martedì 29 luglio 2014

"Compagnia K" di William March (e uno sguardo agli americani)

"Leggere una Grande Guerra" #5

"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).

Sono passati già alcuni anni dalla pubblicazione di Compagnia K da parte di Castelvecchi (2010, pp. 256, euro 16, a cura di Dario Morgante) che ripesca la traduzione di Adriana Pellegrini, autrice della traduzione Longanesi del 1967 uscita con titolo Fuoco!. Ci apriamo con questa nota ad alcuni cenni sul contributo americano alla letteratura sulla Grande Guerra. E prima ancora di affrontare Hemingway (che forse non ha nemmeno senso ricordare, tanto è noto) potremmo ricordare John Dos Passos i cui Three Soldiers reclamano da tempo una nuova traduzione. Di certo del narratore dell'Illinois potremmo ricordare pure quell'One Man's Initiation uscito già con due traduzioni diverse e leggera variazione nel titolo, una presso Piano B e l'altra per Gingko edizioni. Sempre Castelvecchi ha pubblicato Orizzonti di gloria di Humphrey Cobb, libro dal quale fu tratto l'omonimo capolavoro di Stanley Kubrick con Kirk Douglas e Ralph Meeker e del quale rimaneva stranamente soltanto l'edizione di Editori Riuniti del 1964. Lo stesso recente best-seller Stoner di Williams incrocia nella parte a mio avviso più interessante, quella iniziale, il contributo americano alla Prima guerra mondiale. Ma gli echi di quell'immane conflitto nella letteratura d'oltreoceano sono numerosi e magari avremo modo di rincorrerne qualcun altro. Pensiamo soltanto a La paga dei soldati di Faulkner o a La stanza enorme di Cummings. Questo, come ricordato, per rimanere nell'alveo americano. E per soffermarci un po' sul nostro Company K segnaliamo soltanto alcuni spunti che ne elevano l'interesse. Pubblicato durante gli anni Trenta (1933), così come moltissima letteratura mondiale su quel conflitto, quasi a testimoniarne dei tempi di rielaborazione decennali, il libro di William March origina dall'esperienza diretta dell'autore tra i Marines in Francia. Strutturato in tanti capitoletti come tante sono le storie di singoli uomini qui radunate, è stato spesso ritenuto un faro dell'antimilitarismo. E se a volte ci spaventa solo pensare alla totalità dell'esperienza umana, quella di sempre o anche solo quella di oggi, provate a tuffarvi in questo tentativo riuscito di restituire una totalità dell'esperienza di guerra avvenuta in uno dei suoi tanti fronti.

domenica 27 luglio 2014

da "Il disegnatore di alberi" di Roberto Amato

Una poesia da #41


La poesia di Roberto Amato è davvero "un'onda d'aria fresca, frizzante, profumata" come ha scritto Manlio Cancogni nella nota finale a L'acqua alta. Si fa avvicinare e allo stesso tempo lascia un grande senso di enigma addosso. Ho voluto farne una lettura "in serie". I tre libri che ha pubblicato con Elliot, Il disegnatore di alberi (2009), L'acqua alta (2011) e Lo scrittore di saggi (2012) si trovano senza problemi. Così come i due libri usciti per Diabasis e intitolati L'agenzia di viaggi (2006) e Le cucine celesti (2003). Cucine e cucinare, cose che ritornano in quest'unico testo che ho scelto dal libro del 2009. Libro che si apre con un frammento di una lettera di Kafka a Milena ("Poche cose sono sicure, ma questa è una, che non vivremo mai insieme, in una casa comune, corpo accanto a corpo, alla stessa tavola, mai, nemmeno nella stessa città…"), Il disegnatore di alberi parte, arriva e sta tutto in queste parole del frammento, dopo aver attraversato un percorso di scrittura che convince sotto ogni aspetto.

Da quando il mondo è finito ti scrivo con più regolarità
(ogni giro di luna).

Dico finito ma esagero.
Ogni cosa è al suo posto.
Ma sono i posti
che non ci sono più
che sono incasellati in un termitaio:
un favo abbandonato dalle api.


probabilmente
esiste un Ordine Conclusivo.
(Voglio dire che il mondo non è stato ammassato a caso).

Ma noi non siamo interessati a queste cose.
Noi volevamo affittare un monolocale
per avere qualche rapporto intimo (non proprio sessuale):
ad esempio lavarci reciprocamente i capelli e pettinarci
e poi scegliere i nostri vestiti secondo una logica
che a me piacerebbe definire
stringente.

Poi volevamo costruire una libreria in cucina. Un vero ricettario
perché secondo me nella vita non si dovrebbe fare altro che cucinare
anche se poi non si mangia quasi niente.

giovedì 24 luglio 2014

"I piani eterni" per la collana Isola

Appena stampato; illustrato dal bianco, dal nero e dai grigi di Nicolò Pellizzon.


I piani eterni, pp. 16
testo di Alberto Cellotto e illustrazioni di Nicolò Pellizzon


La collana Isola - libriccini di poesia e disegni 
a cura di Mariagiorgia Ulbar e Andrea Bruno

[...] Ci sono occhi che restano / nei sentieri come bastoni di pastori / bellissimi tra i pastori e tra i bastoni.

martedì 22 luglio 2014

Intervista a Annacarla Valeriano su "Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (1880-1931)"

Librobreve intervista #44 
 

Non so se sia la presenza dell'ex ospedale psichiatrico di Sant'Artemio a Treviso ad avermi sempre trasportato verso simili ricerche oppure l'ammirazione per libri come L'officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale di Antonio Gibelli, con il loro portato di innovazione e rottura. Avendo intercettato questo libro della storica Annacarla Valeriano ho pensato che sarebbe stato interessante proporre ai lettori un'intervista che illustrasse questo suo recente volume uscito per Donzelli intitolato Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (1880-1931) (pp. X-262, € 26,00, introduzione di Guido Crainz). Come si ricava dalle note di accompagnamento al libro, quello intitolato a Sant'Antonio Abate fu uno degli ospedali psichiatrici più rilevanti nel panorama italiano e quindi, probabilmente, può assurgere quasi a paradigma per improntare il delicato percorso di studio e ricerca che avvolge simili istituzioni. Nello studio di Annacarla Valeriano attraversiamo oltre cinquant'anni di storia di questo ospedale psichiatrico abruzzese, che fu definitivamente chiuso nel 1998.


LB: Il sottotitolo porta una data di inizio: 1880. Come comincia la storia del manicomio di Teramo? Quali sono le premesse che ne accompagnano la costruzione e l'apertura?
R: Il 1880 è una data simbolica: fu a partire da allora, infatti, che la Congregazione di carità di Teramo iniziò a discutere la proposta di realizzare all’interno dell’ospedale civile Sant’Antonio Abate una sezione dedicata alla “cura e al mantenimento dei pazzi cronici”. Il manicomio poi cominciò a essere operativo l’anno successivo, accogliendo individui poveri tolti dalle case e dalle strade della città. L’apertura del manicomio a Teramo si inserì in una quadro generale segnato da precise strategie nazionali finalizzate al controllo e alla gestione della devianza; non a caso il periodo che va dalla fine dell’800 ai primi decenni del ‘900 è convenzionalmente ricordato come periodo del “grande internamento”. Il controllo sociale delle cosiddette “classi pericolose” fu al centro degli obiettivi della nuova classe borghese, impegnata a consolidare il proprio ruolo all’interno dello Stato unitario e il manicomio in questo senso si inserì all’interno di un ingranaggio istituzionale pensato per gestire “scientificamente” la devianza. Il manicomio Sant’Antonio Abate, inoltre, colmò un vuoto nella regione, poiché fino ad allora in Abruzzo i folli erano stati inviati in manicomi fuori regione, con un aggravio di spesa per le amministrazioni provinciali.

LB: Come si è mossa concretamente nella ricerca? Cosa l'ha aiutata molto e quali sono state le fasi più delicate e difficoltose?
R: Nella mia ricerca ho preso in considerazione 4812 cartelle cliniche di uomini e donne internate nel Sant’Antonio Abate fra il 1880 e il 1931. Il materiale documentario sul quale ho lavorato è stato molto ampio e devo dire che quella che io chiamo una “rigorosa autodisciplina”, fatta di lavoro quotidiano sulle carte e di grande volontà, mi ha permesso di portare a termine il lavoro. Non sono mancati momenti di difficoltà, soprattutto all’inizio quando ho iniziato a “dialogare” con le carte e ho dovuto accostarmi a un linguaggio, come quello psichiatrico, a me sconosciuto fino ad allora.

LB: Mi interesserebbe ora concentrarmi sull'arco temporale della Prima guerra mondiale. Quali sono le scoperte più interessanti relative all'impatto della Grande Guerra sulle stanze del manicomio e come si intersecano le sue scoperte con il grande filone di studi sui "matti" di guerra?
R: Per quanto riguarda la prima guerra mondiale, il dato più rilevante, a mio parere, è costituito dal fatto che il conflitto arrivò concretamente anche in una realtà “periferica” come quella del manicomio Sant’Antonio Abate che, a differenza di altri manicomi, durante gli anni del conflitto non aveva istituito al suo interno una sezione psichiatrica militare. Eppure vennero ricoverati fra le sue mura oltre 260 soldati traumatizzati dalla guerra, sbalzati dalle trincee alle corsie del manicomio. Attraverso i loro diari clinici, i loro racconti, i loro comportamenti, le lettere che inviarono ai famigliari, è stato possibile non soltanto recuperare i percorsi biografici di giovani uomini alle prese con un evento terribile, ma è stato possibile anche comprendere il carattere specifico di quell’evento che incise pesantemente su coloro che lo subirono, destrutturando paesaggi mentali e sovvertendo valori. A essere traumatizzati non furono soltanto i combattenti a diretto contatto con la linea del fuoco ma anche i civili: le donne e gli anziani ad esempio dovettero sostenere il peso dell’attesa snervante di notizie da parte di figli e mariti e in molti casi, non riuescendo a sopportare lutti e sofferenze, cominciarono a manifestare stati di malessere, di ansia, depressioni. Un dato interessante, inoltre, riguarda la presenza di profughi sfollati dal Veneto e dal Fiuli: a partire dal novembre 1917 nel manicomio di Teramo iniziarono a essere accolti quei profughi che avevano sviluppato forme di alienazione mentale in seguito alla fuga precipitosa o agli eventi traumaici vissuti.

LB: Al di là della saggistica e letteratura storica, ci sono opere o autori (ad esempio opere letterarie, qualche scrittore in particolare oppure studi di psichiatria e psicologia) che l'hanno aiutata più di altre ad affrontare questo tema e il suo lavoro?
R: Nel mio libro è presente un dialogo costante con la letteratura: ogni capitolo si apre con una citazione (Checov, Simone Weil, Celine, Hemingway, Benjamin, Sylvia Plath…). Le voci dei grandi scrittori sono state una specie di antidoto per potermi inoltrare nelle voci del dolore e ascoltarle; il ricorso al paradigma letterario, in qualche modo, mi ha aiutata a coniugare la “storia” con le “storie”.

LB: Che cosa mancherà sempre, cosa non è affatto possibile restituire con un libro come il suo? Voglio dire quali aspetti della sua ricerca crede sarà sempre difficile, se non impossibile, comunicare e trascrivere?
R: Il libro prova a restituire spessore e solidità a migliaia di esistenze ridotte alla marginalità, annullate da un’istituzione che ne rimosse i caratteri specifici. Gli uomini e le donne internati nel manicomio Sant’Antonio Abate erano destinati a passare sotto traccia nella storia, eppure hanno lasciato dei segni proprio grazie alle operazioni di rimozione messe in atto da un’istituzione che doveva annullarli. Probabilmente non sarà mai possibile restituire appieno la “sventura” che colpì queste persone, sventura intesa come decadenza sociale, morte civile prima ancora che fisica.

LB: Come si "tengono a bada" le emozioni che possono sorgere affrontando certe ricerche storiche? (Sempre se si tengono a bada, visto che non è detto che trattenerle sia la scelta migliore...)
R: In questa ricerca era inevitabile, per la natura stessa delle fonti, fare i conti con le emozioni: le storie di vita che ho recuperato sono belle e terribili allo stesso tempo. Cercare di tenere a bada le emozioni sarebbe stata un’inutile difesa.

LB: Il libro si interrompe in piena epoca fascista, nel 1931, anche se la storia del manicomio è più lunga. Perché questa scelta?
R: Il libro s’interrompe al 1931: anche questo è un anno simbolo perché è l’anno in cui Marco Levi Bianchini, direttore del manicomio Sant’Antonio Abate dal 1924 e divulgatore in Italia del pensiero psicoanalitico, lascia Teramo per andare a svolgere il suo servizio a Nocera Inferiore. La storia del manicomio è molto più lunga, prosegue negli anni successivi ma per me era interessante soffermarmi, in questa prima fase, su un cinquantennio, prendendo in considerazione il “lungo dopoguerra” e lasciando volutamente fuori il fascismo. Nel fascismo si apre un’altra fase, anche per i manicomi. Magari potrebbe essere un secondo percorso da affrontare in futuro.

LB: Scrivere la/di storia. Spesso ci si scorda di parlare della centralità della prosa adoperata dagli storici. Quali sono i suoi "modelli", se mi passa il termine, gli storici in cui la prosa corrisponde felicemente alla loro epistemologia? Grazie.
R: Credo che ogni storico, oltre a ricostruire gli eventi e a fornire interpretazioni, dovrebbe provare a parlare a tutti, con una prosa che consenta di raggiungere il maggior numero di interlocutori e che sia finalizzata alla verità e all’obiettività del racconto. In questo modo la conoscenza non rimane confinata negli alvei dell’accademia ma si rende accessibile a un pubblico più vasto. Tutti gli studiosi che fanno questo possono essere considerati dei buoni “modelli”.

domenica 20 luglio 2014

"Dismissione" di Fabio Orecchini e Pane

Il libro e il cd audio che Fabio Orecchini e Pane pubblicano per Luca Sossella Editore (pp. 72, euro 10, postfazione di Gabriele Frasca e intervento di Stefano Solventi), Dismissione, si inserisce in quel solco di riflessione sul biopotere che trova in Michel Foucault il più noto teorizzatore. Ho avuto modo di assistere di persona alla lettura di Fabio Orecchini e alle proiezioni che sono nate sulla scia di una riflessione lunga sul dramma dell'amianto ricavandone una duratura impressione ed è probabilmente per questo motivo che ora consiglio questo cofanetto. Un libro di poesie con lo stesso titolo era già uscito per Polimata nel 2010. Tuttavia, questo libro appena pubblicato da Sossella non è quel libro di Polimata. E non è molte altre cose. Non è affatto scimmiottamento di tematiche trite sul biopotere, giusto per restare alle righe d'esordio. Non è il cofanetto libro+cd che si prova a raffazzonare per vendere "l'invendibile poesia" con abbinamenti quantomeno discutibili se non sconclusionati e non è nemmeno un cofanetto caro (converrete che 10 euro per libro e cd è un prezzo che sta in piedi). Questo è un progetto vero è proprio, è un libro che dimostra costruzione, quasi la poesia fosse fatta di nuovi mattoni e il tetto di nuove tegole. La musica non è supporto della poesia e la poesia non è supporto della musica. Si può parlare di compenetrazione? Probabilmente sì. Si può parlare di manifestazioni diverse di una sensibilità comune. Possono vivere entrambe in autonomia - e questo è importante, fondamentale almeno per me - e possono vivere assieme contribuendo a formare un vissuto di lettori-ascoltatori che amplifica il "tema" trattato (ricorderete anche un romanzo di Ermanno Rea con lo stesso titolo e, su temi affini, il conseguente film La stella che non c'è con Sergio Castellitto) senza incanalarlo nei percorsi sterili dell'essere impegnati a tutti i costi, dell'essere impegnati come "posa". Qui è la parola a impegnare, non perché la parola e la musica siano ingenuamente "impegnate".

Orecchini è poeta nel coraggio di adoperare la parola. Adoperare, appunto, usare e non dismettere. Quello che è dismesso qui è tutto un corpo sociale e un meccanismo grippato tra le generazioni: l'amianto che ci ha intossicato lentamente e altrettanto lentamente anestetizzato. Sono testi attentissimi al rimando fonico anche nell'inserto tecnico/medico, all'iterazione, all'eco interna e ai ritagli di senso che s'incollano in un collage. Sono testi polverosi. Questi testi si susseguono sulla pagina, un lenzuolo di morte bianco, dove tocchiamo coi polpastrelli anche la forza di scompaginare, pure tipograficamente (questo è un aspetto molto interessante di quello che è messo in opera da Orecchini). E chi vorrà potrà trovare nel singhiozzo sillabico di questo poeta nato a Roma trentatré anni fa la lezione silenziosa di un grande dimenticato come Giuliano Mesa. E se approfondiamo guardando anche al progetto visivo "Modelli di bocche" (si veda il sito del progetto indicato alla fine di questo pezzo) - bocche deturpate dal veleno e dalla malattia, bocche che non hanno urlato il dolore e sono finite affossate, lontane da qualsiasi tribunale - allora scopriamo come siano molteplici ed efficaci le forme di azione di questo autore, come tutto sia manifestazione di un tempo, quello nostro, dove sembra stia succedendo di tutto e dove in realtà, per la prima volta nella storia, magari non sta accadendo proprio un bel niente o comunque nulla di rilevante, solo una lenta asfissiante ottundente morte resa più atroce dalla mancanza d'ossigeno.

Poesia sperimentale? Poesia di ricerca direi piuttosto, come è sempre stata tutta la poesia, compresa quella del Tasso o del Leopardi. Per dire che questa non è poesia che cerca orgogliosamente distacco dal "main stream" della poesia attuale (eh, già, si sentono persino queste formule obbrobriose riferite alla poesia fuoriuscire dalle bocche dei più operosi e glamour addetti ai lavori, ormai, ma non ci rassegniamo al fatto che la poesia stia diventando un gran cancan glamour e anche per questo segnalo volentieri Dismissione, nella sua totalità di progetto). Penso sia poesia che semplicemente cerca di non dismettere del tutto la volontà, il pensiero e persino l'emozione come chiave di avvicinamento alla storia. Ed è un libro che si affaccia in modo assai originale, quasi senza volerlo, quasi in punta dei piedi, sul lastricato scivoloso della memoria. Libro generazionale, se mi passate il termine, perché questi e quelli che verranno non potranno non tornare a essere tempi di scontri generazionali (e io mi stupisco sempre di come sia sempre tutto anestetizzato, tutto accomodato e apparentemente risolto il confronto tra generazioni). Se si deve passare per un ripensamento totale e quindi anche etico in primis, non potrà mancare uno scontro in qualche misura generazionale, che non deve necessariamente assumere i toni della violenza o dell'incomunicabilità, ma che dica una volta per tutte cos'era e cosa conteneva quell'amore che ci lega alle generazioni che ci hanno preceduto, amore a tratti avvelenato come l'amianto forse e che tuttavia non possiamo bonificare. Il libro di Fabio Orecchini mi ha portato a ragionare su questo. Se un libro di poesia riesce a muovermi così tanto, allora lo consiglio davvero. 

Il punto più importante della postfazione di Gabriele Frasca, quello centrale a mio avviso, sta verso la fine: "Orecchini [...] fa una scelta di estrema consapevolezza: le cose della sua generazione vivono del lascito tossico della presunta eternità della merce della generazione che l’ha preceduta. Generazione assai ottimista, quell’altra, tanto da ritenersi persino nelle cose della poesia l’ultima, l’ultimissima, quella del compimento. E invece...
Orecchini sceglie la dismissione, e centra forse la parola chiave della sua generazione. Il termine, lo sappiamo, che aveva una sua remota significazione nautica, a un certo punto è andato finanche oltre l’accezione economica affermatasi intorno alla fine degli anni Sessanta (che era già di suo une bella forzatura, visto che quel dis- non disdice un bel niente, non attestato com’è il suo sostantivo positivo se non in virtù di un ulteriore prefisso), sebbene i dizionari fatichino a registrare questo nuovo senso. Lo fa la poesia al posto loro, come sempre. L’io lirico della dismissione prende la parola dallo smantellamento della società industriale, che ha lasciato intorno a sé residui ineliminabili. Bella contraddizione: che è quella che anima il verso, che si riaggrega in forme riconoscibili puntualmente smentite dalla sintassi."


Qui il sito di Dismissione, al quale rimando anche per estratti dal libro e per altri contributi importanti.


giovedì 17 luglio 2014

"Quasi un abbecedario" di Giorgio Orelli. Sei domande a Yari Bernasconi

Librobreve intervista #43

LB: Quasi un abbecedario, libro postumo di Giorgio Orelli che hai curato per le edizioni Casagrande (in uscita in questi giorni, pp. 80,  Eu 14.50 - CHF 18.00), ha una genesi singolare. Potresti raccontarla?
R: L’idea dell’intervista in forma d’abbecedario è nata tra il 2010 e il 2011, durante una riunione del comitato di redazione di «Viceversa Letteratura», che voleva dedicare a Giorgio Orelli un dossier del suo quinto numero. Un modo per evitare toni celebrativi, ma anche per lasciare Orelli – conversatore straordinario – più libero di raccontarsi. L’iniziale lista di parole che gli abbiamo sottoposto cercava di toccare – dalla A alla Z – alcuni cardini della sua esperienza di scrittura (e non solo), così da ispirare aneddoti, precisazioni o approfondimenti. Da subito, però, l’esercizio si è trasformato in qualcosa di ancora più creativo: gli incontri si sono moltiplicati; alcune parole sono state aggiunte e altre lasciate cadere; la stessa forma orale dell’abbecedario – fondato sulla trascrizione poi rivista e approvata di diverse registrazioni sonore – si è fatta elastica e ha accolto alcuni testi battuti a macchina direttamente da Orelli. La prima tappa di questo abbecedario è appunto apparsa su «Viceversa» (n. 5, 2011), mentre il libretto Quasi un abbecedario rappresenta in un certo senso l’aggiornamento di quella prima esperienza e, insieme ai testi del 2011, rende conto dei successivi incontri (ci siamo visti l’ultima volta nell’autunno del 2013). In fondo, ci siamo lasciati guidare dalle conversazioni e dalla loro imprevedibilità, con stupore, senza porci troppe domande.


LB: Si ritrovano in questo libro, a mio avviso, molte delle caratteristiche di un altro libro di Orelli, La qualità del senso. Dante, Ariosto e Leopardi (uscito sempre per Casagrande). Mi riferisco a quel lavoro di torsione sulle parole e sulla lingua, un lavoro per certi aspetti "sporco", rasoterra. Ci sono sicuramente Contini, Spitzer, padre Giovanni Pozzi. Pure Roman Jakobson. Tutti nomi che tra l'altro appaiono in questo libro e ai quali è talvolta dedicata persino una lettera. Ma chi sto dimenticando tra quelli che Orelli amava e che non sono presenti in questo libro?
R: Giorgio Orelli si è sempre interessato alla critica cosiddetta “verbale”, aderente cioè – come afferma lui stesso, «alla testualità, o semplicemente all’espressività del discorso poetico». Il “manifesto” di questo impegno critico è il volume Accertamenti verbali (Milano, Bompiani, 1978), a cui sono seguiti diversi altri libri. L’ultimo è proprio La qualità del senso, senz’altro legato all’abbecedario in tutte le sue parti di critica letteraria, che si alternano però ad aneddoti e momenti più colloquiali. Del resto, alla lettera V come Varianti, l’incipit è significativo: «Certo, ogni critica è buona quando è buona. E poi: la critica è opera di intere generazioni. E poi... Stiamo col Contini, per il quale “è evidente che quella buona si svolge tutta sopra un solido fondamento verbale”». Ma sui “nomi” amati da Orelli si potrebbe discutere (chiaramente Contini, suo docente a Friburgo negli anni dell’università, è il primo nome da fare), con alcune sorprese: alla lettera J come Jakobson, per esempio, compaiono le Microlectures di Jean-Pierre Richard. Restando alla critica verbale, comunque, i nomi che ritornavano più spesso durante le chiacchierate (anche per alcune loro parole particolarmente felici o memorabili) sono Valéry e 
Mallarmé.


LB: Quello che mi stupisce di fronte a questi ragionamenti di cui sopra è come una solida base teorica lasci tuttavia spazio a impennate di critica e analisi testuale degne di una fantasia straripante, "infantile" nel senso più bello del termine. Ecco, la "fantasia di Orelli" (a mio avviso massima quando si addentra in certe analisi su Dante). Tu l'hai conosciuto e sai dire se questo aspetto fantastico è centrato e come va aggiustata eventualmente questa percezione.
R: Giorgio Orelli era molto curioso e non finiva mai di stupirsi. Penso che questo possa essere un buon punto di partenza – ancorché semplicistico – per avvicinarsi al suo lavoro (parlo della critica come della poesia, della narrativa, della traduzione). E il suo formidabile orecchio, unito all’erudizione ma soprattutto all’incredibile memoria, gli ha permesso di scoprire come pochi altri (forse come nessun altro, almeno in Italia) quanto agiscano sui testi – consciamente o inconsciamente – le infinite risorse del linguaggio. Orelli è stato per esempio capace di leggere passi battuti e ribattuti della nostra tradizione letteraria (come L’infinito, o l’attacco della Commedia) illuminandoli ulteriormente e illustrando caratteristiche che, a posteriori, sembra impossibile fossero rimaste nascoste.

LB: Te la senti di spendere la parola "maestro" per Orelli?
R: Senza ombra di dubbio.

LB: Qual è la tua lettera-parola preferita in questo abbecedario?
R: Da una parte, R come Rösti mi ha sempre divertito molto. Dall’altra, però, G come Goethe è l’ultimo testo battuto a macchina da Orelli per l’abbecedario, e l’ultimo a essere entrato nel libro: forse ci sono ancora più legato.

LB: Il libro è incompiuto (Orelli è morto nel novembre 2013), tuttavia giustamente tu ricordi nella nota introduttiva che non ha molto senso appassionarsi troppo al confine tra compiuto/incompiuto. Secondo te, se ci fosse stato modo di proseguire, quale lettera sarebbe arrivata dopo?
R: Ne sarebbero arrivate molte altre, e altre ancora sarebbero state scartate, poi forse ripescate, poi forse perse. Una lettera che gli avrei ancora proposto? La prima che mi viene in mente è Z come zoo.

martedì 15 luglio 2014

"L'importanza di essere piccoli". Poesia e musica nei borghi dell'Appennino bolognese dal 5 al 9 agosto 2014



Per il quarto anno, dal 5 al 9 agosto, torna “l'importanza di essere piccoli” un festival in cui musicisti e poeti si incontrano riabitando i borghi, i cortili, i sentieri e le radure dei boschi.
La bellezza ruvida dei paesaggi che fanno da sfondo agli incontri e ai concerti è la materia viva del festival che da alcuni anni rende possibile, insieme agli artisti e agli abitanti dei paesi, la parabola della poesia, il suo fremito. I versi oracolari tratti dal poemetto di Amelia Rosselli ‘Libellula, panegirico della libertà’, hanno suggerito l’immagine, emblema di grazia e gravità, un lapsus poetico che nel suo librarsi bilancia le ali e si dona allo sguardo.


io amo più forse,
le colline e le fresche brezze e le verdescuro
pinete, che i giganti passi dell'uomo
a. rosselli


IL PROGRAMMA

5 agosto – “Scaialbengo” centro culturale ippico, Castel di Casio ore 21
DINA BASSO, YARI BERNASCONI, ALBERTO CELLOTTO (letture)
ROBERTO ANGELINI (live acustico)

6 agosto – Molino del Pallone, Granaglione ore 21
LUIGI SOCCI (lettura/incontro)
DAVIDE TOFFOLO (concerto/spettacolo Graphic Novel is Dead)

7 agosto – Pieve della Rocca di Rofeno, Vergato ore 21
MARIO BENEDETTI (lettura/incontro)
RICCARDO SINIGALLIA (concerto)

8 agosto – Capugnano, Porretta Terme ore 21
FABIO PUSTERLA (lettura/incontro)
PEPPE VOLTARELLI (live acustico)

9 agosto – Castagno, Pistoia ore 21
LIVIA CHANDRA CANDIANI (lettura incontro)
MARA REDEGHIERI (concerto progetto Dio Valzer)

Tutti gli eventi sono a ingresso libero e in caso di pioggia si svolgeranno ugualmente nei luoghi indicati.

INFO
www.sassiscritti.wordpress.com
sassiscritti@gmail.com
fb: L'importanzaDiEsserePiccoli
mob: 349 5311807 | 349 3690407
Come raggiungere i borghi:
http://sassiscritti.wordpress.com/come-arrivare/

“L'importanza di essere piccoli” è organizzato dall'associazione culturale SassiScritti Circolo Arci di Porretta Terme (Bo) con la direzione artistica di Azzurra D’Agostino e Daria Balducelli

con il sostegno di
Regione Emilia Romagna, Provincia di Bologna, Comune di Castel di Casio, Comune di Granaglione, Comune di Pistoia, Comune di Porretta Terme, Comune di Vergato, Arci Bologna, Pro Helvetia Fondazione svizzera per la cultura.

con il contributo di
Fondazione del Monte, Banca di Credito Cooperativo Alto Reno, Banca di Imola filiale di Porretta Terme, Gelati Sammontana, Helvetia Thermal SPA Hotel

con la collaborazione di
Associazione “Amici dell’ antica pieve”, Associazione parrocchiale “Beata Vergine della neve” Pro loco di Capugnano, Circolo ricreativo Arci di Piteccio , Pro loco di Castagno, “Scaialbengo centro culturale ippico” di Castel di Casio, Pro loco Molino del Pallone, Libreria l’Arcobaleno di Porretta Terme, Centro turistico La Prossima di Castel di Casio, Arci Pistoia e circolo Arci Sperone, Libreria Lo Spazio di via dell'Ospizio di Pistoia, Anonima impressori di Bologna, The Califfo Pub di Porretta Terme, La Baracchina f.lli Tovoli lago di Suviana, Gelateria La Baracchina di Porretta Terme.

sabato 12 luglio 2014

Tradurre in italiano Paula Fox, Alan Bennett, Elizabeth Bishop, Shelley e Byron. Intervista a Monica Pavani


Librobreve intervista #42

LB: Paula Fox e Janet Fitch, e poi Alan Bennett e Elizabeth Bishop per Adelphi assieme a molti altri lavori. A quale traduzione ti senti più legata e in un certo senso, magari, a quale sei più grata, se così si può dire?
R: Sono parole che amo molto, “legata” e “grata”, perché rendono proprio lo slancio innato che mi rende indispensabile il tradurre, ovvero il desiderio di uno scambio profondo – di vissuti, di mondi e di emozioni. Per questa ragione, visto che è questo che mi preme, seleziono subito due autori per me fondamentali che ho tradotto, Janet Fitch e Alan Bennett, per motivi molto diversi. Forse però è doveroso precisare perché ho ‘scartato’ Paula Fox ed Elizabeth Bishop, che sono indubbiamente due autrici molto importanti. È semplicissimo: per me vita e scrittura sono la stessa cosa, una è l’esplorazione dell’altra. Poiché dunque io traduco come vivo, tendo a essere attratta dalle persone che non si difendono troppo nei confronti della vita, che affrontano di petto, e con generosità, ogni genere di avvenimento. Paula Fox ed Elizabeth Bishop a mio sentire interpongono un filtro fra quello che vivono e quello che tramutano in scrittura, sono troppo consapevoli della distanza fra le parole e le cose, e per questa ragione la traduzione dei loro testi per me è stata più difficoltosa.
Veniamo dunque a Janet Fitch e White Oleander, un libro che è uscito nel 2000 per Il Saggiatore con il titolo Oleandro Bianco. Posso solo dire che è uno dei romanzi che più ho vissuto in prima persona, arrivando a sentire fortemente ogni personaggio, anche nella parte che forse risulta meno essenziale (la seconda metà del libro). A tutt’oggi – e di anni ne sono passati – io ancora ‘sento’ la protagonista, Astrid, e Ingrid, la madre, come persone vive, delle quali avverto la necessità in ogni pagina. Nonostante la stesura finale della versione italiana sia andata incontro a ogni sorta di contrattempi su cui ora non intendo soffermarmi (in pratica il romanzo stava per uscire con la seconda parte che ancora non avevo revisionato), continuo ad avvertire che pulsa di vita, e – cosa importantissima – alcuni momenti del libro continuano a tornarmi in mente quando meno me l’aspetto.
Alan Bennett è un altro mondo ancora: The Uncommon Reader (La sovrana lettrice), uscito in italiano nel 2007, è un romanzo breve che in ogni riga mostra la sua vocazione teatrale: le descrizioni sono ridotte al minimo, i protagonisti sono caratterizzati da pochi tratti indispensabili, è un mondo intero che prende forma da poche osservazioni ironiche, geniali. Partecipazione assoluta dell’autore al suo universo, oltre che all’irresistibile protagonista, eppure presenza di quel velo che serve a rappresentare ogni dettaglio con il linguaggio più congruo. Che responsabilità – per chi traduce! Quante riscritture, quante revisioni, tentativi di rendere efficaci le battute anche per il lettore italiano. Con Adelphi si lavora sulle bozze come se si stesse scrivendo un testo nella lingua di arrivo, e io condivido questo modo di procedere, anche se i Translation Studies sarebbero pronti a metterci sotto processo…

B: Ora la freccia del tempo nei tuoi lavori di traduzione sembra aver improvvisamente preso una direzione verso tempi più lontani. Ci racconti di Shelley?
R: Trovo molto interessante questo tuffo nel passato, che forse ho potuto affrontare solo dopo avere affinato i miei ‘strumenti’ su opere di autori contemporanei. Qualche anno fa, tramite un contatto con la casa editrice Marsilio, mi è stato chiesto di tradurre un poema lungo, Adonais, del poeta romantico Percy Bysshe Shelley, scritto e pubblicato nel 1821. Il volume in cui sarebbe stato incluso (la cui pubblicazione dovrebbe essere prevista per il prossimo settembre) porta il titolo di Adone, e racchiude varie opere di autori che hanno scritto la loro versione poetica di questo mito. Mi sento di fare queste precisazioni, perché, quando traduco, ho sempre presente il tipo di pubblicazione finale, e questa consapevolezza mi influenza molto nelle scelte. In questo caso, per esempio, ho sentito che non era indispensabile essere un’esperta dell’opera di Shelley (ci sono studiosi che sono molto più addentro di me nella conoscenza della scrittura di questo poeta romantico) ma che era fondamentale trovare una ‘voce’ per il poema in italiano che fosse viva, e convincente. Ho la sensazione di adottare sempre più un approccio ‘teatrale’ ai testi che traduco, nel senso che – istintivamente – concentro il lavoro seguendo un metodo che si potrebbe definire ‘stanislavskijano’, ovvero mirato a trovare le soluzioni che ritengo più idonee solo dopo aver ricercato una profonda immedesimazione con l’autore nel momento in cui si è trovato a scrivere quel particolare testo. Prendiamo l’Adonais: Adone per Shelley non è soltanto il mito omonimo, ma è anche John Keats. Shelley scrive infatti Adonais dopo aver saputo della morte del poeta e, soprattutto, mosso dal senso di angoscia derivante dal fatto di sapere quanto Keats fosse rimasto interiormente distrutto dalle critiche mosse al suo poema Endymion, proprio da alcuni degli intellettuali da lui ritenuti più influenti. In breve: nello scrivere Adonais, Shelley pensa a Keats, e nel pensare a Keats si identifica con lui, e pensa anche a se stesso, alla sua sorte di poeta. Io avrei dovuto innestarmi in questa ‘catena di immedesimazioni’. Come fare? Ho cercato di fare una prima stesura del poema solo dopo aver letto il più possibile di Shelley attinente a quel periodo. Lettere, altre opere e, in particolare, il saggio A Defence of Poetry (Difesa della poesia), che il poeta scrive nello stesso anno e a cui affida tutte le sue riflessioni sulla poesia. A ciò è seguita l’individuazione delle ‘forze universalizzanti’ che mi sembrava Shelley ritenesse fondamentali nella poesia: 1) la musica del verso; 2) l’elemento del piacere; 3) la personificazione; 4) le potenzialità della poesia legate all’infinito e, infine, 5) l’elemento divino della poesia. È proprio da queste ‘forze universalizzanti’ che ho cercato di farmi guidare nelle revisioni del poema, scegliendo non solo le parole ma anche la ritmica, o le sonorità, che più mi sembravano soddisfare queste ‘richieste’. Infine: rilettura ad alta voce, per sentire se c’era, questa voce, e correggere dove si indeboliva, dove non era abbastanza caratterizzata.

LB: Mi parlavi del lavoro presente su Byron...
R: Byron l’ho incontrato mentre inseguivo Shelley… Dicevo prima che tradurre per me è vivere, in effetti nella vita e nella traduzione mi accade la stessa cosa: conosco persone indispensabili che mi portano a incontrare altre persone indispensabili. Devo dire che verso Byron mi ha fatto ‘virare’ una mia amica compositrice di Venezia, Letizia Michielon, la quale dopo aver letto la mia raccolta di poesie Luce ritirata (dove parla in prima persona la scultrice francese Camille Claudel), ha ritenuto che io potessi dare voce al personaggio quasi muto di Astarte che compare nel poema Manfred (1817) di George Gordon Byron. Letizia voleva scrivere le musiche, ma voleva una voce per Astarte, che nel poema si limita a pronunciare poche battute.
Possiamo parlare di traduzione anche in questo caso? Io ritengo di sì, anche se mi rendo conto che la mia affermazione è del tutto discutibile. Traduzione per me significa movimento verso l’altro da sé, non attaccamento al proprio ego, esplorazione di altri esseri, e non necessariamente umani, e non necessariamente viventi…
L’esperienza di tradurre è commovente perché io sento con tutta me stessa che gli scrittori, o – più in generale – le creature che accudisco poi finiscono per aiutarmi nei momenti difficili, o per spalancarmi un nuovo orizzonte quando comincio a sentirmi intrappolata entro i limiti soffocanti di mondi noti. Anche Byron ha fatto questo per me: per dare voce a Astarte, e scrivere i testi che sono confluiti nella breve raccolta Le parole sono respiro – a loro volta tradotti in musica da vari compositori contemporanei (fra cui Letizia Michielon), e l’anno scorso interpretati alle Sale Apollinee della Fenice di Venezia – ho letto lettere di Byron, biografie, libri che indagano il suo rapporto forse incestuoso con la sorella Augusta, che mi sembrava essere alla base della necessità che aveva dato vita al poema Manfred, e forse all’imperativo di lasciare Astarte (Augusta?) quasi letteralmente senza parole.
Byron poeta è come Byron uomo, e cioè estremamente contagioso: non dà tregua, in lui un interesse segue a un altro, una curiosità ne scatena mille ulteriori, il vissuto scivolato nel passato chiede di vivere altre miriadi di esperienze nel presente, quasi senza respiro…
Ecco perché adesso sto traducendo il suo poema Parisina, ispirato alla misteriosa vicenda tutta ferrarese di Ugo e Parisina, in cui – inutile dirlo – anch’io (originaria e tuttora vivente e amante perenne della città estense) non posso fare a meno di sprofondare. Ho letto le lettere che Byron ha scritto da Ferrara, e quanto mi suggestiona immaginarmi lui che nell’Ottocento arriva nella mia città, si fa chiudere nella cella dove era prigioniero il Tasso, legge manoscritti, si lascia sedurre da Ugo e Parisina… si può forse resistere alla tentazione di seguire le orme del grande poeta romantico?

LB: C’è un poeta e un narratore che vorresti tradurre o ritradurre?
R: Vorrei imparare il tedesco per tradurre (per me, visto che è già tradotto) R. M. Rilke, il russo per tradurre (sempre per me, visto che lo sta traducendo in toto la meravigliosa Serena Vitale) Osip Mandel’štam, lo spagnolo per tradurre (per me) le opere di Javier Marías che ha scritto e che scriverà e – soprattutto – vorrei ritradurre (per me) tutto Shakespeare perché solo dentro le sue opere si sente la vita – tutta… che ne dici del mio idealismo romantico?

LB: Da quali grandi traduttori italiani senti di aver appreso di più?
R: Certamente da Serena Vitale (nella foto a lato), che ho appena nominato, anche se non so il russo, perché anche lei per tradurre entra nel mondo dei ‘suoi’ autori, li fa propri e posso percepire questo – pur non conoscendo la lingua di partenza – nelle splendide versioni che ci dona, e nei testi che scrive lei stessa. Per quanto riguarda la poesia non posso non nominare Cristina Campo – le sue traduzioni di John Donne mi si sono imposte come manifesti di bellezza al di là e in accompagnamento alla sconvolgente bellezza della poesia di John Donne. Ma anche Anna Nadotti e Fausto Galuzzi, per aver dato vita all’universo di A. S. Byatt, un’autrice che ammiro per la vastità del suo immaginario.

LB: Vorrei evitare domande tecnico-economiche sulla condizione del traduttore in Italia, ma vorrei invece farti una domanda tecnica sul tuo modo di tradurre, sulla tua quotidianità quando sei nel clou del lavoro e persino sul tuo tavolo di traduttrice. Ce lo descrivi? Grazie.
R: Questa domanda è bellissima… il mio tavolo di traduttrice quando sono nel clou del lavoro (che ultimamente non è mai esclusivo, purtroppo, ma sempre obbligato a convivere con altri mille lavori…) è – come dire? – una trincea… mi piace questa immagine, naturalmente se presa dal lato ironico che spero sia evidente. Devo scavare uno spazio nella quotidianità invasa da mille altre necessità più o meno concrete – come tutti immagino – ma tradurre richiede (per quanto mi riguarda) una dedizione assoluta. E allora impilo libri fondamentali, dizionari, poeti che mi sono necessari per il loro stile, il loro amore per la parola nel momento in cui traduco altro che li chiama, e necessito di penne stilografiche (non si può immaginare quante…) a più colori, e anche molte matite (perché nulla per me è definitivo, nella traduzione, devo poter cancellare, sempre) e poi un bel quaderno, perché magari quella particolare traduzione mi sta risvegliando il desiderio parallelo di scrivere, e una quantità di libri (più o meno utili o inutili) che ho preso in prestito in biblioteca perché potenzialmente possono contenere un riferimento di cui sono all’oscuro, e un dizionario enciclopedico, che spero sempre possa contenere il mondo – in ogni attimo – e sopra quello una pila di libri di Ghiannis Ritsos (mi serve –absolutely! – per rinnovare l’inventiva, se mi perdo nelle secche della traduzione tecnica parola per parola e dimentico che tradurre è ricreare). Una luce – per la notte – quando viene l’ispirazione per un riferimento misterioso che si è cercato per molti giorni e improvvisamente si apre nel più imprevisto momento di silenzio. Una pila di lettere – accatastate contro la luce – che sono fiera di aver conservato nella loro natura cartacea. Foto – di chi amo – che devo poter guardare negli occhi quando mi perdo. E la mia ‘pila privata’ che non posso rivelare in dettaglio (altrimenti che privato è?) che racchiude libri, lettere, altri libri con dediche di chi amo e mi ricorda, anche lui in ogni attimo, che tradurre è amare, oltre che vivere, e che la soluzione di una frase oscura è sempre nel dono massimo di sé. Con questo concludo, mi sembra di avere reso il caos tanto amato del mio tavolo di lavoro!

giovedì 10 luglio 2014

"Fermento di luglio" di Erskine Caldwell

C'era una cosa che Giovanna De Angelis sosteneva con vigore, ed era la necessità di procedere con urgenza a nuove traduzioni di alcuni autori americani che erano approdati nel nostro paese all'epoca dei grandi traghettatori della premiata ditta Vittorini-Pavese. E tra questi mi pare di ricordare che Erskine Caldwell stesse in cima alla lista. Ora che Giovanna De Angelis non c'è, la casa editrice Fazi, nella quale ha operato a lungo, sta proponendo una nuova serie di traduzioni dello scrittore nato in Georgia nel 1903. Dopo La via del tabacco e Il piccolo campo è la volta di Fermento di luglio (pp. 188, euro 17,50), terzo tassello di una trilogia del Sud, come i precedenti tradotto dall'americanista Luca Briasco (autore con Mattia Carratello di La letteratura americana dal 1900 a oggi, un volume che ho scoperto in tempi recenti come ottimo e quasi irrinunciabile strumento).

Fermento di luglio era uscito nel 1960 per Mondadori, nella traduzione di Maria Luisa Fehr, vent'anni dopo la sua comparsa in America. Leggerlo pensandolo uscito nel 1940 fa un forte effetto, sia a immaginare quel che accadeva in Europa, sia a ricordare quello che accadeva negli stessi Stati Uniti dopo un decennio di depressione. La storia è quella di una messa in scena di uno stupro da parte di una ragazza sobillata da una madre incattivita coi neri. Lo sceriffo, il personaggio più inseguito da Caldwell e probabilmente il più interessante della storia, non fa nulla per bloccare la psicotica caccia all'uomo nero accusato del misfatto. E al di là dei personaggi, al di là della storia di psicologia sociale che uno può e deve agilmente leggere, al di là di poter leggere questo romanzo come l'ennesimo che tenta di acciuffare il problema del razismo in America, qui ritorna in tutta la sua prepotenza catastrofica e affascinante l'afa della grande narrativa americana della prima metà del Novecento, un universo fra gli universi, ricreato da molti scrittori con efficacia e poesia mirabile. Due altri nomi soltanto: Steinbeck e Faulkner.

Autore prolifico, talvolta snobbato (in italiano troverete tradotta la sopra citata trilogia soltanto), Caldwell sembra oggi ripercorrere, in tempi di sdoganamenti puntiformi, il percorso che altri autori provano a compiere sulla strada di un riavvicinamento con i lettori. Anche questo è un fatto intimamente legato alla traduzione e alle traduzioni. Lo paventavamo in apertura, ricordando Giovanna De Angelis. E visto che di traduzione si parla, per concludere, a chi può interessare, segnalo questa conversazione con il traduttore Luca Briasco ascoltabile qui.

lunedì 7 luglio 2014

da "La foglia è due metà" di Giampaolo De Pietro

Una poesia da #40

Chiudendo con i bellissimi disegni di María Mantella vi porto al libro di poesie di Giampaolo De Pietro La foglia è due metà (Buonesiepi libri, pp. 208, euro 12). Col tempo mi impigrisco e così, dopo le numerose interviste che propongo, in cui lavorano più gli intervistati del sottoscritto, inauguro con questo post un ulteriore possibile sviluppo "pigro" di Librobreve, vale a dire quello del "post ospitato", una situazione in cui chiedo a persone conoscenti o amici di pubblicare un loro testo, continuando a parlare di libri e a orchestrare assieme un post. Mi auguro ci sia un seguito e alcuni amici sono già avvisati. Lo scritto qui sotto è di Giampaolo De Pietro, così come il successivo ricordo del Premio Baghetta, dove emerge il retroscena simpatico di un premio che sembra una mosca bianca nel panorama nazionale dei premi di poesia e del quale abbiamo già avuto modo di parlare nell'intervista a Dario Borso. Buona lettura.

La foglia è due metà è un libro nato probabilmente, me ne rendo conto adesso, per cercare casa. I testi appartengono a periodi-diari differenti, il più estremo di questi era "senza casa" - un periodo senza protezioni insomma, se un tetto, un amore, una famiglia, un me stesso possa considerarsi un tetto, o anche uno scoperto per ritornare a un tetto la sera, la notte. L'altra sua casa, quella del libro, e di un altro periodo in cui è stato scritto, è quella di famiglia, è quella dell'amicizia, della scoperta della parola che vuole condividersi, parlare, camminare, farsi strada "attraverso". La terza e ultima casa, diciamo quella della "decisione" è una casa al mare in inverno, mentre lavoravo in un bar di paese di mare, Acireale, e sparecchiavo tavolini di colazioni, colazioni di granite buonissime. Il mare è quello della mia infanzia e adolescenza, forse sì, il mare dell'adolescenza che non ritorna mai, mentre l'infanzia ci coglie tantissime altre volte. Il mare di Santa Tecla, che ho imparato a verseggiare e a sorseggiare nuovamente, da grande, senza spazio più all'adolescenza, ma probabilmente col gusto salato di una specie di adulta infanzia che rientra, con l'amore che prende consapevolezza e beve alla naturalezza dei giorni, i giorni che sono fatti semplicemente di qui e ora, da allora in poi. La foglia ha due metà, che non sono né superficie né profondità, ma entrambe - e poi ha una parte d'aria infinita e misteriosa che segna anche il mio volere in scrittura, che forse è delle parole, di una parola sola e di nessuna possibilità di scrittura, forse e soltanto di una lettura aperta delle cose naturali che rendono "probabile" l'essere al mondo senza risposte uniche e consolidate - che nessuno, o la maggior parte non va a far visita - pensiamo al mare d'inverno, alle foglie non calpestate né colte, quelle "fuori stagione", quelle che respirano da qualche parte, sulla soglia di una casa d'albero che sempre le accoglie e manda, decidendolo il vento, la pioggia, le loro stesse vertigini.
Così, Lfèdm è un libro di difetti, quasi gli stessi dello stare, del decidere senza la possibilità di decidersi mai definitivamente, o per definizione.
Fin

Un ricordo del Premio Baghetta di Giampaolo De Pietro
È trascorso un anno, proprio uno, erano i primi giorni del giugno 2013, Premio Baghetta, nella città di Milano. A un certo punto (forse proprio a metà serata) qualcuno diceva: salamella e vino (non proprio come al mercato) - ed io sono vegetariano, e il vino mi piace, mi piace gustarlo con il pensiero dell'uva e dello stare bene. Alla libreria popolare Tadino, libreria ufficiale del premio si incontrano gli altri amici, i candidati poeti, dalle facce sparse qua e là, i nomi ricordati un po' di più, per il tanto informativo/informatico mezzo del social network, e per puro caso, si dirà. Maria Silvana Pavan, pianista e accogliente "ragazza dai capelli rossi", è stata il primo contatto tra me e il Baghetta (ci accoglie in casa sua e lì conosco il primo “baghettaro in premio”, Marco Scarpa e Sara Tisci, la sua fidanzata, molto simpatici) - poi Dario Borso - e ci metto in mezzo anche il caro Marco Coccioli e sua moglie Margherita Bignardi, e ci metterò dunque pure lo zio Carlo Coccioli, scrittore amato, che ha permesso di conoscerci (e adesso incontrarci). Mi trovo a mio agio: c'è Francesco, c'è Maria Giovanna, due delle persone che più amo, siamo in tre e in tanti altri, incontro e "materializzo" Viola Amarelli, Greta Rosso, Davide Nota, altri e altri ancora. Gente davvero simpatica: è una festa. Le letture sono divise in tre "postazioni" - a pochi metri di distanza, della stessa strada, la via Tadino (le avevano fatte scegliere agli autori, giorni prima, sempre via rete). La prima, il basso della libreria, davvero bassa e stretta, una piccola galleria dove si incontravano gli occhi belli di Alberto Casiraghy e la voce gentile e stupita di Franco Loi. C'è Valentino Ronchi, il vincitore della passata edizione. Una due tre letture, Nadia Agustoni tra queste, altro incontro già importante al primo istante. Biagio Cepollaro, asciuttissimo e sonoro. Si va fuori, ed ecco il cibo  il vino, il continuo dell'allegria. Altra lettura, poco più avanti, alle Officine - altre belle letture, ‘stavolta un tantino più ariose, s'intende per il tetto e lo spazio in cui avvenivano - Francesco Balsamo, Alessandra Carloni Carnaroli, Davide Nota. Mi parte l'ansia da "fra poco tocca a me", ma mi passa presto, me ne dimentico quasi. Perché si parla, ci si guarda in faccia, ci si legge in volto, pure - i versi sanno arrivare a chi è lì, e lo vuole, e li ascolta. Terza tappa delle letture, la piazza, rettangolare, una banda e un tango [padrino JovicaJovic (fisarmonica), madrine: Camilla Barbarito (voce), m.lleSainteBouteille (tappo)], introducono e avanzano, il turno di Viola (Amarelli), di Greta (Rosso), Vincenzo Ostuni, Marilena Renda, Dario Bertini (in piedi sul bordo della fontana), il mio, da qualche parte. I voti dei presenti, la giuria sul posto, la giuria popolare - Nico Polerti vince col suo libro, Fora de ora, Vegre Edizioni, prende il maggior numero di voti. Qui ci si ricorda che qualcuno dovrebbe vincere, perché, almeno io, lo avevo dimenticato. A un certo punto, Dario Borso, con quel suo piglio ironico, forzuto e consistentissimo, annuncia un po' le direzioni e le scelte, le volontà della giuria e quelle del premio in generale (tutto molto serio e considerevole, proprio nello spirito costruttivo del confronto e dell'apertura "verso, con e per"), quest'anno ospitato dal Festival della letteratura di Milano, e guardandomi in faccia fa il mio nome, uhm, dico, Borso perché qui davanti a tutti, perché mi prendi in giro così? Embè, pare io abbia vinto, il e la Baghetta, dal titolo “getbout”,  scultura lignea a forma di baguette in premio, realizzata per l'occasione dall'artista milanese Pietro Spica. Insomma, calore. Gente molto accogliente, molte donne a domandare una poesia d'amore un'altra politica, e io a sbrigarmi dicendo che tutto il libro è d'amore e politico. Ringrazio, ringrazio tutti, dico del libro, dal titolo La foglia è due metà, libro che è venuto per caso, non c'entrava quasi niente in un dato momento, libro molto voluto da chi lo ha curato con amore e attenzione, Francesco (Balsamo), Alessandra Roccasalva, Franco Noto (e la sua Officina delle immagini), con la bella prefazione della poeta amica Cristina Annino e un disegno dell'artista argentina, di casa in Spagna, María Mantella. Il libro è in ex-ex aequo vincitore con quello di Vincenzo Ostuni, Faldone zero-venti, Ponte Sisto 2012 - mi aveva colpito nella sua lettura: tutti i fogli sparsi fra le mani, mi era sembrato un libro componibile, e lo stesso Ostuni mi pare mi abbia detto quella verità, che i libri lo sono sempre, non finiti. C'è pure il premio alla corriera (acquaforte di carpagigante/carpagigante d’acquaforte by Luciano Ragozzino) che viene assegnato ad Alessandra Carloni Carnaroli per il suo Femminicidio, Polimata edizioni.
La foglia è due metà inaugura un progetto, non solo editoriale, dal nome Buonesiepi - rappresenta il numero zero della parte libresca, Buonesiepi Libri. È un progetto aperto alle arti, tutte, o tutte quelle che entreranno a far parte di questa Siepe. È appena uscito il numero due, Cotone di Martina Campi.
p.s. A proposito di nomi, quelli citati sono quelli che ricordo, che ho incontrato con lo sguardo e con l’udito, che mi si sono sottolineati alla memoria di adesso che ho provato a tracciare una storia, dunque un po’ distratta, della sera del Baghetta.

Scrive Cristina Annino: "Poesia delicatissima, sempre snodata, come intricato è il senso di qualunque angoscia, dove il viso di Palazzeschi si affaccia per un attimo, poi scompare davanti a un dolore che da gioco linguistico si fa seria malinconia cronica anche dell’invisibile." Eccone alcuni esempi.

Parlarti
Capovolgere questo
Precipizio del senso
E abbattere il leggero contrasto
Cioè farlo cadere lì dov'è, sul posto
Di me e te, al centro, trasparente tanto
Da lasciarci avvicinare le voci e ancora
I loro tuoni morbidi

-

Le case basse
più del
tramonto, se
batto la testa
spererò nel
mare, nelle esse
forti delle sue
onde beige e nel
suo fiato dal 
riverbero
essenziale e lo
spinoso as-
terisco del suo 
falsettone

-

Avrei voluto parlarti per
l'ultima volta, prima
di ogni fatalistica impossibilità
a parlarti ancora, e guardarti
negli occhi e sentirci parlare,
ancora una biglia
stavolta del vento, mi permette
di farlo, notte e giorno, nel sonno
del primo mattino, a ogni risveglio.

Non c'è più nessuno, 
soltanto l'ultimo odore dei fiori,
un'ipnosi del fiuto. E fuochi

-



 
(Tutti i disegni sono di María Mantella. Qui il profilo Flickr dell'artista.)

sabato 5 luglio 2014

Se si sbriciola il cartongesso di Francesco Maino

Sembra che il Veneto faccia parlar di sé. Tralasciando la cronaca politico-giudiziaria di questi ultimi tempi, qualche tempo fa anche il sito "Le parole e le cose" dedicava un intervento al "problema veneto", proprio in concomitanza con la premiazione di questo libro, e da quando la giuria del premio Calvino composta da Irene Bignardi, Maria Teresa Carbone, Matteo Di Gesù, Ernesto Ferrero ed Evelina Santangelo ha decretato Cartongesso (Einaudi, pp. 248, euro 19.50) vincitore di uno dei premi più prestigiosi, sembra tutto un nuovo puntare di riflettori sul caso veneto. Che cosa avrà mai di speciale questa zona d'Italia? Osservatorio privilegiato? Laboratorio inquietante del futuro? Zona cerniera tra Est e Nord dell'Europa? Exemplum del caso italiano nel suo complesso? C'è da dire che leggendo questo libro, almeno per una persona che ha speso in questa regione buona parte della propria vita, è tutto più semplice. Mi riferisco alla scrittura. I numerosi inserti dialettali, la sintassi, gli impliciti della dizione e dello sguardo risultano accessibili. Il libro, che non è ascrivibile a un genere ben preciso (né romanzo, né pamphlet) si apre con una memorabile e doverosa invettiva contro l'escalation della parola "territorio". Finalmente! Era ora che qualcuno dicesse del ribrezzo che tale parola provoca quando la si sente nella bocca dei politici, degli amministratori, degli operatori culturali (e c'è pure spazio per prendersela contro la rucola, sì, la rucola, anche se devo dire che avevo un amico che voleva fare la tesi di laurea sull'ascesa incontrastata della rucola tra tramezzini, bresaola e tagliata di manzo). Tutti ma proprio tutti si riempiono noiosamente e tristemente la bocca di territorio per poter meglio reificare il paesaggio e il conseguente consumo di suolo e risorse. Maino mostra sin dalle prime battute quello che è a mio avviso il punto di forza di questa proposta di lettura: una capacità ancora viva di fare critica sociale partendo e ritornando alle parole. Qui, prima ancora che nella geografia, sta a mio avviso l'interesse maggiore che si deve riservare a questo libro che per altri versi, durante la lettura, ha rischiato invece di lasciarmi pericolosamente indifferente, come qualcosa che ti dice "è così", "siete/siamo così", senza aggiungere nulla di nuovo al dato. Ma sto scendendo sul piano delle valutazioni personali e invece mi interessa parlare un po' di questo lavoro.

Quello che Maino dice (vomita?) descrivendo luoghi, persone, prassi di questa regione credo lo pensiamo davvero in molti tra i miei coetanei. La novità allora sta più nel come lo dice e nel fatto che abbia deciso di scrivere chiaro mostrando una preferenza per l'accumulo, per la paratassi, per il ricorso frequente al corsivo, per l'inserto dialettale (che talvolta però pare tradotto in modo rinunciatario e non capisco se è una scelta redazionale, visto che l'autore mostra invece di saper collocare esattamente l'inserto dialettale), per il gusto per il dato numerico ricorrente con il numero scritto in lettere seguito dal numero in cifre tra parentesi (il contrario di un assegno, circa), per l'affollamento in una pressoché totale assenza di trama che sembra ricalcare mimeticamente la devastazione morale, psicologica e urbanistica che è stata impressa su questa terra nel dopoguerra. L'impressione che il lettore ricava è quella di una violenta e copiosa vomitata, senza interruzioni. Non vi sono né capitoli né paragrafi. Tutto un continuum, una colata lavica (anzi no, di cemento) presto solidificata, un blocco massiccio dove non passa aria, un flusso di una fissità stordente dove si ricorda che tutto è già accaduto, che una generazione (quella dell'autore) era già morta e sepolta prima dei vent'anni e si trova ora morbosamente attaccata alla generazione precedente dei padri e delle madri. Anche tipograficamente l'impressione è questa: un unico blocco di testo dove passa pochissima luce. I temi allora sono in parte già in queste corde dello stile, e Maino dimostra di conoscere bene la materia trattata anche quando parla dei costruttori di case durante il boom della speculazione edilizia. Insomma l'autore non pecca certo di imprecisione, una caratteristica tipica della stampa locale, ad esempio, la quale faceva imbestialire colui che per alcuni versi potrebbe essere considerato un precursore di Maino. Mi riferisco a quel Vitaliano Trevisan che però scriveva ancora, a tutti gli effetti, dei romanzi e nel quale troviamo un'idea forte di romanzo risalente all'ossessione bernhardiana. La suddetta devastazione materiale e morale, l'ipocrisia grande, lo scempio, la fatica di vivere in un posto di massima degradazione psichica: nel libro di Maino troverete tutto questo. Detto diversamente potremmo pensare di tenere in mano il classico saggio di "antropologia del vicino", scritto però come mai un antropologo si sognerebbe di scrivere, una sorta di Marc Augé inferocito e incazzato che rumina Ruzante e forse anche Gadda dopo aver digerito Zanzotto.

Si parla di Veneto (anzi, di "veneto" con la minuscola) ma naturalmente lo sguardo potrebbe aprirsi a tutta la nostra penisola. La stessa giuria del premio Calvino scrive nella motivazione: "Un’invettiva contro il disfacimento del Veneto (e, per sineddoche, dell’intera nazione) e la sua trasformazione in un non-luogo di consumi banali, di vite perse in una generale omologazione, di cui è emblema la corruzione della parola." L'accento antropologico è evidente anche nel ricorso a una parola-spia come "non-luogo". Bella trovata quella dei non-luoghi, peccato abbia fatto il suo tempo però, a mio avviso: i non-luoghi di oggi saranno i veri luoghi di domani? E i luoghi rimasti oggi saranno i non-luoghi di domani? Di questo passo che senso avrà parlare di luoghi se si è definitivamente espunto un senso che definirei divino del luogo e del paesaggio? La cosa curiosa è però chiedersi cosa capiscono di questo libro fuori dal Veneto, quali siano le percezioni in altre regioni. Credo sia questo il punto o un punto. Chissà se Maino è andato in tour a presentare il libro e quali impressioni ha ricavato della lettura fuori dai confini regionali. Questo è un aspetto che mi interesserebbe approfondire. Una delle ragioni di utilità della pubblicazione di Cartongesso è proprio l'effetto che questo libro può causare fuori dal Veneto, perché non è tanto il circolo chiuso e forse asfittico che la lettura Veneto-Maino-veneto che mi interessa, bensì la reazione e percezione che lontano da qui si ha di queste pagine e di quello che vi si legge. Non mi interessa cosa pensano i miei amici e coetanei con i quali ci siamo detti mille volte, senza pensare di metterle in un libro, le cose che Maino scrive (magari qualcuno ha provato a farlo in una poesia), non mi interessa cosa pensano i leghisti rimasti che probabilmente questo libro di Maino non lo leggeranno mai, non mi interessa né chi adora né chi difende a spada tratta questa regione né chi ci vive dentro lamentandosi e criticandola continuamente, proprio ora che un'intera classe politica è sotto inchiesta giudiziaria. Non mi interessa cosa penserebbero di questo libro i miei genitori. Non mi interessa nulla di tutto questo. Mi interessa il fuori e il lontano da qui e piuttosto mi interesserebbe molto di più il pensiero dei giovani veneti che hanno appena fatto la maturità. A tratti, leggendo il libro di Maino, ho pensato a come il confine tra la grande utilità e la perfetta inutilità di queste pagine sia pericolosamente labile. (Forse questa labilità vale per ogni libro o quantomeno per molti libri.) Detto diversamente sto provando a dire che il destino di questa eruzione di Maino è davvero nelle nostre mani e dipende da chi la legge e la interpreta. Sono problemi di circolazione dell'opera letteraria. Chi si occupa di storia della letteratura lo sa bene e sa bene in quale assurdo cortocircuito comunicativo si trovasse ad esempio, proprio da queste parti, la ricezione comicotragica dell'opera di quel grande padovano del Cinquecento che di nome fa Angelo Beolco. In Cartongesso non si salva davvero nessuno, e non parliamo solo di Veneto/veneto. Non si salva proprio nessuno, nemmeno chi sorriderà o applaudirà leggendo queste pagine e penserà che Maino ha tutte le ragioni del mondo. Quindi? Quindi, ad un certo punto, sembra che l'unica soluzione per risorgere sia solo un distruttivo e azzerante "gratta e vinci". Un azzardo?