giovedì 28 agosto 2014

"Lettere intorno a un giardino" di Rainer Maria Rilke

Di Rilke val la pena leggere tutto quello che si può leggere, e le lettere non fanno certo eccezione. A ben pensare, di qualsiasi scrittore probabilmente le lettere ci sveleranno sempre versanti e porosità nuove, vuoi perché esiste un destinatario preciso, delle date, dei luoghi da dove partono e dove arrivano, mani che le chiudono e mani che le scartano. Uno dei suoi titoli più noti resta poi Briefe an einen jungen Dichter, un libro di lettere che nel caso della pubblicazione all'interno della Piccola Biblioteca Adelphi del 1980, nella traduzione di Leone Traverso, conta oramai ben 21 edizioni. Questo volume di Archinto intitolato Lettere intorno a un giardino era già uscito nel 2003 e ora è riproposto dalla nostra "casa editrice delle lettere" con una rinnovata veste grafica (pp. 64, euro 9, traduzione di Roberto Salvadori). Queste lettere si collocano nei mesi che vanno dal 7 marzo 1924 al 27 ottobre 1926. Rilke è malato (morirà nel sanatorio di Val-Mont, a Montreux, il 29 dicembre 1926) e vive già da qualche anno nel castello di Muzot, Svizzera vallese, valle del Rodano, un posto monumentale per la poesia europea del Novecento se pensiamo che di lì sono in qualche modo transitate sia le Elegie duinesi sia i Sonetti a Orfeo. Il destinatario di queste lettere è Antoinette de Boinstetten, ginevrina, sua consigliera di fiducia in fatto di botanica. Il giardino (gli anemoni!) e la fauna sono però quasi dei pretesti per iniziare a conversare di tutto, di vita, di arte, di geografia, di visite e di treni svizzeri e di letteratura (poesia, ma anche prosa, con Conrad ad esempio che fa una significativa comparsa).

La lapide di Rilke a Raron
Potrebbe colpire il lettore odierno la distanza apparentemente siderale tra i due corrispondenti: chi era Antoniette nel pantheon dei corrispondenti che Rilke ebbe in vita? Eppure non vi sarebbe nulla di più fuorviante che lasciarsi guidare da simili pensieri e domande. Rilke è sicuramente un poeta riconosciuto (da queste lettere apprendiamo che vuole incontrare il grande Valéry, il quale scriverà una nota al suo libro in francese sulle rose) e Antoniette diventa per il poeta un punto attraverso il quale tracciare nuovi segmenti di conversazione, di conforto, di slanci, di riflessioni fondamentali su alcuni temi del vivere che magari faticheremmo molto a trovare, con tale nitore, in altri passi rilkiani. Penso ad esempio a un brano della lettera datata 23 aprile 1926 e partita da Val-Mont di Glion-sur-Territet. (Si tratta di una lettera dove leggiamo anche delle mostre contemporanee che interessano il poeta, come quella dedicata al pittore René Auberjonois a Losanna.) Proprio qui scopriamo passi come questo, particolarmente denso se decidiamo di incollarci alla riflessione sul tema del ritorno:

"[...] Ciò nondimeno, anche quel che lei dice della prova continua che il silenzio di una casa isolata impone, mi è ben noto e ne ho subìto l'angoscia e il pericolo in svariate epoche della mia esistenza. Si comincia, in rifugi come questo, a fare ordine, ma è impossibile fare sempre ordine. Disordine passeggero, ignoranza di se stessi, incoscienza: altrettanti elementi della nostra mutevole fisionomia. Queste case di campagna sono fatte affinché vi si ritorni; ma da quanto devono esserci affinché vi si possa ritornare? Ritornarvi dopo tutta una vita rischiosa e agitata, come fece Conrad; dopo aver vissuto una vita, una vita così avversa alla contemplazione, e perciò piena di essa, ribollente di essa, e, senza sapere se (già!) ci si rinuncerà veramente, sedersi nello stesso posto in cui (di fronte a un fuoco che recita sul piccolo palcoscenico di un camino) si erano riposati gli antenati. Altro rischio di Muzot: quello di "recitare" ritorni che, ahimè, non ritornano abbastanza da lontano né ritrovano un focolare autentico. A questi ritorni l'immaginazione di chi ritorna, invece di riposarsi, deve fornire di tutto: un passato inesistente o estraneo, e il presente incompleto della magione; con un proprio gesto, involontario, si vorrebbe correggere la mancanza di dolcezza di una donna e disporre certe cose come le avrebbe disposte lei. E la voce si rattrista di non essere più udita dai cani. 
Grazie per Lord Jim! Non lo comincerò più qui questo libro dalle pagine intonse... Sarà per Muzot, per l'estate. Grazie!"

Se il nostro sguardo si posasse sulla bibliografia rilkiana noteremmo che Les roses risalgono al 1924 e Vergers al 1926. Sono proprio gli anni di queste lettere. Questa corrispondenza botanica di Rilke appare quasi come un potente viatico verso la morte. Come noto, sulla lapide del cimitero vallese di Raron si leggono questi suoi versi: "Rose, oh reiner Widerspruch, Lust, / Niemandes Schlaf zu sein unter soviel /Lidern." ovvero "Rosa, pura contraddizione, piacere / di essere il sonno di nessuno sotto tante / palpebre." (così nella traduzione di Giuliano Baioni).

mercoledì 27 agosto 2014

Nuove poesie di Hilde Domin proposte da Del Vecchio Editore in "Lettera su un altro continente"

"Neue Wege möchte ich finden / schmerzhaft ungegangene / vom Du zum Ich. // Keine Handbreit an mir / die deinem Eintritt widersteht." ("Vorrei trovare nuove strade / dolorosamente inesplorate / da me a te. // Nessuna mano su di me / a opporsi / al tuo ingresso."). Per iniziare ho scelto una delle molte poesie contenute in questo stupendo Lettera su un altro continente (pp. 416, € 16,50, a cura di Paola Del Zoppo, traduzione di Ondina Granato, con testo tedesco a fronte) pubblicato da Del Vecchio Editore, il terzo dedicato a Hilde Domin, dopo le belle sorprese di Alla fine è la parola (2013) e Con l'avallo delle nuvole (2011), usciti sempre per lo stesso editore, quasi a segnare un percorso di progettualità e costanza che di questi tempi sembra uscito più da Marte che dai calderoni dell'editoria italica. (Bellissima anche la veste grafica, tra le più innovative tra quelle intercettate negli ultimi tempi; non a caso dietro c'è la mano e il pensiero di Maurizio Ceccato.) Il volume racchiude tre raccolte: Qui (1964), Figure rupestri (1968) e Ti voglio (1970, poi ampliata nell'edizione tascabile del 1995). Visto che il sottotitolo di Librobreve chiama in causa le palpebre vorrei proseguire con un altro distillatissimo saggio di quello che offre la poesia della Domin, anche nei momenti di massima brevità e "economia" di mezzi:

Strappa la palpebra

Strappa la palpebra:
spavèntati.


Ricuciti la palpebra:
sogna.


Schneide das Augenlid ab

Schneide das Augenlid ab:
fürchte dich.


Nähe dein Augenlid an:
träume.


Ma torniamo al volume che è caratterizzato, a mio modo di leggere, da una scelta di essenzialità, nella lingua e quindi nella poesia, la quale rimane ovunque una profonda, intima necessità della lingua (intendo che non so dire se lingua e poesia sono nate "spaiate" e che spesso dubito siano nate assieme). Apprezzabile è l'inserimento in questa edizione di alcune lettere e di un contributo critico specifico che riporta alla centralità del mito di Sisifo. Immediato e non azzardato diventa allora  un ragionamento che coinvolge anche il quasi coetaneo Camus. Ma se nello scrittore francese Sisifo è il motivo per compiere una ricognizione su una vasta letteratura e filosofia e per enunciare i temi che riguarderanno la scrittura camusiana per gli anni a venire (tra questi l'assurdo e il suicidio), per Domin Sisifo è punto di partenza per provare a dire al condizione del poeta, ovvero Sisifo come "metafora della capacità di resistenza". Proprio questo si evince dalla lettura del contributo utilmente racchiuso in questo libro e intitolato Sisifo: lo sforzo quotidiano di fare l'impossibile, lezione francofortese del 1988. Domin scrive anche che "In questo secolo, secolo dei profughi, il soggetto di Sisifo è di estrema attualità. Il paradosso dell’esistenza viene simboleggiato dal profugo ogni giorno." Ed è proprio in questo punto di questo interessante saggio-lezione che Hilde Domin si confronta non solo con Camus ma anche con Roger Caillois, autore de Le rocher de Sisyphe uscito in Argentina nel 1942, stesso annus horribilis dello scritto di Camus, per la precisione a Buenos Aires dove Caillois si trovava in esilio. In tutto questo ragionamento attorno a Sisifo, resta emblematica la poesia che ricorre alla figura biblica di Abele:

Abele àlzati

Abele àlzati
bisogna ricominciare da capo
ogni giorno bisogna ricominciare da capo
ogni giorno la risposta deve essere ancora davanti a noi
la risposta deve poter essere sì
se non ti alzi Abele
come può la risposta
questa unica risposta importante
cambiare
noi possiamo chiudere tutte le chiese
e abolire tutti i codici
in tutte le lingue della terra
se tu solo ti alzi
e torni sui tuoi passi
la prima risposta falsa
all’unica domanda
da cui tutto dipende
àlzati
affinché Caino dica
affinché possa dirlo
Io sono il tuo custode
fratello
come potrei non essere il tuo custode
Àlzati ogni giorno
affinché possiamo avere davanti a noi
questo sì io sono qui
io
tuo fratello

Affinché i figli di Abele
non abbiano più paura
perché Caino non diventa Caino
Io scrivo questo
un figlio di Abele
e ogni giorno temo
la risposta
nei miei polmoni l’aria diminuisce
mentre aspetto la risposta

Abele àlzati
affinché si possa ricominciare
tra tutti noi

I fuochi che bruciano
il fuoco che brucia sulla terra
deve essere il fuoco di Abele

E nella coda dei razzi
devono esserci i fuochi di Abele


Abel steh auf

Abel steh auf
es muß neu gespielt werden
täglich muß es neu gespielt werden
täglich muß die Antwort noch vor uns sein
die Antwort muß ja sein können
wenn du nicht aufstehst Abel
wie soll die Antwort
diese einzig wichtige Antwort
sich je verändern
wir können alle Kirchen schließen
und alle Gesetzbücher abschaffen
in allen Sprachen der Erde
wenn du nur aufstehst
und es rückgängig machst
die erste falsche Antwort
auf die einzige Frage
auf die es ankommt
steh auf
damit Kain sagt
damit er es sagen kann
Ich bin dein Hüter
Bruder
wie sollte ich nicht dein Hüter sein
Täglich steh auf
damit wir es vor uns haben
dies Ja ich bin hier
ich
dein Bruder
Damit die Kinder Abels
sich nicht mehr fürchten
weil Kain nicht Kain wird
Ich schreibe dies
ich ein Kind Abels
und fürchte mich täglich
vor der Antwort
die Luft in meiner Lunge wird weniger
wie ich auf die Antwort warte

Abel steh auf
damit es anders anfängt
zwischen uns allen

Die Feuer die brennen
das Feuer das brennt auf der Erde
soll das Feuer von Abel sein

Und am Schwanz der Raketen
sollen die Feuer von Abel sein


Poesia scritta con la testa alta e un piede nell'aria ("ich setzte ein Fuss in die Luft"), la lirica dominiana è popolata di simboli, miti, animali, ricorrenze e luoghi che salgono in rami progressivamente sfrondati da ogni punteggiatura. Ricorda Paola Del Zoppo nella sua documentatissima prefazione al volume che "Hilde Domin è ancora poco conosciuta in Italia, e appare necessario riempire il vuoto generato dalla errata o sporadica ricezione delle poetesse e intellettuali tedesche di cultura ebraica, restituendo alla giusta dimensione la concezione della loro poesia nella sua interezza e illuminando una direzione lirica talvolta profondamente diversa rispetto ai – grandissimi – poeti più noti, e cioè quell’atteggiamento definito in Hilde Domin “poetica del ritorno”. È un atteggiamento di energica presa di coscienza e grande coraggio nel riconoscimento della tragedia e nella volontà e capacità di riappropriazione e ribaltamento dei rapporti di forza; una presa di coscienza che trova il suo terreno più fertile nella possibilità espressiva e creatrice della parola poetica, parola madre e creatrice per eccellenza, che si innesta in un non–luogo al di là dei limiti, nell’“aria” [...]".

Solo in chiusura, e prima di lasciarvi ad un video con la sua voce, sia dato qualche cenno sulla biografia della scrittrice, per fornire qualche coordinata storica supplementare e vista anche la sostanziale novità della proposta dell'editore Del Vecchio (come ricorda Paola Del Zoppo, di Hilde Domin in Italia si è iniziato a parlare e scrivere da pochissimo). Partiamo ad esempio dalla formazione, se vogliamo non "ortodossa" per una scrittrice del Novecento, con giurisprudenza, teoria economica e sociologia a Heidelberg (qui conosce Erwin Walter Palm, studente d’archeologia e futuro marito e frequenta il pensiero di Jaspers). Con l'ascesa di Hitler i Palm si spostano prima a Roma, poi a Firenze e infine in Inghilterra. Nel 1940 l'approdo nella Repubblica Dominicana (di qui anche il cognome "Domin", quasi come un segno di gratitudine). Il rimpatrio si situa, come per altri intellettuali e scrittori, nel decennio dei Cinquanta. A questi frangenti risalgono le prime pubblicazioni su rivista (la prestigiosa e fondamentale «Akzente» e «Neue Rundschau») e le prime raccolte poetiche in volume. Nell'anno del crollo del muro di Berlino riceve in assegnamento la cattedra di Poetica all’università di Magonza. Nella città in cui aveva studiato e conosciuto il marito Hilde Domin è morta nel febbraio del 2006.

 

domenica 24 agosto 2014

Al "Club dei visionari" di Roberta Durante

La poesia di Andrea Zanzotto Là sul ponte, contenuta in Dietro il paesaggio (1951) inizia così: "Là sul ponte di San Fedele / dove la sera abbonda / di freddo fieno / e dove la pioggia raccoglie / tutte le sue vele madide / c'è da ieri una fanciulla bionda / che ha un nome come una corona / e che ha perduto per sempre / una mano per salutare una rosa". Ora prendiamo la prima poesia di questo bel Club dei visionari di Roberta Durante (Treviso, 1989) pubblicato da Di Felice Edizioni (pp. 80, euro 12, postfazione di Gabriele Frasca): "aspettavo un segno: / un fiore che cadendo dall’alto / mi bucasse la testa per crescere dentro / e uscirmi dagli occhi tra i denti dal naso / e io con la faccia (per una volta) / fare il vaso". Non parto con questo raffronto per ricordare e ricordarmi che l'autrice ha sicuramente letto in lungo e in largo Zanzotto. Questo era già evidente in Girini, opera prima pubblicata dalle edizioni d'if di cui abbiamo parlato qui. Piuttosto mi interessa spostare lo sguardo su come certa poesia surrealista continui a lavorare dentro, a creare dei nonsense vivificanti (la mano persa in Zanzotto, il fiore che buca nella poesia di Roberta Durante, con quel vaso che potrebbe ricordare persino la terzina dantesca di Paradiso, I "O buono Appollo, a l'ultimo lavoro / fammi del tuo valor sì fatto vaso, / come dimandi a dar l'amato alloro."). 

Sono 52 testi brevi a popolare questo Club e si susseguono come dei ritagli (clip) che ci portano in luoghi e stagioni diverse. Sta nell'immaginario nuovo emergente da questa poesia, a mio avviso, la novità più bella che ci propone il libro. La versificazione si immerge in immagini di visionari, per l'appunto, puntellate da un frequente ricorso al verbo all'imperfetto che situa le scene raccontate in un orizzonte che è quello del fotogramma, del frammento, di un tempo che si chiude spesso con qualcosa di negativo o avversativo (versi conclusivi spesso introdotti da un "non" o da un "invece" o un "ma") "era saltata l’estate / era già tempo di piogge sparse e buio presto / lanciavo sassi alle stelle per rompere il vetro / e fare più luce / ma niente non ti trovavo da nessuna parte" dove quel "buio presto" è così prossimo a "buio pesto". Quasi paradigmatico questo testo, un po' più lungo della media:

32

mi esibivo ogni sera in un locale da spogliarellisti
sulla Avenue Trudaine a Montmartre
ma non c’era mai nessuno:
di fronte stava il Moulin Rouge sempre pieno
una mattina invertii le insegne dei locali
e quella sera il mio posto era colmo di gente
io non mi esibii più per l’imbarazzo
ma la gente applaudiva beveva
era molto felice e tutti si divertivano


Alcune delle osservazioni registrate sopra si possono ritrovare nei due brevi testi che riporto di seguito, anche per dare al lettore una maggiore apertura angolare sul libro:

8


cercavamo bici a noleggio sulla Schönauser Allee
quando abbiamo girato l’angolo
una scritta enorme: LIEBE
e i cani che si voltavano
quando li chiamavamo con nomi a caso

15


mentre tiravo il sipario
un imprevisto un incubo
il rosso si era sciolto e il pubblico vedeva tutto:
non ci credeva più nessuno


Mi pare evidente che c'è racchiuso in questo libro e in queste poesie un portato di rinnovamento dell'immaginario poetico degli ultimi anni, che se non altro agisce nella sua qualità di promessa. E ce n'era bisogno, perché certe scene o certe utopie iniziavano ad essere trite. Si sente, leggendola, che Roberta Durante ha fatto ampiamente proprie certe agglutinazioni foniche di Zanzotto e di Caproni, e questo è già un punto di partenza che annulla sé stesso e quindi un mancato punto di partenza: né più né meno ciò di cui ha profondamente bisogno la poesia. 

45


mi infilavo le mutande
che erano evidentemente ben affilate:
finivo a terra ma in due parti
due pezzi di me totalmente inutili


Aspettiamo il prossimo libro che uscirà per le edizioni Prufrock spa. Non dovremmo attendere molto e un'anticipazione è già qui, sotto forma di alcune cartoline teaser che andranno a comporre il mosaico della copertina del libro intitolato Balena. Gabriele Frasca, da tempo vicino auscultatore della poesia di quest'autrice, ci ricorda in un passo efficace della sua postfazione che "Roberta Durante, se vuole, frequenta la festa della lingua, e lo sa fare: ne ha dato prova nella piccola raccolta d’esordio (Girini), e in modo ancora più torrentizio in quelle che lei definisce «clipoesie» (al momento s’intitolano Livelli), alcune delle quali si possono fortunatamente ascoltare in rete, nella nenia avvolgente in cui lei stessa le dice. Sono radioechi, le «clipoesie», ci danzano intorno per identificare la sfoglia di carne che dovrebbe supporci contenuti, quando invece siamo imbozzolati altrove. La festa della lingua che ripercorre la soglia fra la veglia e il sonno è sempre una poesia del «tu», e se ripete «io» è perché ricerca nel «tu» il soggetto della sensazione. Vuole insomma ridestare il corpo, ricordandogli che è embricato a un altro. Qui, invece, c’è poco da dire: si punta al rebus del linguaggio (nel quale l’«io» puntualmente si smarrisce), al «bruco perfetto» (27), e si frequenta dunque più sfacciatamente il silenzio del sogno, quello che ci scorge ogni volta desti nel mare del senso, e armati di quell’unico remo che al più ci farà girare in tondo (29)."

venerdì 22 agosto 2014

"Poesia nera e poesia bianca" di René Daumal

Quote #4

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.

Si scrive poesia, senza certezza di nulla. Si sa. Scriverla è dirla ed è un tentativo. E quanto ci mancano forse delle sane discussioni artigianali sulla versificazione, sull'orecchio, per chi vuole anche sull'occhio. Tuttavia non si registrano, da quel che mi pare di notare, grandissime novità e allora tanto vale riprendere in mano qualche libro passato che ha provato a dire qualcosa, come questo Poesia nera e poesia bianca di René Daumal proposto ora da Castelvecchi (pp. 54, euro 9, traduzione di Michela Summa). Lo scritto che offre il titolo a questo librino dell'autore de Il monte analogo era già apparso in un antico fascicolo Adelphi intitolato I poteri della parola, curato da Carlo Rugafiori nel 1968. Nel complesso questa pubblicazione di Castelvecchi non propone per esteso le discussioni "artigianali" di cui sopra, però raggruppa alcuni scritti rilevanti del grande studioso di lingua sanscrita e filosofia indù, che in vita - ricordiamo  - conobbe Simone Weil e Roger Gilbert-Lecomte, s'avvicinò alla patafisica jarryana e a Gurdjieff. E c'è un punto molto interessante dove queste riflessioni vengono a galla. Questo che segue è il passo che ho scelto per oggi ed è tratto dal saggio Suggestioni per un mestiere poetico:

[...] Il poeta danza nella possessione di un pensiero. Ma poiché s'impone di muovere solo pochissimo il suo corpo, la sua danza si riassume nei movimenti dell'apparecchio vibrante e tanto sensibile della sua voce, e si traduce in suoni. Per il cammino inverso dell'apparecchio ricettivo, tanto sensibile, dell'udito, la stessa danza entra nel corpo dell'uditore, e il suo pensiero è informato. Ma esso non riceve forma, se questa non esiste già per se stessa.
Magma di materia mentale, l'uomo vibra e si staglia sotto l'impatto di parole dalle risonanze indefinite. Queste, è facile a dirsi, sono delle generalità. Da quale estremità prendere questo immenso concerto del linguaggio, per penetrarne gli effetti e le leggi? Qui come altrove, c'è il numero, strumento di scelta. La parola è composta di sillabe, i cui timbri sono determinati dalle vocali. È stato scoperto (Helmholtz e altri) che ogni vocale è caratterizzata da un'armonica fondamentale. La scala delle vocali è tanto rigorosamente matematica quanto lo è la scala musicale. Quanto alle consonanti, queste sono sensazioni di tensioni e distensioni muscolari, che sarebbero altrettanto misurabili. L'accento tonico, gli accenti oratori (interrogativo, dubitativo, ingiuntivo e altri) sono aumentati dalle armoniche fondamentali di certe vocali, generalmente di una, due o tre ottave. I metri sono contati in unità di tempo o, nelle nostre versificazioni degenerate d'oggi, in numeri di sillabe. Quanto ai ritmi, questi ultimi sono numeri viventi. Tutta la matematica poetica, quindi, può essere contata. [...]

mercoledì 20 agosto 2014

Foto della Prima guerra mondiale a colori in un libro edito da TASCHEN

"Leggere una Grande Guerra" #6

"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).


Sarà capitato a tutti di sfogliare libri fotografici sulla Grande Guerra. Di questi tempi è ancora più facile, dato il pullulare di pubblicazioni sull'argomento. E il nostro immaginario è quasi sicuramente un immaginario privo del dato cromatico. A coprire questo parziale buco dell'editoria arriva la casa edtrice TASCHEN con questo volume fotografico intitolato The First World War in Colour curato da Peter Walther (Hardcover, 21 x 28,5 cm, pp. 384, € 39,99). Il libro, progettato secondo un ordine cronologico (un capitolo per ogni anno del conflitto, compreso il cosiddetto aftermath) mette a disposizione gli sforzi di chi si impegnò con le prime fotografie a colori realizzate durante il conflitto. La tecnologia è quella nota con il nome di autocromia. Per la nostra mente non è come vedere Stanlio e Ollio a colori, e non perché parliamo di foto e non di cinema. Qui ciò che colpisce lo sguardo è la posa dei soggetti e delle scene riprese. Manca spesso la drammaticità della presa diretta e l'urgenza. Però è come se ci fosse una drammaticità nuova e aggiunta, quella del colore. A questo link potrete vedere qualche foto in anteprima.

sabato 16 agosto 2014

Dal signor Teste di Valéry al cervello delle neuroscienze. Intervista a Gabriele Fedrigo

Ripescaggi #37

Gabriele Fedrigo
Faccio anch'io come la televisione che in estate ci propina cose di trent'anni fa. E così ripesco cose vecchie. Lo faccio sempre dalla rivista "daemon". Si tratta di una vecchia intervista e ricordo che uscì nel numero legato al rapporto tra scienza e arti. 
Che cosa può un uomo? Attorno a questa domanda, appartenente ad un curiosissimo personaggio di un’opera giovanile di Paul Valéry, Gabriele Fedrigo ha costruito uno studio originale che intreccia la figura dello scrittore francese con l’avanzare delle conoscenze neuroscientifiche (G. M. Edelman, J.P. Changeux e A.R. Damasio su tutti) e il pensiero paleontologico di S. J. Gould. Valéry è, assieme ad altri, una figura chiave per chi si interessa della speculare illuminazione tra letteratura e scienza. Abbiamo chiesto all’autore di parlarci del suo interesse per Valéry e del suo ultimo libro Che cosa può un uomo? Potenzialità biologica, selezione naturale e cervello da Paul Valéry a Gerald M. Edelman (L’Harmattan Italia, Torino, 2005).

Incominciamo dalla letteratura. Il suo libro Che cosa può un uomo? prende avvio da un personaggio di un’opera giovanile di Paul Valéry. Ci racconta chi è il signor Teste?
“Monsieur Teste è una delle figure più brillanti e nello stesso tempo più inquietanti della produzione letteraria di Valéry”. Partire con questa affermazione, vuol dire già offrire un primo inquadramento ad un personaggio che tende a sfuggire, proprio per come Valéry l’ha concepito nel suo laboratorio mentale, ad ogni classificazione, anche a quella molto generica di prodotto letterario… Mi scuso con Monsieur Teste se l’ho dovuto trascinare, mio malgrado, in qualche categoria culturale bell’e pronta, proprio lui che confinava le Lettere e la Filosofia tra “le Cose Vaghe e le Cose Impure”. Quando scrive Teste, Valéry ha bene in mente un’idea a lui molto cara che svilupperà a fondo negli scritti dedicati a Leonardo da Vinci, a Gladiator e lungo i Cahiers. Si tratta del concetto di combinazione. La nostra mente, a cui non fa eccezione né quella del poeta, né del pittore o di qualsiasi uomo della strada, è una fucina di combinazioni. Si combina tutto ciò che noi designiamo come immagine, parole, suoni, ricordi, aspettative, ecc. Fra queste combinazioni solo poche entrano nel campo della coscienza, altre ne rimangono escluse totalmente, anche se questo non significa stato di quiescenza. La produzione combinatoria non è guidata da un centro direttivo e molte volte, non sempre per fortuna, quello che designiamo con la parola “io”(je) si trova in balia di tempeste e di assalti di combinazioni di immagini o di ricordi con carichi emotivi più o meno intensi tali da paralizzare o compromettere l’andamento generale della vita psichica, soprattutto le nostre capacità d’azione. In Teste, l’idea di combinazione opera soprattutto come strumento di smontaggio della propria personalità. Teste è infatti colui che si de-costruisce psichicamente per poter esperire la pluralità di combinazioni possibili della sua macchina combinatoria (Valéry parla di Teste come del “più completo dei trasformatori psichici che sia mai esistito”). Lo smontaggio si configura al contempo come esercizio dello sguardo; l’effetto di questo esercizio è l’alienazione dal sé di tutte le abitudini che lo costituiscono. Un vero e proprio ‘fare vuoto’ per molti aspetti vicino alla meditazione buddista (Valéry parla di Teste come di “un mistico senza Dio”). Come suggerisce l’etimo, Teste è il testimone…del proprio sé e della propria storia. Supponga di andare al cinema e che la storia del film sia la sua vita, la domanda è: chi è (o cos’è) colui che guarda il film rispetto a ciò che si sta proiettando? La coscienza prende le distanze dal sé di cui è coscienza senza identificarsi in alcun oggetto; Teste narra questo progressivo prendere le distanze dal sé per tuffarsi nella sperimentazione del possibile, di cui il sé è uno dei tanti prodotti… Ogni volta che mi accingo a studiare Teste non posso fare a meno di pensare ad un suo cugino austriaco, intendo Ulrich de L’uomo senza qualità. Ha presente?

Paul Valéry
L’opera giovanile avente il signor Teste come protagonista, dal punto di vista degli interessi scientifici, non è certo una meteora nella produzione di Valéry. Ci parla dell’evoluzione del pensiero (neuro)scientifico ante litteram dello scrittore francese, dalle opere giovanili ai Cahiers? Quali sono i riferimenti e le coordinate  principali in possesso di Valéry?
L’interesse di Valéry per la scienza non è, come giustamente afferma, una semplice appendice. Valéry si è accostato al sapere scientifico fin da giovane da vero autodidatta. Dia uno sguardo ai primi Cahiers. Il riferimento alle scienze matematiche e alla fisica è un motivo ricorrente. L’idea di determinare una fisica della mente espressa in funzioni matematiche è stato uno dei sogni più accarezzati dal giovane Valéry. Le scienze biologiche trovano un inserimento più tardivo ma non meno importante nella riflessione di Valéry, al punto da soppiantare quelle strettamente fisico-matematiche. Certo, se lei mi chiede quale apporto scientifico abbia dato Valéry alla biologia, le dovrei risponderei subito che il nome di Valéry non si lega né ad alcuna scoperta né ad articoli scientifici in cui viene illustrato ad es., il funzionamento della cellula o per restare al cervello, qualche area deputata a funzioni specifiche. Eppure il livello della riflessione di Valéry tocca alcuni punti presenti in neuroscienziati della statura di Edelman e di Changeux, come ad es. il ruolo dell’attività spontanea del funzionamento cerebrale come base della potenzialità combinatoria. Oltre alla spontaneità, Valéry non si stanca di dirci una cosa che noi diamo per assodato ora (anche se molti stentano ancora ad ammetterlo), e cioè che la mente è uno dei tanti prodotti del cervello, e che il cervello è in un corpo che a sua volta si trova nell’ambiente. È il famoso C.E.M (corps, esprit, monde). Ancora prima di interrogarsi su temi di carattere neurofisiologico, Valéry ha scandagliato profondamente le questioni riguardanti la dinamica morfologica delle piante e degli involucri calcarei dei molluschi marini: le conchiglie. Una delle opere più belle scritte è appunto L’homme et la coquille. Le riflessioni riguardanti il corpo e la circolazione sanguigna hanno trovato un posto di primo piano nei Cahiers. L’interesse per la scienza non è però solo frutto di studio a tavolino. Valéry ha personalmente conosciuto scienziati di fama (le ricordo fra gli altri Einstein e Mme Curie), visitando i laboratori di ricerca e discutendo proficuamente con gli addetti ai lavori le loro premesse, i risultati e i punti di vista generali che strutturano un certa teoria (in ambito neuroscientifico non posso non ricordare Thierry de Martel, Théophile Alajouanine, Ludo van Bogaert). Se vuole avere un saggio di queste conoscenze, legga i lavori di Judith Robinson-Valéry.

G.M. Edelman
Il concetto di “potenzialità biologica” – mi corregga se sbaglio – è la chiave di lettura del suo libro. Che cos’è la “potenzialità biologica” e come si intreccia con le tematiche della selezione naturale e del cervello, così come ce le raccontano neuroscienziati della statura di Damasio, Edelman o Changeux?
Il paleontologo Stephen Jay Gould è stato l’autore che forse più di altri ha promosso il concetto di “potenzialità biologica”. Questo non vuol dire in alcun modo che altri prima di lui, come ad es. Spinoza, Hobbes o lo stesso Darwin e Valéry non avessero già presente i termini del problema. La categoria della “potenzialità” ha sicuramente una storia molto fortunata nel pensiero occidentale. Tant’è che essa fa discutere ancora oggi. Lo zigote è potenzialmente un uomo? L’idea di effettuare un’azione è potenzialmente un’azione? Se da un lato non è possibile sfuggire alle considerazioni aristoteliche sulla potenzialità, dall’altro non si è in alcun modo obbligati ad abbracciare il punto di vista aristotelico. Il punto chiave di tutta la costruzione aristotelica è la preminenza ontologica dell’Atto sulla potenza. Si ricorda il famoso Motore Immobile? Ebbene tolto il Motore Immobile, tutto svanisce, il movimento delle sfere celesti si blocca e addio mondo animale e vegetale. Si tratta allora di lasciarsi alle spalle una metafisica della potenzialità e percorrere una ricerca sulla fisiologia della potenzialità. Come ci ha insegnato Deleuze, nell’ambito dello studio dei fenomeni biologici, Aristotele è suo malgrado ancora legato all’impostazione platonica che punta a reperire la verità dell’ente determinandone la vicinanza o la lontananza rispetto ad un’essenza. In ambito biologico, è Darwin colui che spazzerà via qualsiasi possibilità di fondare un approccio tipologico allo studio dei viventi presenti, passati o futuri. Pur se rimane aperto ne L’origine delle specie, il problema di definire cosa sia o meno una “specie”, con Darwin ci troviamo di fronte ad un paesaggio dove ciò che conta non è tanto l’Idea di fringuello, ma proprio quel singolo fringuello o quella singola orchidea. Meglio, ciò che possono quel singolo fringuello, quella orchidea… Gran parte del pensiero contemporaneo può essere visto come un assalto reiterato alla supremazia dell’essenza e a tutto ciò che pretende di essere stabile, duraturo, ecc. Capire che cosa sia la “potenzialità biologica” significa allora rispondere alla domanda: che cosa può un certo organismo? Quel “può” va considerato tanto come gamma di funzioni di un organismo, in tutta la varietà delle sue manifestazioni (dal livello microcellulare a quello comportamentale), quanto come il possibile-funzionale insito nella strutture biologiche e che gli eventi contingenti della storia della vita potranno o meno portare alla nascita. Così, per restare vicino a Gould e al suo amore per l’architettura (si leggano fra l’altro le belle pagine dedicate al Duomo di Milano in La struttura della teoria dell’evoluzione), chi avrebbe mai detto che le “lunette” della Basilica di San Marco a Venezia, nate come sottoprodotto architettonico, sarebbero servite per illustrare verità di fede? Il cuore della potenzialità umana risiede nel nostro voluminoso cervello, meglio nella particolare organizzazione neuronale specie-specifica e nello stile di sviluppo ontogenetico di questo organo. Il cervello forgiato dalla selezione naturale può compiere uno straordinario numero di attività. La sua potenzialità è inscritta nei suoi neuroni e nella sua organizzazione. Ma questo non significa che tutto ciò che può un cervello sia schiavo dei geni che lo hanno costruito e dotato di certe capacità rispetto ad altre. Perché non mettere in soffitta l’idea che tutto ciò che un uomo può compiere sia in funzione della fitness del suo pool di geni? Accanto alla plasticità, il fattore della potenzialità cerebrale su cui ho cercato di fare un po’ di chiarezza, riguarda il sorgere della coscienza. In anni molto recenti si è scritto una quantità immensa di libri, saggi ed articoli sulla coscienza. Che cosa vuol dire indagare la coscienza nell’ottica della potenzialità? Non significa forse cercare di capire la nostra capacità di questionare la realtà in cui viviamo e di autoquestionarci? E con quali esiti? Fin dove spingere la nostra potenzialità d’azione che attraverso la coscienza ha uno dei suoi elementi organizzativi più sofisticati? Ancora, chi stabilisce i limiti? I neuroscienziati presi in esame (Edelman, Damasio, Changeux) non hanno risposte pronte a queste domande e sembrano lontani dall’offrire soluzioni immediate. Il livello su cui attualmente lavora l’ambito neuroscientifico è ancora quello di determinare le basi neuronali della coscienza. Proprio a partire dalle indagini neuroscientifiche e biologiche, filosofi e scrittori possono attivamente intervenire su temi così centrali…non che in passato ciò non sia avvenuto, come non poter ricordare Dostoevskij o più vicino a noi la testimonianza di Primo Levi?

Che cosa può un uomo? è sicuramente uno studio originale per il panorama italiano. Qual è stata la genesi dell’opera, quali le difficoltà? Quali altri studiosi hanno approfondito il contenuto scientifico delle opere  di Valéry traendone nuove ipotesi di ricerca e nuove conclusioni?
In un primo momento l’idea d’impostare uno studio del rapporto mente/cervello/selezione naturale in termini di potenzialità mi è venuto dalla lettura svolta sui testi del neurologo Oliver Sacks e da quella bellissima raccolta di saggi di storia naturale di Stephen Jay Gould intitolata Otto piccoli porcellini. In entrambi i casi, anche se da prospettive diverse, emerge un’idea a cui sono legato, cioè che l’ordine mentale di una persona o quello dell’evoluzione delle specie, non è fissato una volta per tutte. Anzi credo che sia già troppo azzardato parlare di “ordine”. Chi lo stabilisce? E con quale autorità? C’è tutto un orizzonte di possibilità d’azione e d’espressione che, anche nel caso delle malattie invalidanti del sistema nervoso, vanno tenute aperte. In noi si formano embrioni di avvenire e di possibilità che molto spesso non trovano luce. Valéry si è confrontato direttamente con il mare del possibile di cui siamo intessuti. Il mio lavoro preliminare è stato quello di determinare nei Cahiers l’occorrenza del termine implexe (implesso): per implexe, Valéry intende la capacità combinatoria di un sistema organico (sia esso un cervello o l’organismo tout court) di generare configurazioni di risposta da dare alle sollecitazioni esterne o a quelle endogene non necessariamente legate agli eventi ambientali (è qui che compare il “lusso” del pensiero). La genesi dell’“implesso” era già tutta contenuta nella domanda di Monsieur Teste: “Che cosa può un uomo?”. La potenzialità dell’uomo non è però un dono che “piove dal cielo”. Ecco allora la necessità di legare la potenzialità umana al suo sostrato biologico, ciò è avvenuto interrogandosi contemporaneamente sulle potenzialità della selezione naturale di forgiare strutture e funzioni degli organismi e nel caso dell’uomo il suo formidabile cervello. Attorno ai concetti di utilità biologica, adattamento, disadattamento e funzioni non-adattative ho istituito un proficuo confronto fra autori apparentemente così lontani come Darwin (naturalista), Valéry (poeta) e Gould (paleontologo).
L’attenzione posta ai Cahiers da scienziati di diverse discipline non è nuova nel panorama internazionale. Ricordo ad esempio gli studi effettuati da René Thom nell’ambito della teoria delle catastrofi o quelle di Prigogine sulle strutture dissipative. Più recentemente troviamo un recupero di Valéry negli studi sulla complessità effettuati da E. Morin. Come non ricordare infine le considerazioni sviluppate da Jean Bernard in campo medico-scientifico?

Alcuni suoi scritti sono usciti inizialmente in lingua francese. Qual è stata la reazione del pubblico d’oltralpe? Ho come l’impressione che in Francia ci sia un contesto di ricezione molto più maturo per quelle opere che intrecciano proficuamente letteratura e riflessione scientifica. È un’impressione totalmente errata?
Il lavoro a cui fa riferimento (Valéry et le cerveau dans les Cahiers, Paris, 2000) è uscito in lingua francese al fine di permettere ad un pubblico più vasto di studiosi di Valéry a livello internazionale di avvicinarsi più facilmente alle mie ricerche sui Cahiers. L’accoglienza data a questo lavoro è stata incoraggiante. Circa la “maturità” di ricezione in ambito francese di una scrittura che intreccia letteratura e scienza, direi che una seria riflessione su questo problema dipenda dal contesto storico a cui si fa riferimento. Pensi ad es., alla fortuna del De rerum natura di Lucrezio nella cultura europea. In Francia l’esperienza dell’Encyclopédie, ha permesso senza dubbio un connubio importante fra letteratura e scienza, ponendosi oltre quella divisione fra “scienze umane” e “scienze naturali” che condiziona ancora molte menti e molte penne. Non credo ad una rigida separazione delle sfere di competenza (da una parte lo scrittore, dall’altro lo scienziato, dall’altro ancora il poeta, ecc.) come sinonimo di serietà da dover perseguire. Non ci credo semplicemente perché non siamo monadi chiuse. Così non si riuscirebbe a capire nulla della Divina Commedia, senza le conoscenze scientifiche (per quanto lontane da noi) di cui si è servito Dante. Prima ho fatto riferimento a Robert Musil, ebbene come potremmo leggere la sua opera senza tener presente il legame con E. Mach? Certo, Musil non si limita in alcun modo a riscrivere Mach! Prenda invece scienziati che si sono nutriti di scrittura filosofica o letteraria. Che dire di Einstein lettore di Spinoza? Gli stili divulgativi di scienziati delle generazioni scorse non avevano forse una veste letteraria di prim’ordine, come ad es. quelli di H. von Helmoltz, C. Sherrington e K.Goldstein?

Si dice spesso che ognuno crea i propri precursori. Nel caso di uno studio come il suo, quali reputa i precursori, i suggeritori di un approccio che lega indissolubilmente e mirabilmente la letteratura e gli aggiornamenti della scienza? E inoltre, crede che l’attività di uno scrittore e quella di uno scienziato possano (debbano) essere reciprocamente “illuminanti”?
In parte le ho già risposto prima. Non sto forse parlando di Valéry? Che dire dei tentativi di prosa scientifica di Oliver Sacks? Le dicevo che non siamo monadi chiuse, e che volenti o nolenti apparteniamo ad un certo periodo storico, ad una certa visione del mondo che tanto le generazioni passate che quelle presenti contribuiscono a costruire, modificare o abbandonare. All’interno di quest’orizzonte opera lo scrittore e lo scienziato, con mezzi propri indagano a loro modo una “realtà” che in sé non esiste (quante realtà esistono? e quanto reale è il reale?, questioni che facevano sorridere Valéry), anche se noi ne misuriamo gli “effetti” nella prassi quotidiana e scientifica. Se dobbiamo porre il confronto sul piano della famosa “verità”, dica, avrebbe senso chiedersi: quanta verità troviamo nella poesia di T.S. Eliot e quanta nella teoria della relatività ristretta?

Concorda con l’affermazione che le neuroscienze sono responsabili di una grande sferzata nella percezione “qualitativa” dell’impresa scientifica e dei suoi risultati quando in precedenza questa era legata a una percezione “quantitativa”, sicuramente errata ma non per questo incapace di causare solidi fraintendimenti a lungo termine?
Scusi l’affermazione è sua, di un neuroscienziato o di qualche filosofo della scienza? Se ho ben capito la domanda, potrei dire che le neuroscienze come del resto la stessa biologia non sono mai vissute in uno splendido isolamento rispetto ad altri settori scientifici, come la chimica, la fisica, la matematica, ecc. Immagini una macchina per la Risonanza Magnetica costruita indipendentemente dagli studi fisico-matematici! Più di sferzata, direi di grande opportunità data alla conoscenza dei meccanismi intimi degli organi e dei tessuti dell’organismo. La questione del “qualitativo” e “quantitativo” nell’impresa scientifica e tutti i tentativi di colmare o di allargare il divario hanno accompagnato lo sviluppo della scienza fin dalle riflessioni di Galileo Galilei.

A che cosa sta lavorando adesso? Le tematiche di Che cosa può un uomo? stanno lasciando spazio a nuovi interessi di ricerca?
In questo periodo sto studiando i recettori delle membrane batteriche, organismi che non hanno cervello ma che esibiscono comportamenti molto interessanti. Chissà che non nasca un “Che cosa può un batterio?” 

giovedì 14 agosto 2014

"Lei sogna a colori?". György Ligeti intervistato da Eckhard Roelcke

Ripescaggi #36

La domanda che dà il titolo a questo libro (uscito per Alet nel 2004, pp. 256, euro 19, purtroppo ormai irreperibile) non appartiene a Eckhard Roelcke, il giovane critico musicale di "Die Zeit" e "Kultur Spiegel", bensì all'intervistato, il grande compositore György Ligeti, tra i massimi dell’avanguardia del secondo Novecento, il cui nome è legato alla filmografia di Stanley Kubrick (2001: Odissea nello spazio e Eyes Wide Shut).  Chi si avventurerà tra queste piacevolissime pagine proposte dalla giovane casa editrice Alet (un progetto editoriale da seguire con attenzione) scoprirà infatti un compositore che vive l’intervista fuori dalle convenzioni, capace di dettare e variare il ritmo del racconto, di inchiodare - e incantare - il lettore toccando argomenti che spaziano dalla matematica alla Seconda Guerra Mondiale, dalla biologia alla politica fino alla musica, affrontata ovviamente da più punti di vista (apprendimento, didattica, attualità, lavoro di composizione, futuro della musica). A tratti l’intelligenza che traspare dalle risposte di Ligeti ci porta a credere che questo sia un libro-intervista su un musicista che avrebbe potuto benissimo… non essere musicista. Detto diversamente, quello che passa nelle risposte fiume di Ligeti (Roelcke è molto abile nel suo ruolo di intervistatore discreto, pronto a correggere il tiro solamente al bisogno) è, alla fine, la vita di un artista tout court. Nella mente del lettore rimarranno vivi i fasci di relazioni affettive, intellettuali e morali che contraddistinguono la vita del compositore. Allo stesso tempo sarà difficile ricavare dalla lettura l’impressione di un Ligeti predestinato alla musica. Tutto questo, a ben pensare, va nella direzione opposta di tante biografie di musicisti a noi note. Non si sta insinuando che la musica per Ligeti sia un incidente di percorso, ma che questo libro sia una profonda riflessione sull’essere artisti oggi.

(Recensione apparsa sulla rivista "daemon" circa dieci anni fa.)

domenica 3 agosto 2014

Attorno ad André Salmon. Intervista con Maria Dario

Librobreve intervista #45

Modigliani, Picasso e Salmon
LB: Ho creduto fosse opportuno, per iniziare questa conversazione con la professoressa Maria Dario (docente di letteratura francese all'Università di Padova e nell'ateneo ferrarese), chiedere qualche coordinata su André Salmon, questo grande dimenticato del mondo delle lettere e dell'arte, in patria come fuori dalla Francia.
R: André Salmon (1881-1969) costituisce un caso singolare nella letteratura francese del Novecento. Poeta soprattutto ma anche prosatore, critico d’arte, giornalista si cimentò su tutti i fonti della creazione letteraria nel corso di una lunghissima carriera che si estese dagli inizi del secolo – l’esordio poetico si situa nel 1903 - sino al secondo dopoguerra (la pubblicazione dell’ultima opera, il romanzo Le Monocle à deux coups risale al 1968). 
Esponente di spicco dell’avanguardia letteraria e artistica all’inizio del Novecento a fianco di Apollinaire, Max Jacob, Picasso, che gli furono compagni nell’esplorazione delle molteplici vie della modernità letteraria e artistica, testimone della nascita del cubismo al Bateau-Lavoir, Salmon è anche autore di una vasta produzione memorialistica –in particolare, Montparnasse (1929), L’Air de la Butte (1945) e i celebri Souvenirs sans fin (1956-1961) -, in cui la rievocazione di una stagione culturale straordinaria è il pretesto per la celebrazione del mito collettivo dell’arte moderna. La posterità tuttavia non gli ha riservato lo stesso destino degli altri artisti della rue Ravignan e Salmon è ora relegato ai margini della storia culturale del suo tempo.

Apollinaire
LB: ...eppure ci sono molti, moltissimi motivi per cui il nostro brilla. Potrebbe ripercorrere a sommi capi i principali e provare a dire perché questo brillare è stato forse offuscato? Da chi o da cosa? Sembra quasi ci sia una sorta di minimo scarto o mancato sincronismo tra Salmon e la sua epoca, che di per sé non costituisce un fattore negativo, anzi, ma che forse l'ha consegnato all'oblio nel mondo delle lettere.
R: Ricostruire i meccanismi di accesso alla consacrazione artistica che decretano il successo (o l’oblio) di uno scrittore è un processo complesso che non dipende unicamente dalle sue qualità artistiche intrinseche ma anche dalla sua relazione con quello che Pierre Bourdieu ha definito il “campo letterario” dell’epoca e i suoi valori artistici di riferimento. Così, per comprendere il passaggio dall’immagine di Salmon come “grand poète de la bande” del Bateau-lavoir, ritratto in una posa spavalda davanti alle Trois femmes di Picasso, prima versione delle Demoiselles d’Avignon, parzialmente coperte da un telo, e il profilo sfocato del “sopravvissuto della modernità” impostosi nel secondo dopoguerra bisogna innanzitutto evocare il processo di rimozione dalla storia letteraria seguito alla sua condanna alla dégradation nationale per  cinque anni a causa della sua collaborazione con il quotidiano “Le Petit parisien” durante l’occupazione tedesca. Se questa damnatio memoriae, motivata prevalentemente da interpretazioni ideologicamente orientate della sua attività giornalistica, costituisce uno spartiacque fondamentale per comprendere in parte le ragioni più recenti di una ricezione problematica, occorre tuttavia sottolineare come già alla metà degli anni ’20 la fortuna critica di Salmon conoscesse un’indubbia fase di declino. Le motivazioni risiedono essenzialmente proprio nelle stesse affinità che avevano legato Salmon agli altri poeti del Bateau-Lavoir, a Max Jacob e soprattutto ad Apollinaire nella prima parte del suo itinerario artistico, allorché l’intensa frequentazione tra i due scrittori, tra il 1903 e il 1910, si traduce in un clima poetico comune fatto di temi, motivi echi (il cosmopolitismo, l’erranza, il lirismo del quotidiano). Questo periodo coincide così con la fase ascendente della parabola salmoniana, che vede la pubblicazione di ben tre volumi di versi tra il 1905 e il 1910: Poèmes (1905), Les Féeries (1907), in cui elabora un personalissimo “lirismo del quotidiano”, essenziale e oggettivo, che inaugura una via nuova alla modernità lirica, Le Calumet, 1910; fondatore del “festin d’Esope” con Apollinaire nel 1903 e poi segretario di redazione di “Vers et Prose” di Paul Fort nel 1905. Divenuto giornalista all’“Intransigeant” nel 1909, lancia la critique des poètes in difesa dei pittori moderni e il suo saggio di critica d’arte La jeune peinture française (1912) contiene una "Histoire anecdotique du cubisme" che costituisce la prima testimonianza, a caldo, sul fenomeno cubista. Si comprende allora il ruolo di primo piano che Salmon ha svolto nella vita culturale del suo tempo tanto da essere considerato la grande speranza della poesia francese anche rispetto all’amico Apollinaire, che avrebbe pubblicato Alcools, la sua prima opera poetica importante nel 1913.
Il confronto tra i due poeti diventa tuttavia inevitabile nel momento in cui Apollinaire, grazie alla pubblicazione delle sue prime opere (L’Enchanteur pourrissant, 1909; L'hérésiarque et & Cie, 1910; Le Bestaire 1911) inizia ad ottenere il riconoscimento che sembra sfuggire invece a Salmon dopo la pubblicazione del Calumet, tentativo di conciliazione tra ispirazione moderna e forme liriche tradizionali, considerato un tradimento della poesia modernista proprio nel momento in cui, complice il lancio del manifesto futurista, si assisteva alla ripresa dell’attività dell’avanguardia letteraria che si sarebbe tradotta in uno sperimentalismo parossistico fino allo scoppio della guerra. Questo ripiegamento su moduli espressivi tradizionali costituisce una sfasatura rispetto alle problematiche e ai valori dominanti nel circuito poetico, che avevano orientato le ricerche poetiche di Salmon nei primi anni della sua attività. Questo momento delicato per Salmon è suggellato in modo emblematico da una poesia straordinaria di Apollinarie, il “Poème lu au mariage d’André Salmon”(1909), uno dei testi più suggestivi di Alcools (1913), in cui Apollinaire celebra l’itinerario poetico dell’amico, riprendendone temi, immagini e moduli stilistici e, di fatto, ricreandoli e superandoli in una modulazione profondamente personale. È il procedimento che presiede all’elaborazione poetica di Alcools in cui Apollinaire introietta, riassume e innova la poesia precedente e contemporanea; è per questo che come scrive emblematicamente Cendrars Apollinaire riassume in modo esemplare la poesia dei primi decenni del secolo: «Apollinaire 1900-1911, seul poète de France («Hamac», Dix-neuf poèmes élastiques).
Non è un caso allora che Salmon attraversi una lunga fase di silenzio poetico proprio tra il 1910 e il 1919, in coincidenza con la consacrazione di Apollinaire, e che la sua opera poetica successiva Prikaz sia pubblicata nel 1919, all’indomani della morte dell’amico. Si inaugura così una fase di intensa elaborazione e di rinnovamento per Salmon che vede la pubblicazione del Livre et la bouteille (1920), dell’Age de l’humanité (1921) e di Peindre (1921). A tale fervore poetico si accompagna un’analoga fecondità sul versante della prosa che vede la pubblicazione della raccolta di racconti Monstreschoisis (1918), del Manuscrit trouvé dans un chapeau (1919), originalissimo romanzo autofictionnel composto in stile cubista, di Moeurs de la famille Poivre (1920) e della Négresse du sacré Coeur (1920) solo per citare alcuni titoli. L’irruzione dei surrealisti sulla scena letteraria del primo dopoguerra interrompe bruscamente questa stagione feconda. I giovani di “Littérature” decretano la morte simbolica di Salmon e della sua generazione poetica consegnandola alla storia letteraria. Reverdy e Cendrars abbandoneranno ben presto la poesia mentre Salmon e Max Jacob si estranieranno progressivamente dagli orientamenti letterari in vigore. Situato tra Apollinaire, che fino alla sua morte incarna il simbolo stesso del poeta, e l’affermazione del movimento surrealista egli non vide riconosciuta la sua originalità poetica

LB: Potrebbe brevemente descrivere il suo percorso di avvicinamento a questo "incatalogabile"?
R: Il mio interesse per Salmon avviene attraverso la mediazione dalla figura di Apollinaire. Le mie prime ricerche avevano riguardato “Les Soirées de Paris”, la rivista di cui Apollinaire fu uno dei fondatori nel 1912 prima di diventarne il condirettore nel 1913, in cui Salmon figura brevemente tra i fondatori. Interrogandomi sulle ragioni del suo repentino abbandono della pubblicazione creata intorno ad Apollinaire in una circostanza dolorosa per lui, l’incarcerazione per l’affaire della Gioconda, risulta evidente come la tacita competizione instaurata tra i due poeti vi abbia svolto un ruolo di primo piano. Nel primo numero della rivista infatti figura il Pont Mirabeau (ripreso in Alcools, 1913) di Apollinaire, una delle sue liriche esemplari, mentre Les Observations déplacées di Salmon, note caustiche sull’attualità letteraria e, nel secondo numero, l’Académie des sciences morales et splénétiques, una poesia brillante e leggera, in tono minore, non riesce evidentemente a reggere il confronto con il testo di Apollinaire. Credo che la rivelazione improvvisa della grandezza poetica dell’amico abbia operato una sorta di trauma creativo in Salmon che non solo prende le distanze dalle imprese apollinairiane ma finisce per allontanarsi dai circoli dell’avanguardia poetica; così egli non partecipa alla seconda fase della rivista dell’amico tra il 1913 e il 1914, divenuta la piena espressione di quell’Esprit Nouveau nelle lettere e nelle arti.
Interrogandomi su questa figura enigmatica, ora conosciuta soprattutto per la produzione memorialistica saccheggiata dai critici d’arte e dagli storiografi, si è rivelata invece la personalità originale di uno scrittore che ha contribuito al processo di elaborazione collettiva della modernità ma il cui ruolo è misconosciuto, sovrastato da quelli che come Apollinaire hanno saputo incarnare nel modo più emblematico la poesia del loro tempo.

Jacques Doucet
LB: Mi accennava a un nuovo lavoro sulla corrispondenza tra Salmon e Jacques Doucet (1916-17). Il periodo, oltre ai corrispondenti, mi interessa molto...
R: Recentemente le mie ricerche salmonianesi sono orientate verso la corrispondenza letteraria redatta per Jacques Doucet, una ventina di lettere, in buona parte, inedite redatte tra il 1916 e il 1917, allorché, passata la prima ondata di slancio patriottico, iniziarono a moltiplicarsi i segnali di ripresa dell’attività artistica e letteraria. La mostra di pittura moderna organizzata da Salmon nel luglio 1916 al Palais d’Antin in cui vengono esposte per la prima volta le Demoiselles d’Avignon di Picasso, per le quali il nostro coniò il titolo definitivo, testimonia il ruolo di primo piano di Salmon nella vita culturale durante la guerra. Nell’ottobre di quello stesso anno il celebre sarto Jacques Doucet, mecenate delle lettere e delle arti, commissionò a Salmon, e contemporaneamente a Reverdy, la redazione di una corrispondenza letteraria che avrebbe avuto durata annuale. Sollecitato dal suo interlocutore che gli chiedeva di "préciser certaines attitudes littéraires de notre temps" Salmon intraprende un viaggio a ritroso sino agli inzi del secolo, "le mouvement contemporain eut trop souvent une valeur collective pour qu'il soit possible de le juger en négligeant ses origines". Sensibile alla frattura istituita dalla guerra, l’autore si volge al recente passato, rievocando attraverso i suoi esordi letterari l’avventura di una generazione di poeti e pittori (Apollinaire, Max Jacob, Picasso) le cui vicende personali e artistiche si erano strettamente intrecciate lungo tutto l’avant-guerre.Nella gravità del momento presente lo scrittore si assume il ruolo di storiografo della propria generazione, consegnando all’evocazione memoriale gli anni della giovinezza e con essi una stagione letteraria straordinaria, ormai conclusa,“nos années les plus saintes, nos années d'absolu sacrifice, de rayonnante pauvreté", da tramandare alla posterità. È una stagione che assurge a tempo mitico, destinato ad essere celebrato lungo il resto della sua attività memorialistica. Di fronte alle distruzioni che devastavano la Francia, le sue cattedrali, i suoi archivi, intere città, la necessità di preservare la memoria del passato più recente si fa pressante e costituisce una resistenza ad oltranza contro le rovine operate della guerra. La peculiarità di questa ricostruzione risiede soprattutto nell’ottica della marginalità adottata da Salmon, che accanto ai compagni della rue Ravignan Max Jacob, Picasso e Apollinaire, sullo sfondo, eleva al rango di protagonisti i dimenticati della storia. Queste memorie divengono così il racconto delle carriere abortite, delle speranze deluse, delle opere incompiute, una sorta di cronaca alternativa alla grande storia letteraria.

LB: Se un editore italiano le dicesse "Iniziamo a pubblicare André Salmon" da dove consiglierebbe di partire?
R: Per quanto riguarda le possibilità di traduzione dell’opera salmoniana bisogna ammettere che quest’opera vasta e multiforme non si presta agevolmente a un’operazione di divulgazione culturale, da cui la sua assenza dal panorama editoriale italiano. Se la parte più accessibile di questa produzione resta indubbiamente quella memorialistica e in parte, la critica d’arte, l’opera probabilmente più interessante in ragione della sua originalità resta indubbiamente Manuscrit trouvé dans un chapeau; corredata dai magnifici disegni di Picasso, quest’opera inclassificabile che alterna prosa e verso, autobiografia e fiction nella cornice strutturale del manoscritto ritrovato ci fa penetrare nel cuore stesso della laboratorio della scrittura salmoniana, nei suoi motivi più profondi, nelle sue esigenze espressive più vitali.

sabato 2 agosto 2014

La critica ai tempi del livore

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #2

In questo spazio così titolato provo, di tanto in tanto, a fermare pensieri che mi vengono spesso su libretti che mi piacerebbe scrivere se avessi capacità, tempo, spazi o persino, ancora più presuntuosamente, un committente. Oppure, meglio ancora, librini che vorrei trovare già scritti brillantemente da altri. Libri piccoli, che provino ad affrontare temi o autori che già hanno una bibliografia, ma con la voglia di provare a dire cose nuove, magari correndo qualche rischio. Non occorre scrivere tanto, pensate a certi articoli filosofici brevissimi, a come hanno cambiato tutto. Scrivendone così brevemente qui, mi faccio passare l'idea di intraprendere tortuosi percorsi inconcludenti.


Secondo libro che mi piacerebbe scrivere o trovare dopo quello su Luigi Tenco. Parliamo di critica letteraria. La critica letteraria è chiamata continuamente in causa, da eterna assente ingiustificata eppure, in qualche modo, sempre presente, permeabile, infiltrante. Dilagante. In un libretto del genere non mi interesserebbe affatto dire se ci sono critici più o meno capaci. Non lo so dire. So e accerto sempre con maggior frequenza che chi si adopera in operazioni che un tempo si definivano di critica letteraria assume oggi un tratto che sta diventando comune: il livore, uno sterile livore. Si badi, nessuno pensa che la critica sia mai stata cucinata a basse temperature e a fuoco lento. Non sono infatti queste le condizioni che la favoriscono e spesso, in passato, le temperature sono state ben più elevate di quelle attuali. Il livore che intravedo è una finta alta temperatura. E se potessi scrivere questo librino immaginario, che qui compendio, non mi rammaricherei del perché i tempi non esprimono più un Luigi Baldacci che scrive su una rivista come "Epoca", del perché non esiste più una rivista come "Il Mondo" di Pannunzio e non mi scandalizzerei certo che "L'Espresso" sia diventato negli anni un supporto cartaceo per lo smercio di DVD, cd, libri. Mi soffermerei sul livore, tratto forse inconscio ma assai acceso e fintamente "caldo" della sedicente critica attuale, alimentato ovviamente dall'arena dei social media, la quale molto spesso è uno spazio per nascondersi dietro timidezze, solitudini, incapacità di confronto e argomentazione. Sono sicuramente venuti a mancare certi tempi lunghi della critica. La rete Internet, se davvero ha appiattito il mondo, ha appiattito anche le possibilità della critica? Non credo. E il livore, anziché provare a far chiarezza, ricaccia tutto in un grande buio che non ci porta da nessuna parte. Lo dice la stessa parola "livore". La critica è una necessità intima della letteratura. La letteratura è un'altrettanto intima necessità della critica. A fare sempre gli incazzati col mondo ci si guadagna ben poco, da un lato e dall'altro. Meglio tornare a studiare, argomentare e lavorare davvero e non per finta.

venerdì 1 agosto 2014

"L'anima e la danza" di Paul Valéry

Mi era già capitato anni fa di leggere questo splendido dialogo di Paul Valéry quando stava all'interno di Tre dialoghi, volumetto tutto rosso e ora fuori commercio pubblicato da Einaudi nella traduzione di Vittorio Sereni (libro apparso nella stessa traduzione anche nella collana "Assonanze" delle edizioni SE). Ora ci pensa Mimesis a riproporre L’âme et la danse (L'anima e la danza, pp. 54, euro 5,90, cura di Aurelia Delfino). Non mi ritengo certo un "esperto di danza" (contraddizione in termini?), però negli ultimi tempi torno spesso alla danza, e non tanto per aver incrociato in giro qualche t-shirt nicciana un tempo di moda sul caos e le stelle danzanti o nemmeno per aver preso parte a molti spettacoli di danza classica o contemporanea. La disciplina e l'arte della danza sembrano ormai cementate in un corpus di opere e filosofia che ne puntellano il suo stare al mondo, e accanto a Valéry basterebbe ricordare soltanto i nomi di Mallarmé, Merleau-Ponty e il già menzionato Nietzsche. Ad un livello personale, ciò che mi spinge verso la danza è un ragionare abbastanza semplice, forse persino semplicistico, sul corpo e sul suo movimento all'interno dello spazio. Riassumendo all'osso, sono le triangolazioni di corpo-movimento-spazio e gesto-forma-tempo che offrono il telaio alle mie riflessioni sulla danza (e anche su molta arte del secolo scorso e attuale, in fondo), e lo offrono anche a una sorta di ricerca della differenza profonda tra il danzare e il camminare o il correre, altra attività che in tempi recenti ha trovato i primi tentativi di speculazione filosofica e neurobiologica.

Ma tralasciamo le noiose motivazioni personali, che sono più che altro la spiegazione del perché ho deciso di dar notizia di questa uscita bibliografica. Leggendo questo brevissimo dialogo di Valéry tra Socrate, Fedro e il medico Erissimaco sono molte le suggestioni che ritornano. Il gesto-dono mai spiegato del danzare, il pensiero incarnato nel tronco e negli arti semoventi, la centralità coreografica assunta nell'arte coreutica e allo stesso tempo l'enigmaticità di quest'arte all'interno delle altre arti sembrano suggerire da subito che la forma platonica del dialogo sia l'unica forma di testo possibile per avvicinare le interpretazioni sul suo "statuto". Ed è uno statuto, se così lo chiamiamo per comodità, che rimanda a ciò che incandescente e primario, invisibile eppure così sulla superficie, in una storia millenaria che davvero si perde nelle origini dell'uomo e che pare aver enigmaticamente smarrito, ad un certo punto, il collegamento con il sacro che per secoli aveva trattenuto (o forse tale collegamento ha solo subito una traslazione?). La danza è poi un'arte tra le più antiche e quasi paradossalmente tra le più documentate, forse più di qualsiasi altra arte, ed ecco allora che emerge un altro motivo di grande interesse e una nuova ragione per riflettere che non solo la musica dovrebbe essere insegnata a scuola decentemente, ma pure la danza. 


La danza appare allora come un grande sì, un'affermazione assordante del corpo creatore, che è in grado di affermare e annientarsi nello stesso istante del proprio sforzo infinito, dissipando creativamente l'energia. La danza è alleanza salda di spazio e tempo come poche altre. Arte povera per antonomasia, prima ancora che "arte povera" diventasse etichetta, la danza ha trovato in questo scritto di Valéry un'opportunità eccezionale di rinnovamento nella poesia e nel pensiero di uno dei grandi intellettuali del Novecento. Certo Valéry non è nuovo a queste riflessioni, e si citi soltanto un altro suo libro disponibile in italiano come Degas danza disegno. E molti sono gli spostamenti che possiamo ipotizzare, una volta imboccata la strada di queste riflessioni che investono anche il gesto e la gestualità. Perché non richiamare Bergson e la sua riflessione sulla materia? Oppure studi pionieristici tanto imprescindibili quanto oggi introvabili come Il gesto e la parola di André Leroi-Gourhan, tanto più interessante proprio in quei punti in cui si spende sulla tecnica sviluppata dall'uomo preistorico e diventa alterità pura rispetto alla gratuità e al mancato utilitarismo della danza. E poi sì, certamente anche lui: Cartesio. Per come vi si avvicina Valéry, anche la danza pare rientrare pienamente nell'alveo dell'implexe e in quello di potenzialità biologica, ovvero due dei concetti fondanti i suoi inesauribili Cahiers. Tutto torna. Dicevamo però che la riflessione sulla danza puntella da decenni lo stare al mondo dell'arte coreutica. Ecco, la cosa forse da tener presente e non scontata è che la danza, quando è tale, è qui sì, ma non del tutto a questo mondo.