venerdì 27 febbraio 2015

Diario della Grande Guerra (9 dicembre 1917 - 6 giugno 1918) di John Dos Passos: "L'allegra montagna di menzogne"

Leggere una grande guerra #12

"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).

Chi ha letto l'acclamato Stoner di John Williams ha avuto una chiara percezione di quel che è stato l'impatto della "guerra in Europa", già a partire dall'invasione tedesca del Belgio nel 1914, per le generazioni più inquiete di giovani americani. Hemingway falsificò l'anno di nascita pur di navigare verso l'Europa, finire a Schio prima e a Fossalta di Piave poi a distribuire cioccolata e altri generi di conforto alle prime linee (“I am a boy of the Lower Piave… I’m an old Veneto’s fanatic and I’ll will leave my heart here” scriverà in una lettera a Bernard Berenson, trent'anni dopo la fine della guerra). Molti altri giovani scrittori che avremmo conosciuto poi partirono (Malcolm Cowley, E.E. Cummings, Sidney Fairbanks, Julien Green i nomi che forse ritornano più spesso) e Harvard fu uno dei centri di maggior propulsione. Tra questi nomi di giovani imbarcati per l'Europa registriamo anche John Dos Passos, che dopo il tempo trascorso prima sul fronte francese e quindi al cospetto del Monte Grappa, tra le province di Vicenza e Treviso, scrisse ben due romanzi incentrati su quegli anni di guerra, One Man's Initiation del 1917 (proposto in traduzione italiana da Piano B edizioni col titolo L'iniziazione di un uomo) e il successivo Three Soldiers del 1921 (che invece manca in lingua italiana da troppi anni). Come lettura importante, alternativa e non "ancillare" di quel periodo di formazione dello scrittore americano dallo strano cognome portoghese, possiamo ora leggere "L'allegra montagna di menzogne". Diario della Grande Guerra (9 dicembre 1917 - 6 giugno 1918) pubblicato da Gammarò, sigla editoriale di Oltre edizioni, per l'ottima cura e traduzione di Silvia Guslandi (pp. 138, euro 16). La traduttrice ha scritto un'utile prefazione al volume, cogliendo gli intrecci fra i membri di quella generazione di scrittori che si affacciò sulla guerra grande d'Europa e avvicinando le loro vicende personali alle più significative coordinate culturali e politiche del tempo. 

Addentrarsi nei giorni e nei luoghi di Dos Passos in queste pagine diaristiche, vuol dire spostarsi da Parigi attraverso un'assolata valle del Rodano, giungere in Liguria, transitare per un bellissimo notturno genovese e l'uggioso stazionamento di Milano, fino all'arrivo in Veneto, a Dolo, la riviera del Brenta, Mestre e Venezia, e quindi il quadrilatero dato da Bassano e Borso del Grappa, Romano d'Ezzelino e Asolo (un po' la sua zona di guerra, se vogliamo). Significa anche inseguirlo nei giorni di licenza in un'irresistibile parentesi bolognese e poi giù, lungo l'Appennino (e Roma, Napoli, Pompei e il ritornare "come piccioni"). Dos Passos registra i colori avidamente, quelli delle case e delle imposte soprattutto, traccia le geometrie della pianura veneta, descrive i centri cittadini e l'intervallarsi di tedio e concitazione dei giorni di guerra, fissa sulla pagina volti e momenti, ufficiali e soldati semplici, uomini e anche donne, le copiose e variegate letture che porta a termine. Eppure sembra affiorare nella prosa diaristica, ricca anche di parole imparate dal francese o dall'italiano, una distanza da tutto quello che il giovane chicaghese osserva e percepisce, una distanza che pare già incolmabile: di qui viene il suo saper sorprendentemente galleggiare nel gran mare di balle della guerra e pure un certo piglio antropologico, quando scruta il soldato italiano. 

lunedì 23 febbraio 2015

"Poesia contemporanea. Dodicesimo quaderno italiano" di Marcos y Marcos. Intervista agli autori

Librobreve intervista #52

A pochi giorni dall'uscita di Poesia contemporanea. Dodicesimo quaderno italiano, edito sempre da Marcos y Marcos per la cura di Franco Buffoni, ripeto con i nuovi autori selezionati la stessa identica intervista collettiva che feci nel giugno 2012 agli autori inclusi nell'undicesimo quaderno. Volendo, si può così tentare un sinottico sguardo sulle diverse risposte alle domande immutate. Ringrazio gli autori e in particolar modo Alessandro De Santis, per l'aiuto nel coordinamento e nella raccolta dei materiali. Il volume uscirà il prossimo 21 marzo, giornata mondiale della poesia. 


MADDALENA BERGAMIN


La madre è uguale alla figlia
sul fondo lo sfondo urbano, che strano
la madre è uguale alla figlia!
due volte gli stessi capelli
rossi sul fondo urbano
sullo sfondo profondo e quanto...
profondo. La madre e la figlia
sono uguali, hanno casacche
fosforescenti e parlano dietro
la linea gialla, sullo sfondo i treni
dal fondo, i rumori corrotti
i lamenti, i brusii della gente
che sta sullo sfondo. La figlia
è uguale alla madre, (la madre bisbiglia
sorride, la figlia)


LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
R: Neon 80 di Lidia Riviello.
LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
R: Leopardi, Baudelaire, Montale ed Eliot sono i primissimi cronologicamente e hanno lasciato il segno. Più recenti, ma con segno altrettanto deciso, Valerio Magrelli e Vito Riviello.
LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
R: In francese perché abito in Francia, ma mi piacerebbe molto anche il portoghese.
LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
R: Mi immagino una bella ragazza di vent’anni o poco più, seduta in metropolitana con le cuffiette alle orecchie, mentre scandisce il tempo muovendo la testa, le dita o i piedi. Pop.


MARIA BORIO


Appena sopra le notizie io so nomi e persone
come era il labirinto dei vetri, al parco, degli specchi
finché sbattendo trovavi l’uscita.
Perché non ho l’uscita adesso –
si chiama rete,
taglia un quadrato
e un luogo che è ovunque.

O sono il bianco in fondo
al corridoio degli specchi,
inciso di diagonali e metallico
a terra, stretto intorno al corpo
con i neon che facevano indistinti
la pelle e l’aria come un’ombra trasparente
che segue ognuno, ma a voltarsi non c’è.
E lì il pezzo di vecchia moneta,
il cerchio di bronzo con il delfino
era caduto a terra
quando siamo stati vicini all’uscita,
e per non perderla l’abbiamo lasciato.
Lì, esattamente ho creduto
a una lingua per tutti
identica dall’aria agli specchi,
dall’inventore del labirinto alle nostre mani sudate
che proteggevano la fronte:
errore o deviazione,
ma era solidità
sbattere la fronte a volte
prima di arrivare.
E all’uscita del parco il maestro delle crepes,
la breccia in cerchio come la piattaforma scura
dove tiri e peschi
e perdi, e poi le scarpe da ginnastica
sulla breccia e il mese certo

mentre il tempo adesso è filiforme
e i sentimenti certi che tutti possono capire
e vedere nella sola infinita
rete – o, a volte, in equilibrio,
qualcuno che riporta la moneta.


LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
R:  Gli ultimi libri di poesia che ho letto e su cui ho potuto riflettere con più attenzione sono l'edizione con tutte le opere di Giovanni Raboni e Salva con nome di Antonella Anedda. Ho poi ricevuto, dopo averla aspettata a lungo, un'edizione con le poesie di Wallace Stevens, è stata una sorpresa splendida. 
LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
R:
Gli strumenti umani e Stella variabile di Vittorio Sereni sono libri che amo. Porto con me anche Eugenio Montale, Wallace Stevens, Anna Achmatova, Michail J. Lermontov, Elizabeth Bishop, Thomas Hardy, Giovanni Raboni, Milo De Angelis, Antonella Anedda, Mario Benedetti.
LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
R:
Mi piacerebbe che fosse tradotta in inglese, perchè è una lingua a cui sono legata affettivamente, e in spagnolo perchè sento che potrebbe esserci una consonanza per quanto riguarda la pienezza del suono, della parola. Mi affascina anche l'idea di una traduzione in lingue distanti dalla fonetica a cui sono abituata, come l'arabo, le lingue slave o le lingue orientali.
LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti? 
R:  Il mio rapporto con la metrica potrebbe essere descritto come un'immagine in cui si vede la sabbia che viene riscaldata e plasmata per ottenere il vetro. La lingua manipola la pasta in spirali e intrecci con un gesto veloce, onesto e naturale.


LORENZO CARLUCCI


(senza titolo)

lui viene e va, viene e poi va, è come è sempre.
tu morirai piangendo, per tutte le bugie
per ogni falsità e peccato che hai commesso
lui viene e va, mi svuota il frigo ed esce
io morirò da vecchia in casa e sola
col latte in mano.

apri la porta ed entra: prenditi i mobili
svuota il salone e svuota la cucina
vieni con il tuo amico, amica,
quello col camioncino –
prendi le cose gratis di questa casa vuota.

su questo tavolo ha giocato il mio bambino
ha giocato tra i fiori, a nascondino.

scendi a comprar la droga e poi risali
vieni qui a rantolare
– piastrelle fredde contro le caviglie
fatti una sega steso accanto al muro.

tu morirai piangendo, per tutte le bugie
per ogni falsità e menzogna non svelata
su questo tavolo giocava il mio bambino
a nascondino, dietro le rose rosse.


LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
R:
Non saprei dire. Lascia un po' tutto il segno. L'ultimo letto è di Virgilio, Georgiche.
LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
R:
Blake, Lorca, Eliot, Dante, Petrarca, Shakespeare, Rilke, Luzi.
LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
R:
Inglese.
LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
R: Il mio rapporto con la metrica è simile al rapporto della musica con il sistema tonale o modale.


DIEGO CONTICELLO


Riflessi,
nuovamente piegati
soggiogati buoi/bestie
alla morsa del tempo
al buio come morte.

La distruzione delle cose.

E i nomi lì a rifulgere,
rifiutare di piegarsi,

di nuovo fare luce.


LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
R: Le terre emerse di Fabio Pusterla, non proprio l’ultimo letto ma senz’altro l’ultimo ad aver lasciato qualcosa.
LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
R: Certamente Lucio Piccolo, a lungo riletto, studiato, meditato; il primo Montale, fino a La Bufera; infine alcuni semi-dimenticati quanto necessari: Sinigaglia, Orelli, Ripellino e Cattafi (visto che si parla di ‘segni’).
LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
R: Visto che è già accaduto con i caldi e congeniali suoni ispanici dico l’ungherese: una lingua assai armonica e suggestiva.
LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
R: Un contrappunto, un bordone nella partitura – apparentemente nascosto ma continuo – necessario, sebbene cangiante, a ordire l’armonia generale.


MARCO CORSI



das glück

la felicità è saperti successivo
dove non c’è evoluzione nei corpi
ma solo la materia inerte
di cui ti sei fatto bello
a immagine di un dio solo
senza padre e senza fratelli.

LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
R: Vorrei non citare proprio un libro di poesia ma un libro che mi ha colpito per la grande affinità con quanto mi sembra essenziale oggi in poesia, ovvero Il secolo di Javier Marías, dove si legge una chiarissima analisi del concetto di eredità, umanissima, a partire dall’immagine essenziale e irriflessa delle acque di un lago su cui si apre il libro.
L’ultimo libro di poesia che ho letto è in realtà il breve mannello intitolato Carte segrete di Scipione, comprensivo dell’apparato di missive dell’artista, e introdotto in maniera fulminante da Amelia Rosselli.
LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
R: Di sicuro c’è Montale, al primo posto, del quale meccanicamente affiorano spesso certi versi improvvisi, ed è più il Montale delle Occasioni e dei Mottetti che non quello degli Ossi. Poi Ungaretti, Saba, Volponi, la Stella variabile di Vittorio Sereni, Giovanni Giudici, la già citata Amelia Rosselli, le Canzonette mortali di Giovanni Raboni. Ma dovrei citare anche certe altre letture continue come Jolanda Insana, Antonio Porta, Milo De Angelis, Maurizio Cucchi, Valentino Zeichen, Biancamaria Frabotta, Anna Cascella Luciani, Franco Buffoni, Patrizia Cavalli, Patrizia Valduga, senza ordine di merito.
LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
R: Certamente vorrei che il primo passo fosse mosso verso il francese. Poi da lì attraversare il guado verso lingue e suoni che sento più lontani dal mio impasto fonico, come l’inglese, anche se spesso nella testa mi risuona quello zoccolare duro di certi versi di Sylvia Plath, così familiare alla mia andatura.
LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
R: Non adotterei una similitudine, ma un concetto già ben individuato come quello dello “spazio metrico”, inteso come forma di dettatura-dittatura in cui ci si costringe per forzare la capacità della dizione e delle immagini. Forse potrei usare la metafora del pommander, quel particolare congegno di profumi usato al modo di un keepsake: una memoria ancestrale che diviene ragione emotiva.


ALESSANDRO DE SANTIS


Torre Maura
Ore 10,35. Sguardi ottimisti. Un insolito vento

L’uomo senza braccia
non cerca appigli
l’uomo senza braccia
ha sporte che gli pendono dai lembi
muove il mento
come a voler dire qualcosa
il volto smunto
povero di peli
un tipo biondo lo fissa
segue con lo sguardo
la sua ellittica geometria
un uomo – si sa – esige dei legami
non ha motivo d’essere
quell’albero potato,
senza rami.


LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
R: Tersa morte di Mario Benedetti e Rovigo del poeta polacco Herbert Zbigniew.
LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
R: Senza pensarci troppo a lungo: Gli immediati dintorni di Sereni, Leopardi e Montale, alcune cose di Sandro Penna, Carlo Betocchi, Attilio Lolini e Umberto Fiori, Nel magma di Mario Luzi, Millimetri di Milo De Angelis, Cuore – Cieli celesti di Beppe Salvia, Pianissimo di Camillo Sbarbaro e per motivi anche affettivi L’Italia è morta, io sono l’Italia di Aurelio Picca. Ma ricordo anche uno dei primissimi libri di poesia letti: la traduzione dell’Inno a David di Christopher Smart, scovato in biblioteca in solitudine su uno scaffale.
LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
R: In francese, che è la lingua che conosco meglio, per curiosarne la resa. Ma forse ancor di più in lingua araba, in quanto lingua a me incomprensibile.
LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
R: Per me la metrica è come l’aria per uno scultore.


SAMIR GALAL MOHAMED


«Altro patrimonio, altro capitale
conservato, essendo il poeta
reazionario per definizione.
Altri argomenti, altre prove
nella dottrina dell'autodeterminazione.»

Mai verità mi violentò di più;
scelse il giorno di Natale. Mio padre
era il bambino; mia madre, invece,
volle macchiarsi del sangue
nostro perché ci macchiassimo del suo.
Passarono quasi trent'anni
e tre ladroni e io nel mezzo;
l'età del silenzio precedette
la parola: di chi sono, io,
il successore?

[…]


LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
R: (Alcuni testi tratti da) Selected Poems, di Vasyl' Stus.
LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
R: Leopardi, tra le primissime letture; Rilke, invece, un poeta che continua a lasciare un segno.
LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
R: In arabo o, meglio ancora, in una delle sue tante determinazioni particolari.
LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
R: Ricorrerò a un’immagine mitologica e, più precisamente, al mito di Prometeo: un’aquila che ogni tre funesti giorni dilania un fegato; un fegato che si rinnova gonfiandosi.

venerdì 20 febbraio 2015

"Il liuto e le cicatrici" di Danilo Kiš

Danilo Kiš (1935 – 1989)
Non amo parlare di folgorazioni con riferimento alle letture, siano esse di poesia o prosa narrativa e saggistica. Fra l'altro credo molto alla rilettura, di cui si parla sempre troppo poco, anche se ben si capisce: parlare di rilettura quando anche la lettura sta poco bene potrebbe sembrare un lusso lezioso. Chi però rilegge sa bene che le riletture hanno risorse e estensioni proprie che difficilmente la "prima lettura", per quanto coinvolgente o addirittura sconvolgente, possiede. Nel caso di Danilo Kiš comunque userei di buon grado la parola "folgorazione" per descrivere i momenti e le sensazioni percepite quando lo incontrai sulla pagina le prime volte: Dolori precoci, Giardino, cenere e Enciclopedia dei morti, questo fu per me il trittico micidiale di avvicinamento allo scrittore nato a Subotica. Per questo e altri motivi non si può non salutare con profondo interesse ogni nuova opera che arriva in traduzione, tanto più se si tratta di sei racconti, "ritrovati tra le carte", che Kiš scrisse in anni fondamentali, tra il 1980 e il 1986, ovvero un po' prima e un po' dopo l'Enciclopedia che uscì nel 1983.

Il liuto e le cicatrici arriva come le altre opere di Kiš nel catalogo Adelphi (pp. 157, euro 13, traduzione di Dunja Badnjevic, note critiche di Mirjana Miočinović). Raccoglie sei racconti, di ambientazioni e ampiezze diverse e non è sbagliato leggerli in consonanza con l'Enciclopedia dei morti. E quindi, se consonanza c'è, la morte resta per forza centrale, come in altre pagine, ma qui riaffiora il senso di mistero di alcuni momenti isolati che insistono in prossimità di una fine e di un sentimento di finitudine. Per uno scrittore che ha attraversato l'Europa e precocemente ne ha fatto propri i dolori immani, la scrittura è divenuta pratica irrinunciabile per osservare e passare le dita sulle cicatrici. Questi racconti, come gli altri scritti che compongono il corpus di Kiš, travalicano tutti quei miti ormai poco credibili (e forse persino poco redditizi) sulle zone di confine, su una certa costruzione del "mito balcanico" in letteratura o sullo scrittore apolide. D'accordo, tutti questi aspetti qualcosa c'entrano nel modo in cui gradiamo raccontarci le cose, ma iniziano a star stretti. Molto stretti. Se esiste una res publica litterarum (e forse esiste, davvero, ed è la sola repubblica che resiste da secoli) Danilo Kiš ne è stato un abitante tra i più importanti e vi ha respirato a pieni polmoni. Io continuo a leggerlo come uno dei non molti scrittori capaci di rendere la molteplicità dell'esperienza umana negli istanti brevi in cui è investita e travolta da ciò che chiamiamo "storia" e che, per il momento almeno, non ha un nome migliore.

lunedì 16 febbraio 2015

Letture da "Traviso" e da "Pertiche" a Fahrenheit


L'intervista di oggi con Loredana Lipperini a Fahrenheit ha anticipato gli spazi che la trasmissione di Rai Radio 3 dedicherà questa settimana ad alcune registrazioni di letture da Traviso (Edizioni Prufrock spa, 2014) e da Pertiche (La Vita Felice, 2012). Questo il sito del programma.


(I post su Traviso e Pertiche)

domenica 15 febbraio 2015

"Per i sentieri dove cresce l'erba" di Knut Hamsun

Intellettuale della "tentazione fascista" per il finlandese Tarmo Kunnas, assieme a Céline, Drieu La Rochelle, Robert Brasillach e altri, maestro di scrittura per molti (tra cui Hemingway, che lo metterà in un personale Olimpo), esempio tra i più serrati e coerenti del nativismo europeo, il Nobel norvegese Knut Hamsun ha conosciuto una sostanziale continuità di proposta. (Trovo un peccato però che non si trovi più il saggio intitolato La vita culturale dell'America moderna edito alcuni anni fa da Arianna editrice. Lì si evince il pensiero sull'America corrotta della separazione totale tra uomo e ambiente, una nazione vissuta in prima persona negli anni in cui fece esperienza del millemestieri, prima di riapprodare in patria e consegnare tutto a opere come Pan o Il risveglio della terra). Per i sentieri dove cresce l'erba (Fazi, pp. 176, euro 16, traduzione di Maria Valeria D'Avino) però mancava ed è ritornato disponibile dopo anni di assenza. Rappresenta l'opera conclusiva del longevo (1859 - 1952) scrittore, attraversato da ogni parte dai camminatori della letteratura del secolo scorso. Il libro, uscito nel 1949 e scritto nel 1948, è un regesto di ciò che rimane del tempo trascorso tra le mura di ospedali psichiatrici e ospizi, un esempio di "stile tardo" di inconciliabilità e mancata riappacificazione, se vogliamo usare una categoria battezzata da Edward Said, un'opera letta spesso strumentalmente per provare a scandagliare i dubbi sulle sue facoltà mentali, sulla sua "sanità". La copertina che ritrae Hamsun ancora giovane è un po' fuorviante. Ci sarebbero state altre foto dell'autore anziano, ma ben si comprende il fascino fotografico curvo del pince-nez e dei curvi baffi...

Il triennio 1945-1948 rappresentò per lo scrittore un frangente di enorme umiliazione da parte di tutta la popolazione norvegese. I legami di Hamsun con la politica sono noti, così come il sostegno a Quisling e al Pangermanesimo, e sarebbe davvero ora di iniziare ad affrontare questa marea di scrittori e intellettuali con maggiore serenità per quello che ci offrono, senza star lì a giustificarsi quasi, come a dire in modo dozzinalmente sciatto, "io sono di sinistra ma leggo comunque Pound, Céline, Jünger o Malaparte e D'Annunzio". Sono giustificazioni che lasciano davvero il tempo che trovano, per molti versi fanno sorridere, eppure non sono ancora del tutto scomparse, come se un pubblico che sta "di là" le richiedesse continuamente. Questa è l'ipocrisia bella e buona del nostro tempo, il quale ha un tremendo bisogno di ridurre e semplificare sempre qualsiasi aspetto di un reale che si mostra ogni giorno sempre più arduo. Di fondo il problema è pedagogico ed è anche sulle parole; ad esempio basterebbe prendere una parola come "fascista", ancora presente nel linguaggio politico italiano e usata spesso a vanvera come insulto proprio da chi ai veri fascisti è più vicino, senza la mimima consapevolezza storica del suo portato. E come testimonianza specifica di questo momento di storia europea possiamo leggere il libro in questione. Per i sentieri dove cresce l'erba non è il capolavoro dello scrittore, ma richiama a sé quell'attenzione che si deve a un'opera conclusiva che brucia di quelle antinomie che alimentano gli scrittori più interessanti (non è anche Manzoni, ad esempio, uno scrittore pieno di antinomie?). Queste pagine allora sono quelle di chi da idolo di un intero paese è passato a vergogna e traditore nazionale nel giro di un ventennio (Jacques Sémelin in Senz'armi di fronte a Hitler mostra bene la non-clemenza dei paesi scandinavi con coloro che si erano compromessi coi totalitarismi). Il libro mantiene intatto quello sguardo che non dobbiamo smarrire, quella scrittura che è il motivo per cui tra decenni rileggeremo ancora quest'autore che portò alle estreme conseguenze un rapporto panico tra io e ambiente, un binomio che declinato sul solco dei totalitarismi aveva cercato di evitare la decadenza europea. Si tratta di un capitolo lungo, immenso, di storia del pensiero, da affrontare senza le ipocrisie più becere dell'accademia e della politica dozzinale e sciatta a cui siamo, da troppo tempo, assuefatti. 

mercoledì 11 febbraio 2015

Il nuovo abito di Iperborea. Alcune domande a Pietro Biancardi

Librobreve intervista #51
©overtures #8

In occasione del rinnovo della veste grafica di Iperborea ho rivolto alcune domande a Francesca Gerosa, responsabile dell'ufficio stampa. Ha risposto Pietro Biancardi, direttore editoriale della casa editrice fondata da Emilia Lodigiani nel 1987. Ringrazio entrambi per la collaborazione.



LB: Iperborea cambia grafica. Si tratta del primo cambio di direzione dalla sua fondazione?
R: Il restyling non è stato pensato come un cambio di direzione ma come – speriamo – una piccola accelerazione: c'erano elementi che funzionavano ancora molto bene dopo quasi 30 anni e altri che avevano bisogno di una ringiovanita. Abbiamo cercato di mantenere i primi e lavorare sui secondi. E poi abbiamo avvertito il bisogno di migliorare la leggibilità dei nostri libri, da qui la necessità di lavorare sui materiali, cambiando sia la carta di copertina sia quella degli interni.

LB: Di Iperborea mi ha sempre colpito il formato dei libri, stretti e alti. Come nasce l'idea di progettarli così? Ci sono state delle sorgenti di ispirazione? Col tempo avete notato vantaggi o svantaggi di questo formato pressoché unico nel panorama?

R: In molti ci chiedono il perché del formato dei nostri libri. C'è chi lo ama e chi meno. È stata una scelta molto meditata fatta alle origini, ovvero nel 1987. Queste, in sintesi, le ragioni: 1. Principale ed essenziale: che fosse un po' diverso dagli altri, facilmente riconoscibile e identificabile subito, ma senza dare fastidio nelle normali librerie di casa, di fianco agli altri libri. 2. Lungo e stretto, con un leggero richiamo alle guide turistiche, visto che per primi stavamo introducendo in Italia le letterature nordeuropee: un invito ad affrontare una nuova area geografica culturale con lo spirito aperto e curioso che si ha quando si intraprende un viaggio. 3. 10x20: il formato dell'antico mattone di cotto, ovvero l'oggetto più maneggevole inventato dall'uomo, e in più con l'idea di libri-mattoni (ovviamente non nel senso di noiosi e pesanti, ma nel senso di costruttivi) che contribuissero a costruire la personalità, la mente e l'anima del lettore e anche (ambiziosamente) contribuissero a diffondere la reciproca conoscenza dei paesi europei e quindi a rinsaldare l'idea di Europa e di uno spirito e di una cultura comuni europei. 4. Perché la gabbia interna (ovvero la lunghezza delle righe, di 7,5 cm) è troppo lunga per permettere la lettura rapida (i 4 cm delle colonne dei giornali) che non si addice a un romanzo, ma riposante per gli occhi che non si stancano a passare dalla fine di una riga più lunga all'inizio di quella successiva. Quindi a rendere la lettura più piacevole e meno faticosa.
Gli svantaggi sono quelli a cui accennavo prima: alcuni lettori si lamentano per la difficile "apribilità" dei nostri libri. Con il restyling dovremmo aver risolto il problema grazie a carte più morbide, flessibili e altrettanto (se non più) pregiate.

LB: L'identità della casa editrice è legata al suo "concept" ovvero alla proposta in traduzione di testi del "Nord" (di qui anche il nome della casa editrice). Avete mai pensato di allargarvi ad altre letterature o è - per statuto - impensabile?
R: Il legame con il Nord Europa è un patto di sangue. Scherzi a parte, non escludo che in futuro Iperborea possa fare anche altro, ma al momento rimaniamo focalizzati su quell'area culturale, che in questi anni e forse decenni tra l'altro è forse la regione al mondo con i più alti tassi di creatività. I paesi scandinavi, poi, sono un modello di democrazia, libertà, giustizia che tutti dovrebbero prendere a esempio e non a caso sono anche i paesi al mondo che investono di più in cultura.

LB: Potete dare qualche anticipazione sul 2015?
R: Nel 2015 abbiamo subito cominciato con il lancio del restyling, e i primi libri che lanciamo in nuova veste grafica sono dei classici – non a caso: innovare mantenendo un fortissimo rigore editoriale: La congiura dell'estone Jaan Kross, la Laxdæla saga islandese, le Storie di Amsterdam dell'olandese Nescio. Tra i nuovi autori vi consiglio di tenere d'occhio lo svedese Fredrik Sjöberg con il suo L'arte di collezionare mosche (uscita: marzo). E poi tre grandi del catalogo Iperborea: Björn Larsson con una raccolta di saggi sulla letteratura di mare (di cui è uno dei maggiori esperti mondiali), Lars Gustafsson con il nuovo romanzo L'uomo sulla bicicletta blu e l'attesissima nuova opera di Jón Kalman Stefánsson: I pesci non hanno gambe, in arrivo a maggio.
Sempre a maggio stiamo lanceremo la prima edizione de I BOREALI - Nordic Festival. Sarà a Milano, nel pieno dell'Expo, in collaborazione con il Comune di Milano e alcuni dei luoghi della cultura milanese più prestigiosi: Piccolo Teatro, Spazio Oberdan / Cineteca Italiana, PAC, ecc. Abbiamo fatto tesoro dell'esperienza dei precedenti festival culturali organizzati sempre a Milano da Iperborea (Caffè Helsinki, Caffè Stoccolma, Caffè Copenaghen, Caffè Amsterdam) e abbiamo alzato l'asticella. Porteremo 7 autori nostri e di altre case editrici, cinema, teatro, musica, lingue, design, cucina, libri e fotografia. Sarà il più grande festival mai organizzato in Italia dedicato alla cultura del Nord Europa.

LB: Esercizio di immaginazione per chiudere: vi chiedono di fornire un vostro spunto per uno spot televisivo che incoraggi la lettura (uno di quegli spot che un tempo si chiamavano spot di "pubblicità progresso" e che forse si chiamano anche ora così). Che cosa suggerite? Grazie.
R: Non ho mai creduto nella pubblicità progresso, ma nella forza dell'esempio. La tv può essere un ottimo mezzo. Perché non tornare a proporre programmi con i libri al centro? Mi pare che qualche esempio di successo in Italia ci sia stato. O anche importare qualche format che funziona all'estero. Ma se questo è chiedere troppo perfino al nostro servizio pubblico, perché in alcune occasioni, come la giornata mondiale per il libro, o altre ricorrenze, tutti i personaggi della tv non si presentano con un libro in mano in trasmissione e raccontano ai loro fan in un minuto quale libro stanno leggendo e perché? Per esempio quello che ha fatto ieri
(il 2 febbraio, ndr) il presidente del Consiglio Matteo Renzi di entrare in una libreria e comprare 5-6 libri (con anche scelte per nulla scontate) seguito dai fotografi e dalle tv è un piccolo gesto ma che può avere un impatto sulle abitudini di lettura degli italiani.

lunedì 9 febbraio 2015

Poesie inedite di Saragei Antonini



"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare.


Poesie inedite di Saragei Antonini (Catania, 1973)
 

*

la ceramica noia -
il manico che non è dalla parte di nessuno
il giorno ha l'imbarazzo delle ore
e la notte monta a notte un altro giorno.


*

il tempo ha fatto montagne di vestiti sulle sedie -

un coro nel calco del vuoto -
la tazzina è diventata per acqua:
nel bianco si fonda altro bianco.

*

quando si alza il vento
accompagno la porta -
la riporto a sé -
si vede la sua lunga fessura
come una cicatrice
di chi è stato nell'altro mondo
e s'è abituato a separarsi e unirsi in questo.


martedì 3 febbraio 2015

Toti Scialoja nel ritratto di Eloisa Morra: "Un allegro fischiettare nelle tenebre"

Librobreve intervista #50

Un allegro fischiettare nelle tenebre. Ritratto di Toti Scialoja è uscito da pochi giorni per Quodlibet (pp. 240, euro 20). Eloisa Morra ne è l'autrice. La raggiungo con le domande di questa intervista, che ora vi proponiamo per accompagnare una stagione di parziale riavvicinamento all'opera del pittore-poeta romano, del quale lo scorso anno ricorreva il centenario della nascita. Fortunatamente però quest'intervista esce nel 2015, e quindi siamo a 101 anni dalla nascita; 101 è un numero palindromo e quella di Eloisa è la cinquantesima intervista di questo blog, metà di cento. Insomma, questa numerologia mi solleva. Ringrazio l'intervistata e anche Mariagiorgia Ulbar per avermi parlato per prima, alcuni mesi fa, dello studio di Eloisa Morra.

LB: Come nasce e si sviluppa questo tuo studio su Scialoja? (E una curiosità personale: questo autore ha vinto su qualche altro autore che avresti potuto/voluto studiare e approfondire?)
R: Il progetto del libro nasce da una ricerca iniziata alla Scuola Normale Superiore di Pisa a fine 2010; mi sono resa conto quasi subito di avere a che fare con un autore non ancora “scoperto”, nonostante potesse vantare tra i suoi ammiratori Calvino, Manganelli, Porta e Raboni, senza dimenticare le poesie à la Scialoja di Alberto Arbasino… A parte gli scritti di questi grandi Toti Scialoja poeta e illustratore rimaneva inesplorato. Studiarlo (ma sarebbe meglio dire inseguirlo; i suoi talenti sfuggono a qualsiasi tentativo di incasellamento) era una sfida ardua: come muoversi nell’esplorare un autore su cui non esistevano studi organici? Il  maggiore rischio stava proprio nell’apparente facilità derivata dalla troppa libertà: ma mi sembrava valesse davvero la pena tentare una ricostruzione — e un’interpretazione — da zero di un’avventura intellettuale unica, che si snoda lungo tutto il Novecento per andare ben oltre i confini italiani. Girando per diversi archivi mi sono resa conto che c’era abbastanza materiale per tentare un ritratto critico di un artista capace di passare dal tono sofferto dei suoi dipinti più famosi, le “impronte”, a storie di animali che sembrano lievitare dalla trama invisibile delle sillabe:

L’istrice attrice illustre
recita parti tristi
con occhi lustri lustri
inchiostrati di bistri…


Mi affascinava scoprire cosa si nascondesse dietro l’apparente semplicità dei versi e dei disegni… Arrivata da Pisa a Harvard ho continuato a lavorare a questa ricerca grazie a un sistema bibliotecario straordinario. Quanto agli altri autori, sì, Scialoja ha “vinto” su Calvino, che però si è imposto comunque come una presenza forte all’interno del libro: Toti lo avrebbe voluto tra i collaboratori di “Rivista Bianca”, una pubblicazione di cui doveva essere co-direttore insieme a Elsa Morante e Mario Lattes all’inizio degli anni Cinquanta. Trent’anni più tardi sarebbero diventati amici: Calvino avrebbe spinto Einaudi a pubblicare il suo secondo libro di poesia, e — spinti da predilezioni visive simili — i due avrebbero lavorato intensamente al “Teatro dei ventagli”, un progetto di fiabe animate da mandare in onda per la RAI, poi non finalizzato… Insomma, attraverso questi inaspettati “incroci” ho avuto la fortuna di poter esplorare anche altri autori, italiani e stranieri.

Toti Scialoja
LB: E, risalendo a prima ancora, ci racconti del tuo personale incontro con Scialoja?
R:  Ho “conosciuto” prima il pittore; a colpirmi era stata soprattutto l’evoluzione avventurosa del suo percorso (c’è uno Scialoja esordiente che guarda alla Scuola Romana, un altro che si ispira a Morandi, per poi passare ad assorbire la lezione di Picasso e infine trovare la sua strada all’inizio degli anni Cinquanta, col passaggio all’arte astratta e alle sue “impronte”) e anche la sua letterarietà: il Giornale di pittura, il ‘diario di lavoro’ che Toti inizia a scrivere nel ‘53, è allo stesso tempo una testimonianza sulla vita artistica dell’epoca e — lo ha ricordato bene Gillo Dorfles — un “documento poetico”. Solo dopo una compagna di studi mi ha raccontato che da piccola le leggevano le poesie di Scialoja; l’idea che un pittore scrivesse poesie e le illustrasse mi ha subito affascinata, come  mi ha colpita il fatto che la casa-biblioteca di Scialoja fosse a Roma, ancora intatta. Da qui è nata la curiosità che ha dato inizio alle ricerche di cui parlavo prima...

Alberto Savinio
LB: Credo si possano ravvisare delle alterne vicende nella sua storia editoriale e critica. Pensi tuttavia che il futuro sia dei Scialoja? Voglio chiedere, al di là della battuta, se credi che ci sarà sempre più spazio e attenzione per figure così irriducibili, poco "pure", come il nostro poeta-pittore.
R: Senza dubbio la complessità della sua poesia è stata poco apprezzata a livello editoriale; i confini (tra poesia per adulti e poesia per l’infanzia, tra libro per bambini e libro “d’artista”) sono ancora oggi molto rigidi, e Scialoja sembra nato apposta per metterli in discussione: non è un secondo Rodari, i suoi nonsense non hanno morale, ed usano un linguaggio musicale e arduo insieme… Una figura straordinaria e non catalogabile, dunque poco valorizzata. Ma sono ottimista verso gli “impuri”, credo che la loro irriducibilità abbia molto da dirci ancora oggi: pensa ad Alberto Savinio, e al bellissimo lavoro di riscoperta/restauro dei testi portato avanti negli ultimi anni… Certo sono autori difficili da studiare: la pienezza dei loro interessi costringe l’interprete a muoversi attraverso campi non sempre battuti. Ma è proprio in quest’indisciplina (saper mettere insieme saperi diversi, oltre gli steccati tradizionali; fornire uno sguardo lucido ma non cinico sulla società, senza risparmiarsi un’analisi schietta del proprio lavoro e delle pressioni cui si è sottoposti in prima persona in quanto artisti-intellettuali: penso ai nomi fatti sopra, ma anche a Fortini) che sta il loro valore. E nel riscoprire i loro percorsi intellettuali spesso ci si trova anche a riflettere sulla specificità delle oggi tanto bistrattate discipline umanistiche.

LB: In una parte del libro, secondo me molto interessante, scrivi del rapporto di Scialoja con Mino Maccari e della collaborazione alla rivista "Il Selvaggio". Potresti ripercorrere le principali mosse di questo frangente del tuo studio?
R: Quando inizia a collaborare a “Il Selvaggio”, nel 1940, Scialoja è un ragazzo ancora indeciso tra le strade della letteratura e della grafica, della pittura. È stato interessante scoprire come la rivista diretta da Mino Maccari fosse per lui una specie di laboratorio letterario, un’arena da percorrere in direzioni diverse: su quelle pagine — spesso percorse dalle bellissime incisioni del direttore-fondatore — Toti pubblica prose poetiche dai toni malinconici, recensioni di mostre, ritratti critici di amici pittori, e i suoi primi disegni… Sono poi rimasta incuriosita da alcuni versi satirici, non firmati, che apparivano in coda ad un suo articolo del 1941. A chi appartenevano? In un primo momento pensavo si trattasse di Toti, ma lo stile ed altri dati esterni hanno portato invece ad attribuire le poesie a Maccari. E un confronto tra questi versi ed altri ‘scherzi’ e vignette pubblicati da Scialoja in quegli stessi anni hanno rivelato due diverse posture, stilistiche e gnoseologiche: se Maccari dà vita a un tipo di satira molto spiccia e ‘locale’, Scialoja spezza la gabbia etica e fono-simbolica dell’Italia fascista, nascondendo una realtà drammatica sotto segni e disegni solo apparentemente giocosi.

LB: Nella tua ricerca c'è qualcosa che ti ha sorpreso? Quel che vorrei chiederti ora è se il processo di ricerca ti ha portato anche ad affrontare degli elementi che ti hanno sorpreso, turbato, depistato o altro, comunque assai lontani da certe idee "iniziali" che ribollono quando si intraprende un ritratto del genere. 
R: Certo, è stato un processo pieno di sorprese. Mi ha colpito sopratutto scoprire un primo Scialoja molto diverso — mi riferisco in particolare al suo stile degli esordi, con i racconti, finora dispersi, pubblicati a metà anni Trenta: sono pezzi immaginifici, ma anche molto letterari e ardui da cogliere a una prima lettura — da quello dei nonsense; per arrivare a quella sprezzatura ha dovuto percorrere un via fatta di molti ostacoli. La semplicità delle sue poesie è solo apparente, come pure la loro natura di divertissement: il nonsense è un talismano, un modo di dire l’indicibile nascondendolo, polverizzandolo… Forse è anche per questo che tra i versi ritroviamo echi, parodici e non, di una tradizione letteraria che va da Dante a Montale al “nonsense metafisico” di Eliot.
Un simile discorso va fatto per i disegni. Nel libro paragono per la prima volta le illustrazioni dell’inedito Tre per un topo, il quaderno disegnato da Scialoja per i nipoti nel 1969, con quelle poi pubblicate nei libri degli anni Settanta: ne vengono fuori delle varianti grafiche d’ incredibile finezza, molto significative per capire in che modo Scialoja intendesse il rapporto tra testo e immagine. Alla fine, sono rimasta sorpresa nello scoprire come una continuità tra i racconti degli esordi e la sua produzione poetica successiva al nonsense. Il confine tra leggerezza e serietà, tra gioco e tensione morale del gesto artistico in Scialoja è molto più sfumato di quanto pensassi all’inizio.

LB: Vivi negli Stati Uniti. Cosa ci puoi raccontare di Scialoja letto e visto da lì? 
R: Negli Stati Uniti il ricordo di Scialoja pittore resta vivo grazie all’azione di ponte e filo conduttore tra due culture e scene artistiche che lui e la compagna Gabriella Drudi (una figura da riscoprire: scrittrice e critica d’arte, fu autrice della prima monografia italiana dedicata a Robert Motherwell) hanno esercitato per decenni. C’è ancora molto da fare però, soprattutto sul versante della poesia: spero che la monografia contribuisca a far conoscere la sua opera anche oltreoceano.

LB: Potresti scegliere una poesia e un'opera pittorica di Scialoja come saluto? Grazie. 
R: Grazie a te! Il quadro si chiama Impronta bianca su sabbia (1959), ora al Guggenheim di Venezia.

Toti Scialoja, Impronta bianca su sabbia (1959)
Tra le mie poesie preferite c’è invece quella del dromedario:

Quando il tetro dromedario
giunse dietro al tetraedro
alzò gli occhi e disse: «Diamine!
Son davanti a una piramide!».


domenica 1 febbraio 2015

"Tramonto di un cuore" di Stefan Zweig

In altri tempi un Klimt in copertina mi sarebbe bastato a mettere definitivamente fuori combattimento un libro così, visto in libreria. Stavolta però è Stefan Zweig (e sto un po' passando un periodo-Zweig) e poi c'è la curiosità per questa collana storica di Garzanti, "i grandi libri / Novecento", che oltre ad aver cambiato grafica ha cambiato completamente registro, quasi abolendo quegli approfonditi e dettagliatissimi apparati critici iniziali e adottando anche un'impaginazione nuova, che premia la leggibilità, con un dimensionamento della font a volte notevole e non comune nei libri tascabili. In questa collana sono usciti molti titoli di Zweig (Ventiquattr'ore nella vita di una donna, Il mondo di ieri, Sovvertimento dei sensi, Novella degli scacchi, Lettera di una sconosciuta), libri assai brevi in più casi, fra l'altro. Tramonto di un cuore (pp. 72 euro 7, traduzione di Berta Burgio Ahrens) ha un incipit che vale molto di più della sua ammiccante ma in fondo fuorviante copertina, un incipit che è la sua vera copertina.  Altro fatto abbastanza stupefacente, in questo nuovo corso della collana "i grandi libri", è la ragazza con l'orecchino di perla e il turbante di Vermeer in copertina della Mirra di Alfieri. Naturalmente il punto non è affatto Vermeer, intendo piuttosto dire che ci vorrebbe un briciolo di pensiero prima di abusare delle immagini. Il rimando che si crea (o si vorrebbe creare) non è sempre significativo, e il rischio è solo quello di provare ad avvicinare testi (magari "ostili") e pubblico attingendo meccanicamente al serbatoio iconografico di artisti noti e plurisaccheggiati. (La logica sembra quasi pubblicitaria, se non fosse che a volte i pubblicitari si sforzano di più.) Forse ci vorrebbe una patente e un codice deontologico anche per i progettisti grafici (in un certo senso i progettisti migliori ce li hanno già, incorporati). Dicevo dell'incipit, e lo riporto qui sotto:


E che cosa può succedere dopo un tale incipit, in un breve racconto ambientato durante la villeggiatura della famiglia Salomonsohn a Gardone, sul lago di Garda? Troppo breve il libro per star qui a raccontare e il risvolto di copertina si può benissimo leggere nel sito dell'editore Garzanti. Basti dire che il tarchiato signor Salomonsohn, una vita per il lavoro di agente di commercio con in campionari sempre al seguito, una notte di quella villeggiatura, a causa dell'insonnia, scopre la figlia diciannovenne rientrare tardissimo nella sua stanza. Da qui parte il suo vortice di pensieri, il suo improvviso cambio di umore, il tramonto del cuore del titolo, anche.