre attraversa una piazza con una valigia in mano. Di qui l'osservazione del narratore, di qui lo studio che impedisce il "buttarsi" via minacciato sin dalla seconda frase del romanzo. Di qui pure la centralità e il movente di questo romanzo: la materia e il talento innato per la materia che Sibber dimostra subito, una materia che lui sa inaugurare, "trasformare per il meglio - pur senza mutarle forma - favorendo in tal modo anche la condizione in cui noi la affrontavamo."

Il narratore, nel veloce e leggero ventaglio di queste pagine, scorge via via le virtù dell'uomo eccezionale che sta osservando, una persona "festivizzante", disinvolta, sicura e uno dei punti notevoli dell'opera è la discreta messa in scena di un crescente sentimento di gratitudine del narratore verso il suo (s)oggetto di studio. C'è un portato allegorico in questo prendere le mosse da una persona comune e da avvenimenti "insignificanti" (è da chiedersi allora se esistono davvero avvenimenti insignificanti separati da avvenimenti significanti?) e elevarli a prepotenti gesti che sfrondano i nostri processi di coscienza e li mostrano nella loro circolarità viziosa, in un profondo contrasto con Sibber e il suo diventare a poco a poco il vero autore dell'opera e il diventare di noi lettori veri spettatori, che possono decidere cosa pensare di questa allegoria. Perché è proprio qui che sta probabilmente il motivo più degno di nota di questa prova di Nardon, che rivisita certi istituti della narrazione e dell'avventura, ed è un'interrogazione incandescente ancora una volta su che cosa sia la "realtà", su come si costruisce e su come la distruggiamo ad ogni istante per provare a farla nostra. Dopotutto viviamo in un'epoca di forte pendenza realista, per fortuna senza neo- davanti. Sibber è colui che condivide una materia senza nemmeno il bisogno di svelarla e Sibber è un libro d'esordio, anzi inaugurale, che vi invito a prendere in considerazione.

(E con un libro inaugurale chiudo quest'anno, augurando buon 2015 a tutti i lettori.)

mercoledì 24 dicembre 2014

"Avaro nel tuo pensiero" di Lorenzo Calogero

Nel 2011 Donzelli aveva mandato in libreria Parole del tempo, primo movimento di un percorso di riproposta della poesia di Lorenzo Calogero. In questo 2014 il catalogo e la collana si arricchiscono di Avaro nel tuo pensiero (pp. XXVI-200, € 24, a cura di Mario Sechi e Caterina Verbaro, autrice quest'ultima de I margini del sogno. La poesia di Lorenzo Calogero uscito per le Edizioni ETS nel 2011). Si prova sempre in questi casi a riesumare le vecchie categorie del "poeta dimenticato" e dell'"emarginazione letteraria", senza ricordarsi che queste si stanno svuotando progressivamente di senso, se mai ne hanno avuto uno. Ma ben si capisce, visto che sono umani tentativi di attrarre attenzione verso una poesia che in realtà attenzione la merita comunque, solo per quello che offre e per come si dà e per tutto quello che lascia nel non detto, per come sa porsi ai nostri occhi di lettori di oltre mezzo secolo più tardi. Voglio dire che non occorre arrampicarsi su questi stratagemmi, spesso accademici, per scoprire la bellezza di una poesia come questa: "A rilento le stesse sostanze/ vedi. Non è mancanza di sole/ la luce che vien meno, la calma piena, il bosco,/ una gocciola, una luce, una casa,/ la cara sembianza di persone morte,/ com’è solido il sapore, il frutto del limone/e in altro giorno attiguo il tuo gelido sopore./ Sopra le ossa, su le medesime cose/ è opaco assiduo, in un fiore,/ deserto il batticuore."

Avaro nel tuo pensiero è il libro del 1955 rimasto inedito sino a ora, nonostante si presenti come libro di poesia già strutturato e organico, pronto per la pubblicazione. In realtà poteva uscire per Lerici, curato proprio da Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi ad inizio degli anni Sessanta dopo la morte di Calogero, ma non se ne fece nulla. Fu Amelia Rosselli, nel 1980, che tentò di rimettere in circolo i suoi versi, pubblicando un'ampia silloge sulla rivista "Tabula". Prendiamo il semplice dato annuale e facciamo un esperimento utilizzando la cronaca letteraria. Siamo nel 1955. Per rimanere al nostro paese troviamo un Montale prossimo a pubblicare La bufera e altro (1956), Alda Merini che pubblica Paura di Dio, Zanzotto è tra l'esordio di Dietro il paesaggio (1951) e Vocativo (1957). Vittorio Sereni sta nella lunga pausa tra Diario d'Algeria e la sua terza fondamentale opera, Gli strumenti umani, e si appresta a diventare direttore editoriale di Mondadori. Nel 1955 escono per Vallecchi le Poesie di un corrispondente di Calogero, Carlo Betocchi. L'anno successivo, il 1956, è quello di Laborintus di Sanguineti pubblicato per volere di Luciano Anceschi e quello di una grande prova di Nelo Risi, Polso teso. Una collana come Lo Specchio in quegli anni pubblica autori come Lucio Piccolo, Rocco Scotellaro, Maria Luisa Spaziani, Leonardo Sinisgalli ma anche poeti oggi non più frequentati come Gaetano Arcangeli, Stefano Terra, Gian Piero Bona e Orazio Napoli (è facile ricostruire queste informazioni, basta consultare il catalogo storico di Mondadori agilmente interrogabile online tramite dei filtri). Tutto questo spaccato per dire cosa? Magari anche per dire nulla, ma forse per suggerire che le questioni che fanno la memoria e l'oblio sono spesso i casi della vita da un lato e le fregnacce dall'altro, come sempre, e che finché ci appassioniamo troppo alle "riscoperte" e "alle misteriose cadute nell'oblio", che spesso combaciano più con dispute d'accademia e d'editoria che con questioni riguardanti la vita vera della poesia, non succhieremo mai la polpa di un poeta. E poi per sostenere che a noi, oggi, la poesia di Calogero interessa forse per la riscossione che la lingua compie nei testi, mentre leggiamo. C'è davvero un senso di riscossione e risarcimento che attrae verso la lettura di questi componimenti assolati e nivali, un ardere e osare che si riscontrano raramente altrove:

Sopra mormorii quadrati,
di onda in onda, sopra una vetta antica
perduta, di gennaio, i tuoi sogni
sono oggi esigui.
         Nubi dense appaiono
e non fu più che sogno,
una vanità che lievemente oscilla
dentro le tue mani modiche.
         Un sapore
esse avevano di neve
che teneramente internamente brilla.


Maria Grazia Calandrone,  in uno squarcio di felice abbrivio critico, ha scritto che in questo libro "[...] veniamo avvolti dalle nebbie di una perdita: dalle pagine esala malinconia sovrannaturale. Qualcosa che era non è più. Il mondo vero è decaduto e decaduto è il tempo. La terra è fantasmatica, fatta di ombre lacustri e baci perduti, gioie che non tornano, cose concluse. È terra fatta dal suono delle parole, che la descrivono con assonanze e allitterazioni soprattutto in r e in v: trilli e fischi di uccelli boschivi. Muoviamo in un silenzio post apocalittico, mosso da «euritmie». L’autore stesso è tutto sguardo e memoria, piaga di nostalgia per qualcosa che inverava il mondo, se prima «vergine e distesa tu potevi tutto ricoprire» e ora «tutto riverso sono dentro un mio pensiero»". Leggere Calogero è primariamente un'iniziazione acustico-fonica installata, built-in, all'interno di una scrittura divenuta gesto quotidiano (il fondo Calogero prevede 800 quaderni manoscritti) e disperazione solidificata in un passo, in un volto o una postura, tanto che il già citato Montale concluse il suo articolo Attesa per Calogero, uscito sul "Corriere della Sera" del 14 agosto 1962, sostenendo che "se avesse potuto distaccarsi almeno per un attimo dai suoi versi, sarebbe ancora vivo."

Lorenzo Calogero (1910 - 1961)
Vi è in Calogero uno scorrere sotterraneo e una scossa tellurica, un mancamento che da provvisorio tende a farsi definitivo e che aggancia le altre e alte forme della poesia mondiale di quei tempi, a testimonianza che certe risorse degli artisti e del cervello vivono in tempi di limbi comuni e si sfiorano, agglutinano, pur rimanendo a distanze enormi nello spazio, in un tempo che non è più quello degli orologi e che non è mai stato quel tempo. Il nostro poeta era nato nel 1910 a Melicuccà, paesino in provincia Reggio Calabria, lo stesso anno di un altro scrittore che fu interessato e attraversato dai temi della cosiddetta "salute mentale". Mi riferisco a Mario Tobino e mi riferisco ovviamente ai Quaderni di Villa Nuccia per Calogero. Fece studi di ingegneria e poi di medicina a Napoli, si laureò nel 1937. Fino al 1955, l'anno di questo Avaro nel tuo pensiero, esercitò a sprazzi la professione di medico. La morte, avvenuta nel 1961, è ancora avvolta dal cosiddetto alone di mistero. Sembra condannato, in ugual misura, a un destino diviso tra roboante caso letterario e ricaduta nell'oblio, ma il modo migliore per salvare la sua poesia rimane uno solo: leggerla finché si è vivi. Non ci sono davvero altri metodi, funziona solo così, al di là di tutti i discorsi che riguardino il canone, la memoria e l'oblio. Si sa che il desiderio più o meno conscio di tanti scrittori è accaparrarsi un frammento di eternità, un prolungamento di memoria, ma la prospettiva di un destino di dimenticanza non deve mai abbandonarci del tutto, e non lo dico perché oggi mi sento foscoliano. Allora si legge finché si è vivi e la letteratura mi interessa perché mi serve oggi. Punto. Spesso è accaduto che ogni generazione (quello di generazione è un concetto che ha dentro parimenti vita e morte, è un concetto giusto quindi) abbia fatto le proprie scoperte e allora per la mia generazione e non solo dico che è venuta l'ora di provare a leggere Lorenzo Calogero.


AVARO NEL TUO PENSIERO


Se, da diverse parti, sottintesi i segni
divengono quel che sogni e non sai
più quale curva lena sia rosea una linea
tesa, quale vergine sia pura e ferma ora una stella
e, senza percorso, più sopra un pensiero
ti sporgi nella medesima ora
che improvvisa si rinnovella
e ti dette le nudità del sogno,

l’anima sempre uguale era senza mistero
o l’anima puoi perdere alle radici
o la semplice nudità era un assolo.

Ma perché da parti uguali erme divise
non più ti soccorrono fermi i tuoi pensieri
sopra i tuoi fiori nella medesima aridità che ora scintilla essa balena
e ti accorgi di essere più solo.
Avaro nel tuo pensiero,
la stessa sostanza arida t’invischia
solo per tuo diletto.

Erme cinte di cose
appaiono già tutte le rose.

venerdì 19 dicembre 2014

"I generi letterari e la loro origine" di Enzo Melandri

"Resta il fatto che il linguaggio, attraverso l’anima, può dire di tutto ciò che esiste al mondo e in questo senso esprimere il mondo, però non può dire il suo rapporto con quel totale che pure, bene o male, esprime". Basterebbero queste poche righe di Enzo Melandri, che quasi riecheggiano anche certi approdi della fisica novecentesca, per convincerci della necessità di affrontare questo piccolo ma fondamentale libro sui generi letterari e sulla loro origine. I generi letterari e la loro origine (pp. 120, euro 13,50, con una prefazione di Giorgio Agamben) è uscito da Quodlibet e, sulla scia del titolo che porta, si apre sotto il segno di Croce e della sua avversione per i generi letterari e, prima ancora, con un'epigrafe benjaminiana che distingue fra genesi e origine: "Quantunque categoria del tutto storica, l'origine non ha nulla in comune con la genesi. L'origine non comprende il divenire di quanto è nato, ma piuttosto sottintende qualcosa di sorgivo nel suo crescere e appassire. L'origine sta come un vortice nel flusso del divenire e trascina col ritmo suo proprio il materiale genetico".

Questa nuova edizione stampata a settembre scorso rientra in un meritorio processo di riproposizione che l'agambiana casa editrice maceratese sta compiendo, sin dalla pubblicazione dell'opera più nota e maggiore del nostro filosofo, per decenni docente nell'ateneo bolognese, La linea e il circolo del 1968. Questo breve testo vide la luce nel 1980 nella rivista "Lingua e stile" edita da Il Mulino e forse fu risultato di riordinamento delle tante e proverbiali schede che puntellavano sempre la scrittura di Melandri.  Non si tratta quindi, almeno originariamente, di un libro, bensì di un corposo studio uscito dapprima su rivista.

Se diciamo che confrontarsi con i generi letterari non è affatto lezioso rischiamo di coprirci di ridicolo, se poi lo facciamo dando notizia di questo libro rischiamo davvero di sprofondare. Eppure c'è qualcosa di mai risolto nel nostro accoglimento del fatto che esistano differenti generi letterari e quest'esistenza di generi differenti rappresenta un problema che - si abbia il coraggio di dire - né la storia della letteratura né la comparatistica hanno affrontato pienamente e con una strumentazione adeguata. Per Melandri questo problema di storia della letteratura ricade in un solco che è precipuamente di filosofia (filosofia del linguaggio, se volete, anche se forse non ha senso continuare a distinguere filosofie tenendole separate con apposite etichette), e ha inoltre a che fare con la natura imprecisa del linguaggio. Un libro che quindi si sofferma sull'impossibilità per il linguaggio di dire il proprio rapporto col mondo, sulla frattura esprimere/dire, sull'impossibilità di far collimare mimesi e conoscenza. Il linguaggio sta allora tra uomo e mondo ma in una relazione col mondo che resta nel non detto.

In queste pagine il traduttore de Il volto demoniaco del potere di Gerhard Ritter (libro importantissimo per provare a capire cosa accadeva in Europa tra le due guerre partendo da Machiavelli, Moro e Erasmo e testimonianza dello spettro larghissimo di interesse della sua speculazione e formazione) porta a compimento un'altra passeggiata contro il simbolico. Confrontandosi con un problema che si ritiene spesso squisitamente letterario, Melandri arriva a tratteggiare i vari generi che passa in rassegna quasi come cicatrici, incidenti, forme sicuramente, ma soprattutto come una sorta di rinculo che ogni colpo di esperienza del limite del linguaggio scarica e incide sulla polpa del linguaggio e delle lingue stesse, all'interno di questa già citata cornice in cui il linguaggio dice il mondo ma mai il suo rapporto con esso. Ne consegue (conseguirebbe) anche un possibile dibattito, oggi forse ignorato e nemmeno tentato, sulla stabilità di queste forme e sul loro futuro. Perché appare chiaro, leggendo questo articolo ora proposto come libro, che ciò che sta a cuore alla speculazione di Melandri, nonostante l'affondo che guarda necessariamente al passato, è invece la futura forma che potrà prendere quel triangolo i cui vertici  costituiti da pensiero, linguaggio ed essere vanno sempre a riposizionarsi e a disegnare nuovi generi di letteratura, nuovi triangoli: isosceli equilateri o scaleni ma, soprattutto, acutangoli retti o ottusangoli. Sono interrogativi che nascono da uno stupore o, come potrebbe dire Valéry, interrogativi che incominciano con un'interruzione.

lunedì 15 dicembre 2014

"Dettato" di Sergio Peter

Nei primi anni di scuola il dettato si fa per verificare capacità di ascolto e scrittura. In poesia (e il libro di cui vi scrivo oggi ibrida la prosa con la poesia) il dettato è un termine molto in voga nelle recensioni. Si parla di dettato quasi ci fosse un suggeritore interno e un versificatore esterno che ascolta, annota e scrive la poesia. In ambito poetico l'uso e abuso della parola "dettato" iniziano a insospettirmi, direi che sono quasi indispettito: non mi convince del tutto, non mi piace, in fondo non mi è mai davvero piaciuto, non mi ha mai convinto perché appartiene a un modo di concepire la poesia che mi sta diventando estraneo. Dettato è il bel titolo scelto per il romanzo di Sergio Peter, libro inaugurale della collana "Romanzi" dell'editore Tunué (pp. 110, euro 9,90) diretta dal "personaggio precario", lo scrittore aretino-fiorentino Vanni Santoni. Peter è nato nel 1986 a Como e tutto il libro scivola su una toponomastica valligiana, tra paesi, persone, campane e campi. Colpisce forse che l'autore, giovane anagraficamente e non solo giovane letterariamente, si cimenti con un genere che confina e sconfina ampiamente nella memorialistica. Al di là del fatto che la categoria "giovane" in letteratura andrebbe ormai ben picconata e rottamata (ha fatto il suo tempo, credo anche in termini commerciali e promozionali per i quali era in fondo nata e non scordiamo che Carlo Michelstaedter è morto a ventitré anni), non è certo atteso un libro del genere da una persona che non ha nemmeno passato i trent'anni. Eppure succede questo e non è detto che questo non sia un effetto in qualche modo previsto da chi sta infilando le perle della collana.

La postura di questo libro all'interno del panorama attuale sembra quasi anacronistica, il che non è un problema. Si rivanga la memorialistica per qualcosa che è trascorso in realtà da pochissimo tempo. L'infanzia, i paesi, le campane, le persone e gli oggetti vengono a galla come gnocchi di patate in acqua bollente. Anche le marche (i brand) che hanno intasato la nostra esistenza. Sì, come il Super Tele qui accanto, pallone-gadget per antonomasia diventato poi proverbiale per le sue traiettorie sbilenche e imprevedibili, per la sua totale inaffidabilità, per la sua leggerezza, persino per quello strano rumore che l'aria al suo interno produceva quando lo si colpiva forte con un piede o una mano. E la prosa di Peter assomiglia un po' al Super Tele, ha tanti colori ma quando si sofferma resta nei contrasti e costruisce poligoni tra persone e luoghi, è imprevedibile nelle traiettorie, è leggera anche, non schiaffeggia se colpisce su una guancia. Lo schiaffo, ovvero la morte del padre quando l'autore era ancora un bambino piccolissimo, è già a monte del libro, in un inizio che non si definisce come tale. E allora ciò che questo breve romanzo prova a fare, persino negli inserti dialettali non rari, è tentare di dire come si porta con sé un mondo che diamo per disperso e sommerso e che pure continua a crescere (rincrescere?) dentro di noi, provare a dire come si vivono le assenze. E perché questa crescita avvenga, bisogna lasciare spazio e aria a chi ha fatto il suo debutto. Allora, volgendo rapidamente al termine di questo mio suggerimento di lettura, dico anche che troppi nomi ho letto per questo romanzo d'esordio, sin dal risvolto: Calvino de Le città invisibili, Celati de Narratori delle pianure. Lasciate lavorare Sergio Peter che ha appena iniziato, non aggiungiamoci poi Cesare Pavese, Piero Chiara, addirittura il Parise de Il ragazzo morto e le comete (stupefacente aver trovato persino questo titolo così lontano dalla prosa di Peter) o, data la geografia del libro, un Alessandro Manzoni (non ho ancora letto questo nome, ma mi domando se è solo timore reverenziale). Non ci siamo proprio se andiamo per quelle strade lì e questi nomi a mio avviso non c'entrano nulla. State prima e fareste molto meglio a leggere il libro e a provare a capire cosa resta, o, meglio, a capire qual è il posto di questo libro nel panorama attuale.

La collana Romanzi di Tunué prosegue e finora sono tutti libri brevi. Sono usciti Stalin + Bianca di Iacopo Barison, Lo scuru di Orazio Labbate e la prima prova narrativa di Francesca Matteoni, Tutti gli altri, di cui con curiosità mi limito a dare qui notizia. (Un plauso al visual design dell'agenzia veneziana dal nome palindromo Tomomot che ne ha curato il progetto grafico.)

venerdì 12 dicembre 2014

"L'opera poetica" di Emilio Villa per L'orma editore

Finalmente. Ecco uno di quei libri non brevi (anche se è di una forma breve, ovvero un libro di poesia) di cui mi accontento di dare succintissima notizia. Mi sarebbe piaciuto proporvi un'intervista alla curatrice, Cecilia Bello Minciacchi. Tuttavia, come potete vedere anche dalla notizia che segue, l'evento della pubblicazione di questo libro ha un suo corollario di iniziative che preme. E allora, nel ricordare che già da un mese esiste un libro che raccoglie le poesie di Emilio Villa, che si intitola L'opera poetica, ha 782 pagine, è curato da Cecilia Bello Minciacchi, presenta una postfazione di Aldo Tagliaferri e si trova nel catalogo de L'orma editore, mi limito a menzionare i prossimi appuntamenti che vedranno protagonista questo volume, entrambi a Roma il prossimo giovedì 18 dicembre, alle 17:00 alla GNAM e alle 20:00 presso ESC. Sotto il comunicato stampa.

Emilio Villa nasce il 21 settembre 1914 ad Àffori, oggi un quartiere di Milano. Dopo il eminario prosegue gli studi presso l’Istituto Biblico di Roma, specializzandosi in assiro-babilonese e ugaritico. Nel 1934 pubblica la sua prima raccolta di versi, Adolescenza, cui segue un’intensa attività pubblicistica. Richiamato dalla Repubblica di Salò, si nasconde in Toscana; a Milano vive in clandestinità e prende parte alla Resistenza. Tra il ’51 e il ’52 si trasferisce in Brasile, dove lavora al Museo d’arte moderna di San Paolo. Tornato in Italia, a Roma, si occupa per lo più d’arte. Nel 1986 un ictus lo paralizza, lo ammutolisce. Muore in solitudine, in un ospizio presso Rieti, il 14 gennaio 2003. Rarissime le sue pubblicazioni “ufficiali”, apparse negli anni a cura di vari editori. 

COMUNICATO STAMPA:

mercoledì 10 dicembre 2014

Ryūnosuke Akutagawa: haiku e scritti scelti

L'editoria italiana non ha dato storicamente costante attenzione allo haiku. Questo fatto è singolare oppure banale. Voglio dire che si può provare a spiegare attraverso più strade: possiamo tirare in ballo il rapporto dell'editoria italiana con la poesia e con le forme brevi in particolar modo, possiamo contemplare il rapporto più generale con la letteratura del Giappone oppure possiamo provare a spiegarlo in cento altri modi. Ma in fondo, non è questo che ci interessa, tanto più se ci accingiamo a parlare di un editore che invece va controtendenza. Sicuramente in passato ci sono state delle pubblicazioni significative, dall'Oscar Mondadori curato da Elena Dal Pra all'ancor più significativa silloge di Longanesi (e poi Guanda) introdotta da un mirabile saggio di Andrea Zanzotto (ricordato anche qui, in occasione della recensione di un volume di Kuki Shūzō) intitolata semplicemente Cento haiku e curata da Irene Iarocci.

Akutagawa (1892 - 1927)
Il volume di Ryūnosuke Akutagawa intitolato Haiku e scritti scelti pubblicato da La Vita Felice (pp. 108, euro 10, a cura di Lorenzo Marinucci) va ad aggiungersi ad una ormai lunga serie di libri di haiku e poesia giapponese inanellata dall'editore milanese, che in questo mostra di colmare una lacuna o perlomeno una disattenzione del resto del panorama. Il lettore vi troverà una settantina di haiku di Akutagawa tradotti da Marinucci e con testo a fronte, ma anche dei preziosi contributi teorici, un ricordo di Bashō, materiale appunto sceltissimo per addentrarci nella scrittura di questo poeta fortemente legato anche alla storia del cinema attraverso più nodi (e qui, per iniziare, basti ricordare il bellissimo Rashōmon di Kurosawa).

domenica 7 dicembre 2014

Poesie inedite di Marco Scarpa


"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare.


Tre poesie inedite di Marco Scarpa (Treviso, 1982)



Giocava a disegnare rettangoli attorno alle parole
perché non sfuggano, diceva e rimanevano ossari,
dita mozzate, arti solitari. Così nessuno l’ascoltava
e sembrava la sua dote avere in grembo un massacro,
mentre tutto era un rifiorire di tombe con le epigrafi
ma nessuna preghiera salvava il ricordo, mancava
un sarto, uno che cucisse, un artigiano, uno di quelli
che usava le mani per aggiustare le questioni.



Si piegava la metro e si piegavano gli sguardi.
Più nessuno ficca gli occhi dentro un altro
li spalma nel tragitto tra i lacci e le dita
impegnate con i tasti del cellulare. Dondola
la testa nelle curve, fluttuano le spalle
ma non sfugge il controllo, rimane il baricentro
nello schermo, nel punto di contatto
con ciò che è distante e dell’attorno risuona
solo vago l’andare del treno per le rotaie,
quel rumore da caffettiera pacata, incisiva cantilena
che aggancia i piedi ai vagoni, la testa al terreno.



Fuori è la sera, la notte scura e noi
seduti in queste colline, tra Gubbio
e Perugia, e tra le spente lampadine
con la luna che scalcia e si fa volto
mentre s’accomodano le stelle dove
sanno di dover stare. Una voce
descrive le forme, tira per i capelli
costellazioni e fa a pugni con la ragione
la perfezione del disegno del cosmo.
Resta qualcosa oltre l’astrofisica,
oltre la scienza, la matematica visione
ed è quel qualcosa d’informe, distante
                       che sfugge alle parole.


venerdì 5 dicembre 2014

Fabio Donalisio, "Nulla più e nulla meno"

Le note critiche del premio letterario "Anna Osti"











Quinto e ultimo appuntamento della miniserie di cinque post dedicati alle note critiche ai libri premiati o segnalati all'ultima edizione del premio letterario Anna Osti. Ringrazio i promotori del premio e i singoli autori di queste note. Ospito oggi il testo che Giusi Montali ha scritto per Nulla più e nulla meno di Fabio Donalisio (Isola, 2014).

Nulla più e nulla meno è un'esile raccolta di sei testi che, a detta del titolo, si danno in apparenza come una scrittura semplice, schiacciata sulla realtà, scevra da interpretazioni plurivoche. Quanto di più errato. Tema della raccolta è la difficoltà di ancorare l'esistenza e il primo testo mette in scena un soggetto alle prese con la difficoltà del riconoscere la propria identità burocratica sancita dalla foto di un documento [I, “rientro nella foto del documento; | guardarla, nel suo caucasico non rosa, | lo sguardo troppo dritto per essere (anche un briciolo) | vero, mantiene il minimo sindacale di grottesco”]. Così se il documento ci limita all'identità anagrafica e ci appiattisce alla dimensione unica della burocrazia, ci dona però la supposizione di una nostra esistenza (V, “un onorevole recapito giuridico | […] un luogo […] dove […] | concedersi l'illazione di esserci | stati”). E ancora, questa discrasia tra l'essere (il vivere organicamente, l'avere un corpo) e l'esistenza (più alta forma di vita che valica i confini della mera biologia) sembra irreparabile e si incunea anche nei momenti di rilassatezza e svago quando il pensiero produce “domande | prive di ogni ragione in quanto (tanto) | l'unico movente plausibile è mettere | lontano tra l'essere e il vivente” (III). Proseguendo nella lettura, il soggetto è presentato in situazione: cammina per il suo quartiere, considera l'assommarsi nel corso del tempo degli errori edilizi e umani, constata l'espandersi della città oltre i suoi confini, ed è sorpreso dai rovesci climatici romani che lo riconducono alla certezza dell'esistenza (II, “star qui dopo il doccione tropicale | quotidiano – un po' corto di fiato, ma vivo”). Ma ad attirare la nostra attenzione è il quarto testo che promette al lettore ostinato, e pronto ad accettare la sfida interpretativa, lo svelamento di una poetica. Si incomincia con la citazione di parte del ritornello di una canzone di Pink, Try, che banalmente profetizza un destino di consunzione a opera del desiderio. Questo il preludio a un testo 'incendiario' che contrappone alla banalità delle canzonette un altro destino: divenire cenere “bagnata che non vola, | danza”, impregnata d'acqua, resto di ciò che era il fuoco (o come direbbe Derrida: “Feu la cendre”, ovvero 'fuoco la cenere', oppure l'omofono 'fu la cenere', e quindi il fuoco che la cenere un tempo è stata). Forse peccherò di un eccesso interpretativo, ma lo scritto di Derrida succitato rivela la tensione che si crea tra scrittura e parola, tra lettura a voce alta (corporale) e lettura silenziosa (mentale), ponendo in luce le numerose interpretazioni di una data scrittura - apparentemente lineare - una volta che questa è stata sottoposta a un pubblico di lettori: e allora il monologo dell'autore diviene dialogo con il lettore e, infine, polilogo quando i lettori comunicano tra loro l'esperienza di lettura, generando la critica, l'esegesi e, in senso più ampio, il discorso intorno alla letteratura. Non ci troviamo forse nel medesimo frangente leggendo queste poesie di Donalisio? Sospendendo la domanda, ritorniamo al testo e notiamo che, attraverso l'abbandono al rito incendiario (IV, “ho scosceso il dito | dalla tanica al cerino, avvinto faccia a vampa | come vischio addosso al pino”), il soggetto riesce a denudare Euridice - la vera musa dei figli di Orfeo, i poeti – lei, che può voltarsi ma non fugge e si vota alla morte (all'incendio?), prende la parola per inaugurare un nuovo dire, una coniugazione altra (la quarta!) che assicura la sizigia, l'unione perfetta di pensiero (mente, riflessione, passività) e azione in un senso e in quello contrario (contro-azione), ma anche contrazione: e davvero la mente si unisce al corpo, la riflessione all'attivismo, la ragione alla corporeità.

Giusi Montali


giovedì 4 dicembre 2014

Giovanni Turra, "Con fatica dire fame"

Le note critiche del premio letterario "Anna Osti"











Quarto appuntamento della miniserie di cinque post dedicati alle note critiche ai libri premiati o segnalati all'ultima edizione del premio letterario Anna Osti. Ringrazio i promotori del premio e i singoli autori di queste note. Ospito oggi il testo che Luca Pasello ha scritto per Con fatica dire fame di Giovanni Turra (La Vita Felice, 2014).

È sempre un’operazione sospetta, la traduzione intermediale dei prodotti artistici – poesia/teatro, pittura/poesia, poesia/fotografia – a rischio di fuga anarchica dal testo o di illustrazione banalizzante. Non così quando un’immagine, ad esempio, riproduca nel proprio medium il procedimento basilare di un testo poetico. La redazione di Nuovi argomenti ha pubblicato or non è molto quattro brani da Con fatica dire fame, accostandovi uno scatto di Miles Aldridge, Cigarette stubbed in egg yolk. È una macro su un uovo in camicia su cui sta conficcato un mozzicone, col rossetto che grida dal filtro, lampone. Lettura impeccabile, perché dice scarto e “scarto” è polisenso: ciò che resta, relitto; ma anzitutto slittamento, scostamento brusco del punto d’osservazione, sutura mancata (e della presenza umana solo familiari alterità o non consumazioni, a parte l’occhio che osserva). Il tutto operato su oggetti ground zero minimalia o rovine del quotidiano.

Giovanni Turra procede così, sia nella macrostruttura (nell’ordinamento del libro), sia nei singoli componimenti. Il libro, diviso in sezioni, fornisce da sé le proprie chiavi, evidenti dai corsivi-cornice di ogni sezione, generatori di prospettiva e più soggettivi. Ma in ogni brano si avverte quello scarto, si tratti di mondi oggettuali (ciò che è prossimo, feriale, domestico) o di presenze vive (persone, animali, memorie). Dal passo sicuro di Turra, che versifica saldo sul proprio timbro baritonale, la metafora è quasi assente e in esso è la dissonanza a partorire il senso: fatica del vivere (non della scrittura), assenza, distanze quali forme paradossali di comunione... Svolte del senso che non ti attendi. Come brace di sigaretta che sfrigola su un tuorlo, mentre due labbra siano altrove.

Luca Pasello

mercoledì 3 dicembre 2014

Roberta Durante, "Club dei visionari"

Le note critiche del premio letterario "Anna Osti"











Terzo appuntamento della miniserie di cinque post dedicati alle note critiche ai libri premiati o segnalati all'ultima edizione del premio letterario Anna Osti. Ringrazio i promotori del premio e i singoli autori di queste note. Ospito oggi il testo che Francesca Gironi ha scritto per Club dei visionari di Roberta Durante (Edizioni Di Felice, 2014).

Club dei visionari, di Roberta Durante, può essere letto come un diario di viaggio, scritto a esperienza compiuta. Nei cinquantadue brevi componimenti in cui è articolato, si susseguono tentativi di perlustrazione, o mappature dell'ambiente circostante, come a voler misurare le possibilità e la resistenza dello spazio – dell'immaginazione e del testo – attraversato (2, sembrava non essere mai stati a Firenze | le strade di brodo | e ogni due passi eravamo persi; 8, cercavamo bici a noleggio sulla Schönauser Allee | quando abbiamo girato l'angolo | una scritta enorme: LIEBE; 12, di solito il castello era abitato da gatti | quella sera ci fermammo lì a dormire | e i gatti ci lasciarono in camera un topo morto), in uno stato di coscienza collocabile tra il sonno e la veglia (38, non ero mai stata a Modena / ma quella notte mi ci persi | mi addormentai mezzora | nel bookshop di un castello | quando mi svegliai corsi a ritroso verso la stazione: | l'unico riferimento era un parco dove c'era la statua di un pupazzetto | illustrato in un libro di Rosemary Wells | Una mamma speciale). Se lo spazio è costellato di elementi che lo rendono incoerente nella logica della coscienza vigile, il tempo del racconto si riavvolge puntualmente in maniera ambivalente, muovendo insieme personaggi e scenario (20, ballavo magrissima in una tuta bianca | giravo la manovella | e ripetevo la storia: | ballavo magrissima in una tuta bianca | inseguivo un coniglio),come un nastro di Möbius (52, quando spostammo il letto | (perché si dorme con la testa a nord) | ricominciai finalmente a sognare | (ma tutto al contrario).

Francesca Gironi

martedì 2 dicembre 2014

Mariagiorgia Ulbar, "I fiori dolci e le foglie velenose"

Le note critiche del premio letterario "Anna Osti"











Secondo appuntamento della miniserie di cinque post dedicati alle note critiche ai libri premiati o segnalati all'ultima edizione del premio letterario Anna Osti. Ringrazio i promotori del premio e i singoli autori di queste note. Ospito oggi il testo che Luca Rizzatello ha scritto per I fiori dolci e le foglie velenose di Mariagiorgia Ulbar (Firenze Libri, 2012).

Alfred Tarski ha scritto che la formulazione “la neve è bianca” è vera se e solo se la neve è bianca. Il libro I fiori dolci e le foglie velenose, di Mariagiorgia Ulbar, porta con sé il lettore attraverso la doppia dimensione del tempo del vissuto biografico, che è dato, e del tempo della lettura, che si illumina passo dopo passo. Superficialmente, si potrebbe ridurre il processo di analisi a questo: è possibile scrivere la verità? La vocazione per una scrittura di viaggio, immersiva e frenetica (p. 49, […] e viene il sonno o è la fantasia | di calpestare orti e stazioni della metro | foglie e rotaie senza differenza | perché c’è da intendere in ogni luogo | una casa per me, il centro per partire), unita a una immaginazione analogica (p. 58, […] Ma oggi i pioppi hanno iniziato | a nevicare, | oggi in strada hanno esposto cassette  | di pesche un po’ dure | e si sono aggregati | gli atomi di infanzie e di morti, | nel momento giusto, oggi.), produce una qual certa alterazione del senso del tempo e dello spazio (p. 81, […] Cent’anni fa non amavo | il ribrezzo scivoloso delle bave. | Ora è meglio | questo sporco che facilita l’andare | e disegna tratti scuri | asciugandosi sul muro.), fino a mettere in discussione una definizione perentoria di cosa sia vivo e cosa invece no (p. 51, Perché poi la differenza è tutta questa | ci sono i vivi e i morti e si distinguono | nel ridere nel bere e nel mangiare | nel non riuscire a dormire | che è la massima espressione di vivezza. | Tanti troppi dormono | e hanno mandato i cani a ricercarli | ma i cani uggiolano davanti al sonno | e poche volte hanno abbaiato in segno di risata.), e in questo sta una forma di aderenza al senso soggettivo, tanto di chi scrive quanto di chi legge, determinando n verità. Agostino d’Ippona, nel De natura et gratia, ha scritto che se noi non l'avessimo sperimentato e lo sentissimo raccontare in terre dove non fosse mai accaduto, senza dubbio diremmo con aria di scherno e forse con le medesime parole di lui: "È assurdissima la necessità del dolore per far sparire il dolore di una piaga".

Luca Rizzatello

lunedì 1 dicembre 2014

Giovanna Frene, "Il noto, il nuovo"

Le note critiche del premio letterario "Anna Osti"



Primo appuntamento della miniserie di cinque post dedicati alle note critiche ai libri premiati o segnalati all'ultima edizione del premio letterario Anna Osti. Ringrazio i promotori del premio e i singoli autori di queste note. Ospito oggi il testo che Marco Scarpa ha scritto per Il noto, il nuovo di Giovanna Frene (Transeuropa, 2011).

Il noto, il nuovo. Appunti postumi  sulla natura del potere e della storia. Questo il preambolo da cui partire. Giovanna Frene non tenta una via facile né nella scrittura né nel (macro) tema trattato. È poesia non lineare, colta, citazionistica, con elementi storici e filosofici che si intrecciano ma tutto rientra nel progetto essenziale di scrutare l’uomo, gli estremi di cui è capace, i gorghi da cui non evade (mai, definitivamente) e quel reiterare una natura che collassa nei propri errori. Sono sviscerati i pensieri di un Novecento alle prese con totalitarismi e altri abissi e il male (termine riduttivo e generalizzante) pare essere un germe protagonista di difficile recinzione. Non si scappa di fronte a questi versi che spingono contro un muro chi si imbatte in essi, “noi che / mentiamo in ogni momento a noi stessi”, perché questa poesia pare distante (nei tempi e nei gesti considerati) ma parla di una realtà innervata nelle nostre viscere eppure spesso dimenticata. La scrittura non è semplice come non è semplice venire a patti con l’influenza del potere, la voracità di una bassezza dilagante, l’efficacia del male come rimedio per andare avanti, “senza desideri, corpi che orbitano”. I versi sono la sintesi pure di un modo di approcciarsi alla lettura e così alla comprensione e così alla vita. Il noto, il nuovo, emblematico titolo, presuppone anche dell’altro: “tutte le forme del passivo / in sequenza non fanno un attimo, ma di nuovo un vuoto, la soglia dell’attesa, l’ora / perpetua della fine”. Speranza la chiamerei. Illusione o desiderio che una razionale anamnesi sappia, grazie alla poesia, enuclearsi nelle menti dei lettori.


Marco Scarpa