mercoledì 8 aprile 2015

"Favole del morire" di Giulio Mozzi, narrazione e danza macabra

Mi pare che Favole del morire di Giulio Mozzi, libro composito da poco pubblicato dall'editore Laurana nella collana Rimmel (pp. 156, euro 14, postfazione di Lorenzo Marchese), intersechi da vari punti i temi che sono più cari all'autore, non limitandosi a quelli letterari. Se volessimo compiere una sommaria indagine sui titoli di Mozzi potremmo scoprire che una riflessione sul morire riaffiora già ne Il culto dei morti nell'Italia contemporanea (Einaudi, 2000) ma pure in uno scritto intermedio, instant-book a suo modo, pubblicato da Transeuropa nel 2009 con il titolo Corpo morto e corpo vivo. Eluana Englaro e Silvio Berlusconi. Se vogliamo tenere per buona l'idea che queste favole siano "pezzi", come scrive l'autore, mi pare siano anche forme disparate che convergono e si incastrano in un quadro di cui restano ben calcati e visibili i profili differenti, come avviene se in un puzzle osserviamo anche le forme e i bordi dei singoli pezzi. In tutto ciò riusciamo comunque a cogliere l'unitarietà di un'immagine una volta conclusa la lettura. 

Partiamo dai temi letterari. Due sono già enunciati nel titolo: da un lato abbiamo le favole, ovvero componimenti che solitamente prevedono la presenza di animali. Si prenda e si parta proprio da "La stanza degli animali", racconto che apre il volume (già uscito in solitaria per un'interessante collana di :duepunti edizioni denominata Zoo) e dall'altro troviamo circonvoluzioni di pensieri (barocchi, macabri, ossessivi?) sul morire, e non sulla morte. Leggendo qualcuno di questi pezzi ho quasi ravvisato il tentativo di verificare la tenuta di un solco "morale" delle nostre lettere e la forma dialogica in cui spesso Mozzi si cala conferma - o quantomeno lascia aperta - questa ipotesi. Se così fosse, sarebbe interessante indagare sulla vena secca del moralismo italiano, il quale non ha trovato interpreti duraturi dopo Parini e Leopardi. Scrivo questo come puro spunto.

Non meno densi, a mio avviso, sono i temi extraletterari (o metaletterari) che Mozzi affronta in altri contesti e che pure quest'ultimo libro investe, riflessioni probabilmente sedimentate anche nella sua professione nell'ambito editoriale: la caducità dell'opera e di ogni opera ad esempio, il carattere di servitù esistente tra autore e opera e persino la volontà di curiosare e gettare uno sguardo sulla scarsa fortuna della forma breve e del racconto in Italia, una distanza di scrittura che Mozzi ha praticato sin dall'esordio. Partendo da quest'ultimo ci chiediamo: perché il racconto non gode di molta fortuna da noi? Semplicemente perché non abbiamo avuto gli Hemingway e i Carver? Mica ci sono solo loro e si dica chiaramente che questa prosa di Mozzi è felicemente lontana da una grande piega-piaga americana che ha rattrappito troppa nostra narrativa, in maniera più forte da quando minimum fax è diventata anche una moda, oltre ad essere una sigla editoriale che pure ha pubblicato libri interessanti. Nella nota introduttiva Mozzi afferma di non essere più in grado di scrivere in modo "normale" e quest'interessantissimo inciso, più che convincerci che esista un modo "normale" di scrivere e che sia giusto in qualche modo perseguirlo e coltivarlo, ci muove a interrogarci se può invece continuare ad esistere oggi un modo ritenuto normale di scrivere un romanzo o un racconto e, in fin dei conti, un libro. Si tratta di un discorso che si apre giustamente alle forme e per questa via tale discorso si salda con la caducità dell'opera cui accennavo: se tutto è caduco e tutto passa in fretta, il ragionamento che ne consegue è che l'immortalità o la tenuta dell'opera (il canone?) non ci riguarda poi tanto e che la narrazione, assieme a tutto quello che scriviamo e quello che chiamiamo letteratura, non ci può che interessare oggi.
(La professione di Mozzi - sia detto per inciso - non può che metterlo quotidianamente davanti all'obsolescenza programmata di ogni opera, alle famose sei settimane che di media vengono concesse a un libro per raggiungere il pareggio e il "pezzo" di questo libro con protagonista un Emilio Salgari pronto al suicidio è ulteriore riprova della costanza di questa riflessione metaletteraria e metaeditoriale.)

Favole del morire è dunque un libro mosso e smosso. Non può che essere così, visto che del morire nulla sappiamo, anche se possiamo pensarlo, parlarne, scriverne. Anche quando affronta un tema eterno e onnipresente come quello della (mancata) sepoltura, in "Novella con fantasma", questo libro non cerca scorciatoie nell'atto del pensiero. La forma dialogica è pertanto congeniale, sia dove è manifesta già a livello tipografico sia dove è più velata, proprio perché non consente alcuna scorciatoia e mantiene la tensione. Noi viviamo dimenticando spesso il morire. Non dico che non ci pensiamo. Possiamo pensarci tanto o poco, non ha importanza quando o dove ci pensiamo. Quando però ci avvolge quel pensiero di non essere più, quel memento mori che può prendere in istanti assai diversi fra loro, tutti forse avvertiamo un tenue mancamento, un morso all'incontrario, una svista sul vivere, e allora credo ci percorra tutti quel desiderio elettrico di interrogarsi sul finire e sulla finitudine. C'è inoltre una forte componente iconografica e iconologica, direi quasi ripiana, e non solo nei paratesti del libro, e tale serbatoio di immagini giunge all'opera di Mozzi come appiglio di pensiero. In "Ottobre 1986", un bellissimo racconto di Gian Mario Villalta contenuto in Un dolore riconoscente, un testo che è in sostanza una lettera indirizzata una donna solo intravista su un terrazzo, ad un certo punto si legge: "Se non siamo più in grado di pensare niente della morte, allora quello che pensiamo della vita è niente, allora anche la vita è niente". Forse, provvedendo a sostituire "morte" e "vita" con le parole "morire" e "vivere", riusciamo a intravedere le molteplici spinte dei sette pezzi che compongono questo libro, i loro diversi ma convergenti moventi e movimenti di odierna danse macabre.

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