venerdì 29 maggio 2015

"Gli eroi sono gli eroi" di Mariagiorgia Ulbar

La poesia non vede oltre, sebbene possa trasportarci col suo metro a misurare cose nuove, oppure le cose che accalcano tutti i giorni. E comunque l'oltre, inteso alla stregua di conoscenza e di esplorazione rinnovata e non come trascendenza, qualora lo raggiungessimo, non sarebbe in grado di confermarci alcunché: rimarremmo comunque in una troposfera aeriforme, in contatto con la superficie terracquea, all'interno di un campo magnetico sotto il firmamento e in compagnia della nostra mente e delle sue illusioni. La poesia allora vede piuttosto nell'immanenza del limite e vede anche le stesse cose (ad esempio: statuette di eroi, mare, rovine, vestiti, sole, animali, rotaie, tavolini, duelli, tovaglie dei picnic sulle necropoli, città nominate o innominate) dopo del tempo grazie a un cervello atemporale. Soltanto così è capace di trascinarci in uno spazio che non confermerà nulla, ma che rassomiglierà a una placca che trema fra i mari, ricordandoci del sisma perenne sul quale camminiamo ("E tutto il mio, il tuo, il nostro insieme, / tutto anche dei paesi l'insoluto / poco prima che inizi l'esplosione / è finito in un terremoto che ho sognato."). Se impariamo qualcosa allora lo dobbiamo forse all'esser arrivati lì, non senza metodo, a esplorare e verificare questo sciame sismico coi piedi ed è da lì che può arrivare la poesia, per chi la scrive e anche per chi la ricerca.

Non sta scritto da nessuna parte che ci sia prosecuzione o antecedente in testi poetici che si manifestano nel loro essere sospesi o quasi appesi a un vulnus mai nominato; semmai vi è persecuzione del testo, perpetrata su un autore servo della propria opera. E non è neanche detto che vi sia il solito trauma da raccontare oppure l'assenza di trauma (questa seconda più in voga negli ultimi anni), entrambe categorie che a mio avviso si stanno svuotando via via di qualsiasi potenzialità ermeneutica o ipotesi euristica, sia a livello letterario ma forse anche a quello storico, urbanistico, antropologico o psichico. Non sto dicendo che trauma o non-trauma non siano più pertinenti all'umano, sto dubitando che attraverso la loro lente sia possibile cavare altri ragni dal buco (quando scrivo questo mi vengono in mente i saggi contenuti ne L'uomo come fine di Moravia). Non è neanche detto che vi sia qualcosa di nuovo da dire o fare ("Un filo rosso manca che unisca me al resto: / traduco le stesse storie di sempre / le mie, le tue dei popoli estinti / quelle dei rimanenti / il filo sta sottoterra, scorrente."). Anzi è quasi impossibile che una qualche situazione di novità si verifichi qui dove "è tutto un simbolo"; sosteneva Borges che in letteratura ​ci sono appena quattro storie da raccontare: 1) una historia de amor entre dos personas 2) una historia de amor entre tres personas 3) la lucha por el poder 4) un viaje. E così è anche ne Gli eroi sono gli eroi di Mariagiorgia Ulbar (Marcos y Marcos, pp. 105, euro 15), libro da dove provengono gli estratti citati e per il quale potremmo spendere subito l'elemento del viaggio, poiché queste poesie esistono come e se in viaggio (gli als-ob di Vaihinger): "Catturai figure in giro, ombre e grate / di balconi, il pulviscolo alle tre post-meridiane / i bambini di Palermo guerci al sole. [...]".

Il viatico del viandante è un balsamo in tutto il libro, persino un'incognita, come nella poesia dedicata a Venezia e al collegio armeno: "[...] Al collegio di Venezia a colazione / l'ombra non basta, non arriva sulle teste / noi discutiamo al rumore delle imposte / se non serva studiare l'alfabeto / prima di andare fino a laggiù insieme / mettere in un sacchetto il nostro oro / se dovesse servirci all'improvviso / per mangiare, lasciare un posto troppo buio, / salvarti da qualcuno, passare le frontiere nottetempo / fare uno scambio: un mio anello, un mio ricordo / per una indicazione e acqua fredda in cambio." Era questo un aspetto preponderante anche in Su pietre tagliate e smosse - gruppo di testi apparsi nel 2012 in Poesia contemporanea. Undicesimo quaderno italiano sempre di Marcos y Marcos e qui parzialmente confluito - ma è una conferma che arriva come gibigianna già nella prima sezione, che quasi smorza il viaggio titolando più semplicemente Gita sul confine, e poi anche nelle sezioni La cercatrice e nella finale Piccola suite per Gengis Khan. Colpisce la sarabanda di tempi verbali, che in una manciata di versi si sposta anche violentemente tra i passati: spesso è quello remoto intervallato all'imperfetto o al passato prossimo, a un passaggio repentino al presente o futuro. Altre volte v'è la comparsa di uno stile nominale che s'innesta in gruppi di versi ("Su un quadrato di prato quattro pini / quattro pieni e in mezzo pezzi d'aria / con la luce. Due giorni a settimana / oltre i confini dell'umbratile fantasma. [...]" o versi isolati e incastonati ("Una scena di ferro e bosco marginale."). Giochi con la lingua latina ("un'hora heri" ma anche "Nel luogo dei pini d'Aleppo e dei fratìni / un orto in sé concluso dove verde / è verde sempre scuro [...]" che non può che portarci all'hortus conclusus), inversioni, ripetizioni ("Anche oggi è mattina anche oggi / e io mi butto verso il mare."), ripetizioni di stesse parole con funzioni diverse di preposizione/aggettivo ("Se almeno ci avessero sgozzato gli indiani / lungo il tragitto lungo e tentennante [...]"), figure etimologiche ("ma il morso morde a vuoto"), un gran campionario di rime (spesso povere, ma anche eccedenti, come in parte noterete dagli esempi) traducono quello sciame di cui si diceva in apertura fino a slabbrare il tempo, i bordi e i ritmi di questi versi in cui la vita è coagulata in "[...] un composto denso / di scure bibite / e celesti instabili striature.". Sono frequenti le prime persone, sia singolari che plurali. Io e noi sono le persone più ricorrenti, sottintese ma anche esplicitate. Più rare le occorrenze di seconde o terze persone singolari e plurali, che però riaffiorano proprio nella già citata sezione finale Piccola suite per Gengis Khan. Questo accade perché la storia che lega questi testi, quasi sempre privi di titolo, non sembra nascere da un intento di comunicazione dialogica. Insomma, è una poesia che si fida sfrontatamente dell'io e del noi, a dispetto di tutte le elucubrazioni che sono state costruite attorno a queste particelle pronominali ritenute pulciose ed è anche - aggiungo - una poesia di cui ci possiamo fidare proprio per lo stesso motivo. Non ha importanza quale maschera indossi, quale rappresentazione o finzione si celi, giusto per stare ai come-se o als-ob menzionati in apertura, quale proiezione si instauri in chi racconta qui di viaggi, reali o immaginari, attingendo a un registro multilinguistico; interessa di più questo tentativo di ricondurre la poesia in un solco epico del quale non possiamo esserci dimenticati per sempre. Si prendano ad esempio gli "eroi" del titolo, quasi un controcanto al Poema senza eroe della Achmatova. Questi provengono da un passaggio della poesia proemiale che, nella sua circolare e ovvia tautologia, s'accompagna ad animali e angeli: "Animali vagano in silenzio nel cortile; / andandomene prenderò le statuette / degli eroi. Gli eroi sono gli eroi, / anche se pesano nelle tasche io li prendo. / Intanto l’angelo inizia il volo sopra il tetto / io vado via, perché lo so tremendo." 

La guerra mondiale è una corta sezione di nove brevissimi testi, quasi un raccordo tra il corpo iniziale e la parte più innovativa costituita dal poemetto di cui si dirà tra poco. Versi come "[...] e a noi è mancata una guerra / mondiale, ti ho detto all’improvviso." sembrerebbero avvalorare le tesi di chi vorrebbe porre l'assenza di trauma come centrale anche nell'interpretazione di questo libro. Eppure la sezione titola effettivamente La guerra mondiale e non allude a mancanze di questa, anzi, e il testo conclusivo inscena un'esecuzione dove si enumera ciò che va salvato, per concludere infine "Salvare soltanto il mare." Prima ancora avevamo letto "Ero una cercatrice di disturbi / io cercavo l'oro dei difficili". La scansione del libro sembra ergersi quindi sopra un mistero, da non rivelare, ma da percorrere spinti da una varianza di tempi verbali che imprime qualcosa di simile a un'accelerazione centripeta, attorno a un nucleo durissimo che resta impenetrabile e che tuttavia scotta e brucia nei suoi chiari. Solo nel poemetto Mio padre era un re (da un verso di Der Sohn di Rilke) avviene un parziale scoperchiamento, una minima rivelazione su quel mistero e quel vulnus già ricordato poco fa. Qui, per tornare a Borges, potremmo recuperare l'idea di un testo che ci parla di un amore tra due persone, padre e figlia, e del morire di lui, la rielaborazione di quel vissuto a distanza di tempo dal verificarsi di un evento capitale per la psiche: una persona non è più lì e non è nemmeno altrove. Sulla pagina, in posizione di incipit, resta allora un "io" separato dal suo verbo con una virgola: "Io, passerò in mezzo alla strada, / si è fatta l’ora, ormai è avanti luglio / e ho espletato tutte le incombenze / e adesso resta solo da narrare. [...]". Eppure anche in questo caso non scomoderei la categoria del trauma, non è necessario. Parlerei piuttosto del tentativo di rendere e adattarsi a un mutamento fondamentale. E se è vero che la voce è quella membrana che sta tra l'animula, vagula e blandula che sia, e il corpo, qui il suono emesso aspira tutto, lingue, ricordi, paesaggio, altri suoni, le tradizioni letterarie e le stagioni in un'accumulazione che incalza e sorprende: "Di metodo ho bisogno per passare, / di metodo di ordine, così invoco: / formiche, maestre elementari, uccelli in stormi, / di Gengis Khan gli eserciti e dei Cesari, / invoco le tedesche ferrovie, le poste di Germania, / la matematica, il latino, / le lingue antiche europee e le orientali, / del pianoforte lo studio, di terracotta l’armata, / invoco le proiezioni ortogonali / e la forma del quadrato, la forma del quadrato / una volta più del cerchio / e la radice che vince sul pi greco. [...]". Tutto ciò si svolge in una estate catastrofica, nel momento in cui le cose accadono o non accadono (è un libro fortemente estivo questo, di una sfatta controra), un momento che occupa uno spazio preciso "perché io gli anni vidi sempre / divisi malamente in due: / il lungo e alto arco che prendeva / da settembre fino a maggio e poi / il retto segmento dei restanti mesi tre / fulmineo fulminante dentro il caldo / profondo e dentro il secco / incontrarsi morte a morte con il cosmo."

Una geografia segnatamente italiana, con rimandi all'Armenia, all'Austria-Ungheria o alla Mongolia, alla Fossa delle Marianne o a Finisterre, fissa alcuni punti nominabili nei quali il tempo e il pensiero che l'accompagna si schiantano appena un attimo prima di dilagare. Ed è la realtà sincronica della memoria che necessita di agganciare questi punti di un'ipotetica mappa o leggenda, laddove si possa creare quel limbo tra il vento di una mente "tenera" e la diacronia (e cronaca) degli eventi: Ancona e la sua raffineria, Trieste e il suo orizzonte ("perché è tempo / di fuoco incrociato all’orizzonte / e noi abbiamo confuso / uomini con panchine."), le già ricordate Venezia con l'Armenia, Roma e il suo cimitero inglese, Pescara e i bar bollenti, il Gran Sasso e la sua vetta orientale con altri luoghi e fiumi dell'Abruzzo settentrionale, Palermo (manca Bologna, o per lo meno non è nominata, pur essendo stata a lungo luogo di residenza). Sono posti di una qualche pace, forse, dove si sta bene come in un luogo "non narrato", posti da dove la mente si può anche sganciare. In fondo ci persuade leggere un passaggio ctonio come "Il futuro è sotto terra / grotta, caverna, forra, / gola, orrido, dolina." Gli eroi sono gli eroi è anche questo, un libro che si espande, proprio come le macchie su una superficie assorbente o come una galassia in un universo di senso primordiale e forse già postumo. È scritto come dai margini di un viaggio, da posizioni di estremità dunque, passeggia in prossimità di un abisso, di un horror vacui o di una conflagrazione, simile all'esplosione del verso conclusivo del poemetto Mio padre era un re, il più lungo di tutti, un chiasmo eccedente, affannato e ancora una volta estivo: "estrema luce bianca dentro bianca luminosa estrema estate".

martedì 26 maggio 2015

Poesie inedite di Alessandra Conte



"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare.


SGEMBA/PARTITURE. TRE TARANTELLE, poesie inedite di Alessandra Conte (Arzignano - Vicenza, 1978)

non compare, non compare quella
la parola inutile la minestra nel piatto
tutto naso sotto agli occhi, tonda per specchiarsi
come le candide culatte gialle, luna doppia in simmetria
«scappa, scappa!» via, gambe levate testa sul collo
lo zampino della gatta portachiavi «al largo!»
ce lo lascio io, lì, il senno, che poi non serve


*


non correggo, non correggo tutto quello che so a memoria
sfogo l’ego mundi di parole opere omissioni,  cit.
vedi cit.
segui il nastro, «CHI TI PARLA È DIO»; «io mio!» e parlo da sola
sul fiato sull’eco nera impressa in bianco - saltimbanco
di un dottore mi leggi dentro mentre io mi parlo -
«grandissimo, grandissimo curatore nell’arte di impostura»



*

se Picasso se Picasso non poteva esser più che un picasso
e solo guerniche pittare, allora c’è una città galleggiante
sulle acque del lago, e Alice: una galleria di freaks,
la regina del palazzo sott’acqua «NON VERBIS SED REBUS»
si soccombe per opporsi, piccola mosca».
«quando ero tanto felice, non avevo niente
da dire» dice - la barca sul naviglio


sabato 23 maggio 2015

Tradurre in italiano Don DeLillo, Nick Laird, James Graham Ballard e molti altri. Intervista a Federica Aceto

Librobreve intervista #56

Chi di voi non ha mai captato e registrato il suo nome potrà far un salto qui e, con un colpo d'occhio assai rapido, scorrere la lista di libri che Federica Aceto ha tradotto in italiano. Sono molti e scommetto che qualcuno l'avete letto. Tra questi poi ritroverete titoli famosi di Don DeLillo, Ali Smith, Nick Laird, James Graham Ballard, Martin Amis o Alison Louise Kennedy. Di recente il nome di Federica Aceto si è sentito anche in seguito alle discussioni che hanno scoperchiato le situazioni di insolvenza di una parte dell'editoria nazionale. Ma qui Federica Aceto ha accettato di rispondere ad alcune domande sulla traduzione, sui miti già sfatati e quelli ancora da sfatare, su alcuni libri tradotti. Certo, non manca la domanda cosiddetta d'attualità. Il legame tra traduttori e case editrici in fondo è importante, così come quello tra case editrici e altre persone che orbitano attorno a queste con il proprio lavoro. Buona lettura.

LB: Vorrei iniziare con lo sfatare dei luoghi comuni o baggianate che si leggono sulla traduzione letteraria; da quel che ho letto nel tuo blog mi pare che tu abbia il carattere giusto per accogliere una simile richiesta. Ne potresti scegliere due?
R: Luoghi comuni e baggianate se ne sentono e se ne leggono su qualsiasi professione. Siamo sempre bravissimi a fare i lavori degli altri e siamo tutti CT della Nazionale. Ma forse è anche un po’ responsabilità di ognuno di noi far conoscere agli altri il nostro lavoro e sfatare alcune credenze sbagliate. C’è chi crede che siamo dipendenti di una casa editrice, o che basti conoscere discretamente una lingua straniera per poter tradurre un libro. Se poi intendi le baggianate che noi stessi perpetuiamo, ce ne sono tante, ma quella che mi sento di sfatare ora è quella della solitudine del traduttore: sì, lavoriamo da soli davanti a un computer, ma c’è anche molta solidarietà. Le invidie, le meschinità, l’incapacità di lavorare insieme per il bene comune ci sono come in tutti i settori, ma c’è anche molto senso etico, consapevolezza, maturità.
Poi si potrebbe parlare dei concetti di invisibilità e fedeltà, ma quelli sono miti sfatati già da tempo, ormai.

LB: Ora vorrei proseguire chiedendoti un paio di cose che raramente si ha il coraggio di ammettere, almeno fra traduttori, quelle cose inconfessabili che però più o meno tutti sanno.
Ognuno ha i suoi piccoli segreti: accettare tariffe basse per paura di uscire dal giro, lavori fatti male e in fretta, pesanti ritardi nella consegna, autolesionistica complicità con gli editori nella ripartizione dei finanziamenti alle traduzioni. E, di nuovo, l’assenza di un confronto non fa che ingrandire queste “colpe” facendoci sentire ancora più soli: è importante sentirsi liberi di parlare apertamente anche dei propri errori. Tutti ne facciamo. Tutti possiamo migliorare e prendere coscienza.

LB: Un libro tradotto che più ha lasciato il segno, anche e soprattutto come lettrice?
R: Ce ne sono due che ho amato moltissimo. Uno è Magic Kingdom, di Stanley Elkin, uscito per minimum fax nel 2005. E l’altro deve ancora uscire, per Bollati Boringhieri; si tratta di A Manual for Cleaning Women, di Lucia Berlin. Sono due libri molto diversi per tematiche, lingua e struttura, ma pieni di una sincerità disarmante, di quelle cose che quando le leggi continui a fare di sì con la testa da solo.

LB: Non ho mai fatto questa precisa domanda ad altri traduttori qui intervistati. Qual è stata la tua formazione? Cosa toglieresti e cosa aggiungeresti?
R: La formazione è un processo continuo e si fa sul campo: tradurre libri è un lavoro che si impara facendolo. La teoria serve a preparare meglio il terreno, ma alla fine ci vuole soprattutto tanta pratica vera. Per quanto mi riguarda, momenti chiave della mia formazione sono stati il fatto di vivere tanti anni in un paese dove si parla la lingua dalla quale traduco, l’esperienza, seppure brevissima (uno stage di tre mesi) nella redazione di minimum fax, e il confronto continuo con altri traduttori.

LB: Sempre nel tuo bel blog (raggiungibile qui), dove chiunque può farsi un'idea di quante e quali opere tu abbia tradotto, affronti davvero le tante sfaccettature di questo mestiere. Che cosa ti ha portato a creare questo spazio? È stato utile e, se sì, in qual modo?
R: Ho aperto questo blog un anno fa soprattutto per il bisogno di rallentare e articolare meglio certi ragionamenti che faccio tra me e me quando lavoro. Lavorando da soli, con tempi di consegna incalzanti, non abbiamo spesso modo di riflettere con calma, di mettere in parole certi meccanismi e ragionamenti che ci sono dietro le nostre scelte. Il blog è nato quindi soprattutto per un bisogno di chiarire meglio a me stessa certe cose e anche per confrontarmi con i miei colleghi o chiunque sia interessato alla traduzione. Ogni volta che pubblico un post infatti, ho sempre dei riscontri interessanti, anche se purtroppo avvengono più su Facebook che nella sezione dei commenti del blog, dove avrebbero una vita meno effimera. Ma non mi lamento, sono spunti comunque molto utili che mi arricchiscono.

LB: Su Twitter (e immagino anche su Facebook) è partito finalmente un tamtam per provare a portare alla ribalta il problema degli editori che non pagano. Si è letto un po' di tutto. Cosa vorresti aggiungere qui, avendo un po' più spazio di quello che ti consente un tweet o un altro breve post su un social network?
R: Questo genere di proteste pubbliche e pacifiche si rende necessario quando qualsiasi altro tentativo di comunicazione con il debitore (solleciti privati, ingiunzioni di pagamenti da parte del tribunale) fallisce. Non è solo una questione di soldi, ma anche di comunicazione. Se abbiamo parlato pubblicamente (e come abbiamo detto più volte non siamo stati i primi e di proteste pubbliche contro case editrici insolventi ce ne sono state diverse nel corso degli ultimi mesi) non è per desiderio di protagonismo o per mettere qualcuno alla gogna. Chi crede che sia così è libero di farlo, ma ragionare in questi termini è sterile e superficiale, è pura dietrologia. I fatti sono altri. I fatti sono i compensi non ricevuti, le e-mail e le ingiunzioni di pagamento ignorate, i finanziamenti alle traduzioni che non vengono usati per pagare i traduttori. I fatti sono la convinzione che il lavoro si possa pagare in visibilità. E tra i fatti c’è anche che nel nostro paese si legge poco, si comprano pochi libri e le politiche le campagne per promuovere la lettura sono deboli e fallimentari. C’è bisogno di nuove idee per affrontare questa crisi che non è solo economica, ma strutturale, è soprattutto una crisi di idee.

LB: Vorrei finire in bellezza. C'è un passaggio, un aforisma, un breve testo che secondo te meglio di altro dice di questo mestiere "vagolante" tra le lingue? Grazie.
R: Uno di Borges: l’originale è infedele alla traduzione.
Grazie a te.

giovedì 21 maggio 2015

Giorni rubati: Pier Paolo Pasolini letto e musicato lontano dall'Italia. Intervista a Teho Teardo

Librobreve intervista #55

A inizio aprile ho scritto a Teho Teardo mentre era in tour in Cina con Blixa Bargeld. L'idea di contattarlo mi era venuta girando in auto in Friuli in un giorno festivo di primavera, insomma da uno spunto geografico piuttosto banale (Teardo è di Pordenone) e poi anche dal ricordare un suo progetto con Erik Friedlander su Pasolini. Volevo appunto proporgli alcune domande su PPP. Visto che qui si parla di libri dico anche questo: al volante ripensavo anche a un professore di storia e filosofia avuto in quinta, un supplente più bravo di tanti altri insegnanti di ruolo avuti in quelle stesse materie. La sua occupazione principale era allenare una squadra di pallavoliste a livelli medio-alti e quando lo chiamavano faceva pure delle supplenze. Stava spiegando e a un certo punto si inceppò meravigliato a guardare fuori dalla finestra. Notò l'insegnante di educazione fisica - una bella signora che gettammo in piscina all'ultima lezione di nuoto, senza incappare in provvedimenti disciplinari, anzi - e soprattutto un cronometro a fotocellula che questa usava durante la lezione e che lui voleva assolutamente comprare per le pallavoliste. Ritornando a spiegare riprese il filo consigliando di leggere le Lettere luterane (un ottimo consiglio su Pasolini). Teho Teardo ha accettato l'idea di questa intervista senza troppe domande supplementari e lo ringrazio per le risposte. Sono contento di questo: prima ancora del suo sodalizio come autore di colonne sonore per molti film, tra cui quelli di Paolo Sorrentino, prima ancora delle sue numerose collaborazioni internazionali (i già citati Bargeld e Friedlander), prima ancora di recenti lavori per il teatro come il bellissimo Ballyturk per Enda Walsh, per me il suo lavoro di musicista è legato ai vinili dei Meathead di mio fratello, che giravano per casa a metà anni Novanta (gli stessi anni del professore allenatore-supplente). Sono abbastanza certo - cercherò di impormelo, se non altro - che la sua intervista sarà la sola cosa pasoliniana che ospiterà questo blog nel 2015, appositamente in largo anticipo sul quarantennale della morte.

LB: Ho deciso di fare un esperimento con te e ti ringrazio di aver accettato. In poche parole, anche a costo di una piccola forzatura, volevo trovare un modo per coinvolgerti in questo spazio, che perlopiù parla di libri e scrittori e mi è venuto così il collegamento con Pasolini, non solo per ragioni geografiche.  Che cosa ti va di dire, per incominciare?
R: Quali sarebbero le ragioni geografiche, forse il Friuli? Senza azzardare nessuna analogia con un artista come lui, al confronto mi sento un microbo, ma andrebbe ricordato che Pasolini è stato costretto a rifugiarsi lì per la guerra ed io per questioni di nascita e poi dalla gioventù. Lui è stato cacciato, io ho capito che era meglio andare altrove per seguire le mie passioni.

​LB: Come è cambiato Pasolini? Intendo chiederti se ci sono diversi Pasolini, quello che leggevi magari vent'anni fa e quello che avverti ora, rileggendolo o tornandoci sopra. A proposito, quali suoi scritti restano per te tra i più importanti?
R: Non ho più riletto i suoi romanzi, pur avendoli amati molto. Preferisco ritornare sulle sue poesie. La sostanza non cambia, siamo noi che possiamo giungere a conclusioni diverse sul lavoro altrui. Ma non mi pare interessante il nostro parere. E' l'ossessione generata da facebook dove tutto si risolve con un like, come se il nostro parere fosse sempre determinante ai fini della storia. A me piace stare ad ascoltare.

​LB: C'è un fronte (o più fronti) sul quale ti sembra sia stato travisato?
R: Non sta a me dirlo. Vedo proliferare opinioni e sciocchezze circa Pasolini. Lascerei la risposta a chi è davvero competente, il resto sono chiacchiere. Penso solo che sia inevitabile che i morti vengano riutilizzati per scopi spesso non nobili. Ma i morti sono morti e fa fede quel che sono stati, senza ulteriori rimaneggiamenti. Dovrebbe esser uno dei vantaggi della morte.

LB: E su quale altro versante ti sembra persista una coltre di polvere difficile da smuovere?
R: L'Italia è sotto metri cubi di polvere.

LB: Fra gli altri, hai collaborato con Erik Friedlander musicando alcune poesie di PPP. Come nacque quella collaborazione e quali attenzioni o precauzioni richiede il musicare poesie? Farai o rifarai qualcosa quest'anno o il 2015 è già sostanzialmente saturo?
R: Non ho alcuna intenzione di sfruttare il cadavere per le celebrazioni. Ho realizzato un album di poesie ispirate a Pasolini nel 2004, come vedi ben lontano dalle celebrazioni. Era un progetto che ho cercato di realizzare dal 1997. Ho anche chiesto una liberatoria alla famiglia di Pasolini per l'utilizzo delle sue poesie. Quando seppero che volevo lavorare con le traduzioni inglesi fatte da Ferlinghetti ebbi un rifiuto categorico. Qualche anno dopo, stavo camminando a Soho, in borsa avevo una edizione delle poesie tradotte da Ferlinghetti ed una bottiglia di vino rosso italiano. Ero diretto a casa di Erik Friedlander con il quale ho scritto Giorni Rubati, a New York. Volevo essere lontano da qualsiasi riferimento italiano per questo progetto. E così è stato. Nel disco ci sono anche due letture, una di Ferlinghetti stesso che ho incontrato ad Asolo. Ci siamo rifugiati nel camerino di un negozio di abbigliamento per registrare un paio di letture. L'altra è del mio amico Daniele Della Vedova.

LB: C'è per caso un suo film (o una sua opera) che ti piacerebbe musicare?
R: Ho fantasticato su un possibile intervento su La Ricotta, lo immaginavo come un film muto dove il suono avrebbe generato la musica. Va bene anche sognare perché il film è perfetto così e non ha certo bisogno del mio intervento. Sarebbe solo la proiezione del proprio ego.

LB: Credo che si possa dire che esista un filo che lega la tua musica alla scrittura, sia questa scrittura tout court o scrittura per il cinema. Vorrei chiederti se esiste una cosa che hai fatto tua frequentando gli scrittori e un aspetto importante per la tua ricerca musicale che hai fatto tuo frequentando i registi.
R: La musica è anche scrittura e montaggio, è un luogo dove letteratura e cinema possono dialogare. Tranne qualche raro e straordinario caso, sfortunatamente i pochi scrittori che ho conosciuto erano persone noiose, conducevano vite noiose ed i loro libri, anche quando erano scritti bene, risultavano noiosi. Ma sono ottimista per il futuro.

LB: Ci saluti scegliendo una poesia di Pasolini? Grazie.

Ciant da li ciampanis


Co la sera a si pièrt ta li fontanis
il me país al è colòur smarít.
Jo i soi lontàn, recuardi li so ranis,
la luna, il trist tintinulà dai gris.
A bat Rosari, pai pras al si scunís:
jo i soj muàrt al ciant da li ciampanis.
Forèst, al me dols svualà par il plan,
no ciapà pòura: jo i soj un spirt di amòur
che al so país al torna di lontàn.




(Qui la pagina Wikipedia di Teho Teardo e qui la biografia contenuta nel suo sito.)

martedì 19 maggio 2015

Prufrock's Party a "Bologna in Lettere 2015" sabato 30 maggio

Segnalo questa iniziativa a cui prenderò parte, assieme ad altri autori della casa editrice Prufrock spa:

Sabato 30 maggio ore 19:30
Cortile Cafè, Via Nazario Sauro 24/B - Bologna

PRUFROCK’S PARTY/1: 
SEI POESIE DA METTERE AL MURO
manifesto 50 x 70 cm con testi inediti di Andrea LorenzoniGiusi Montali, Alberto Cellotto, Roberta DuranteDaniele BellomiKlaus Miser

con Luca Rizzatello, Edizioni Prufrock spa 

(nell'ambito della rassegna "Bologna in Lettere 2015",
il cui programma completo si legge qui).


Andrea Lorenzoni 
Poeta e cantautore. Nato nel 1985, vive a Bologna. Autore del libro di poesie “Parlo dentro” (Edizioni Prufrock Spa, 2012) e leader della band Divanofobia con cui ha pubblicato l'album “I fantasmi baciali” (2013) . Fa parte del gruppo di poesia Lo spazio esposto.

Giusi Montali 
Nata a Carpi nel 1986. Nel 2011 si laurea in Italianistica presso l'Università di Bologna con una tesi su Amelia Rosselli. Nello stesso anno partecipa a diverse letture presso gallerie d'arte, librerie e locali e prende parte a diverse attività culturali di Bologna. Nel 2013 pubblica la raccolta Fotometria per le edizioni Prufrock spa ed entra nella Giuria del Premio letterario Anna Osti. Dal 2014 cura assieme a Luca Rizzatello la rassegna Precipitati e composti che intende promuovere l'iterazione tra composizione poetica e musicale. Collabora con Lo spazio esposto, archivio online di video-interviste a poeti contemporanei, e con la casa editrice Prufrock spa. Ha scritto articoli per il blog di letteratura Blanc de ta nuque. Attualmente sta svolgendo un Dottorato di Ricerca presso l'Università di Pavia in Filologia Moderna. Sue poesie sono pubblicate su 'Poetarum Silva' e 'Poesia 2.0'.

Roberta Durante 
Nata nel 1989 e vive a Treviso dove insegna e scrive per "La Tribuna". Ha pubblicato Girini (2012 edizioni d'if, Premio Mazzacurati-Russo, finalista Premio Montano), Club dei visionari (Edizioni Di Felice, menzione d'onore Premio Anna Osti) e Balena (Edizioni Prufrock Spa, Bologna) da cui è nata una sonorizzazione che insieme ad altre è fruibile su www.gabrielefrasca.it.

Daniele Bellomi 
Nato a Monza il 31 dicembre 1988. Si è laureato in Lettere Moderne nel 201 4 presso l’Università degli Studi di Milano e risiede nei recessi del blog/progetto plan de clivage. Suoi testi, online, su «GAMMM», «Nazione Indiana» e altri; in rivista, su «il verri» (n°50, 201 2) e «Trivio» (n°1 , 201 3). Vincitore del Premio Opera Prima 201 3, pubblica lo stesso anno il suo primo libro ripartizione della volta, co-edito da Anterem Edizioni e Cierre Grafica. Nel 2015 pubblica il libro Dove mente il fiume, edito da Edizioni Prufrock spa. Lavora a Milano e abita dove tutto è stato preso.

Klaus Miser
Lontananza dall'ambiente poetico mainstream e ricerca di permeabilità virale. Da circa un decennio le poesie di Klaus Miser si aggirano in circuiti inconsueti bar, gallerie, festival e circuiti indipendenti, con un centinaio di reading, spesso con artisti visivi o dj, dai queer party (PornFlakes, Degender...) alle radio, dagli slam poetry agli spazi occupati all' Historischer Kataster di Berlino. Nel Marzo di questo anno ha partecipato al Festival Scanner in reading con Carlo Bordini. Nello stesso mese, sue poesie sono state esposte al Cocoricò di Riccione. Sue righe sono apparse su numerose riviste digitali e non, come "Rivista di Critica Letteraria" e in "Paesaggio Italiano" Sossella Editore. Pubblicazioni: Kill Your Poet (Galleria FragileContinuo), PescaraBabylon, illustrato da MP5 (Isola) e in pubblicazione in maggio 2015 Non è un paese per poeti, Edizioni Prufrock spa.

lunedì 18 maggio 2015

Giulio Mozzi a Ca' dei Ricchi a Treviso per TRAversi



Venerdì 22 maggio 2015 alle ore 21
Ca' dei Ricchi, via Barberia 25, Treviso
Rassegna di poesia "TRAversi" - a cura di Marco Scarpa
con Giulio Mozzi

Questo il quarto e ultimo appuntamento della rassegna poetica intitolata "L'attesa" e curata da Marco Scarpa. Altre notizie su quanto avviene a Ca’ dei Ricchi si possono reperire sul sito trevisoricercaarte.org. Un altro appuntamento poetico, al di fuori di questa rassegna ma sempre negli spazi di Ca' dei Ricchi, è previsto per giovedì 18 giugno, quando avrà luogo la presentazione del progetto Nervi edizioni, come ricordato in questa intervista.

Giulio Mozzi (Padova, 1960). Ha lavorato presso la Federazione regionale dell'artigianato veneto e la Libreria internazionale Cortina di Padova; dal 1996 lavora come consulente editoriale (Sironi, Einaudi, ora Marsilio) e come insegnante di scrittura e narrazione (circolo Lanterna magica a Padova, Bottega di narrazione a Milano). Ha pubblicato sei libri di racconti, due di scritture in versi (Il culto dei morti nell’Italia contemporanea, Einaudi, 2000 e Dall’archivio, Nino Aragno Editore, 2013), un fortunato Ricettario di scrittura creativa, Zanichelli, e - recentemente - L'officina della parola, Sironi (entrambi in collaborazione con Stefano Brugnolo). L'ultimo suo lavoro è Favole del morire, pubblicato nel 2015 da Laurana. La foto qui sopra è presa da suo bollettino di letture e scritture vibrisse.

domenica 17 maggio 2015

"Dialogo con la morte" di Arthur Koestler

 Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #26

Le prime pagine di Dialogo con la morte di Arthur Koestler (il Mulino, pp. 248, euro 15,49, nella traduzione di Camillo Pellizzi, ancora disponibile) narrano dell'arrivo in Spagna, a Barcellona, e dello spostamento verso Malaga. Siamo all'inizio del 1937. Circa un anno prima, a febbraio, c'era stata la vittoria del Frente Popular e in estate era iniziata quella lunga, sterminata guerra civile che, una volta conclusa, lasciò posto a una della dittature più lunghe del Novecento. Proprio questa detta durata ha impedito per decenni un'efficace lettura e studio di quel conflitto. Nelle prime pagine le città appaiono già stremate e Koestler non tarda a individuare i punti deboli dei miliziani, il loro scoordinamento, finanche l'ingenuità tattica in alcuni avamposti sul terreno. Il testo fu originariamente pubblicato nel 1937 come seconda parte dello Spanish Testament e s'assomma alle grandi testimonianze su quella guerra che fu davvero fratricida, con divisioni tragiche anche tra persone vicinissime (paradigmatico, anche se mitigato, fu il caso dei fratelli Machado, con Manuel a sostegno degli insorti e Antonio dalla parte dei repubblicani). Il portare a casa la pelle in Spagna fu spesso imputabile a fatti del tutto casuali e fortuiti e Koestler non è da meno. Avanzando nella lettura notiamo che le pagine cambiano presto di segno per diventare un libro intimo, ripensamento di un'esperienza carceraria ancor vivida nella memoria. Ed è un libro che va a far coppia con un altro suo, sempre incentrato su una esperienza di prigionia, in Francia, quello Scum of the Earth che fu un'altra grande testimonianza sul biennio 1939-40, tra il campo di prigionia del Vernet e il vagabondaggio nella Francia della disfatta. (Un inciso di natura linguistica che è bene fare parlando di questo libro: Koestler, in linea generale, scrive spesso in tedesco prima del 1940 e in inglese dopo quell'anno, tuttavia questo Dialogo fa eccezione ed è stato scritto in inglese per depistare la censura tedesca.)

Sono le pagine di una persona imprigionata che non sa se sarà giustiziata e che inizia a percepire, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, attraverso spostamenti tra più carceri, la singolare situazione di prigioniero risparmiato dagli ingranaggi di una macchina di morte che appare potentissima e allucinante. E qui si apra ora una corta parentesi: della Spagna, neutrale in entrambe le guerre mondiali, si è spesso detto che fu il "banco di prova" o "preludio" della Seconda guerra mondiale. In effetti fu così, e basti pensare alla presenza in Spagna di tutte le altre potenze europee che pure erano occupate in giochi politico-diplomatici ancora aperti, all'operato di Italia e Germania che contribuirono più di altre nazioni all'internazionalizzazione di quella guerra, a quel che fecero gli artisti (pensiamo solo ai poeti, ad esempio, da García Lorca a Neruda, o all'Auden di Spain) e soprattutto agli attivissimi intellettuali, i quali tuttavia sopravvalutano il proprio ruolo in situazioni di guerra. Ripensando al successo repubblicano del 1931 non è esagerato definirlo il successo di un ceto intellettuale che, attrezzatissimo, dal 1898 e per un trentennio pieno, reinserì l'arretrata Spagna in un circuito europeo, traendo vantaggio dalla neutralità nella Prima guerra mondiale. Ma fu anche una guerra civile tra le più atroci che si ricordino, a scatole cinesi, con tutte le complicanze che questo comporta rispetto a una guerra che non è definita anche "civile". Le cifre sulle vittime di questo conflitto intestino sono ancora controverse ma, se i numeri che si leggono verranno un giorno confermati, potremo solo provare a cogliere la sproporzione tra le dimensioni circoscritte della guerra e le dimensioni gigantesche del numero di morti. Koestler vede la morte arrivare ogni notte più o meno alla stessa ora, l'ora delle esecuzioni capitali. Escogita degli stratagemmi per dormire in quel lasso di tempo, una sorta di tortura del sonno che gli consente però di sopravvivere e non sentire gli strazi dei condannati vicini di cella. In prigione conosce nuovi compagni, osserva le ore d'aria di altri prigionieri, digiuna, legge quel che passa il bibliotecario, gli arrivano attutiti echi della mattanza che infuria fuori, riflette sulla Spagna e soprattutto su quel che gli è capitato di vivere poco prima della cattura, ingaggia insomma un dialogo serrato in una sottilissima membrana che lo tiene in vita stremato. 

Questo memoir è uno dei grandi libri dell'intellettuale-giornalista di origini ungheresi, da leggere assieme agli altri suoi e da mettere in coppia con quell'Omaggio alla Catalogna di George Orwell o con La veglia a Benicarló di Manuel Azaña che sono senza dubbio altri fondamentali opere sull'autocombustione lenta che permise, con qualche anno di anticipo su quello più noto, un altro olocausto novecentesco. Schiacciata com'è tra due conflitti per cui si usò l'aggettivo "mondiale", l'escalation di terrore, vendette e ritorsioni che si consuma nella penisola iberica in un triennio - e che tuttavia parte ben prima del '36, già nel '31 con la cacciata dell'ultimo re borbonico Alfonso XIII e con l'insediamento della Repubblica - potrebbe persino divenire un vero banco di prova e anche un punto di vera partenza per rileggere la posizione della Chiesa in Europa nella prima metà del Novecento: è una storia che non può che interessare moltissimo tutti quanti.

giovedì 14 maggio 2015

Qua si toccano i Nervi.
Fabio Donalisio, Marco Scarpa e Francesco Targhetta illustrano il progetto Nervi edizioni, libri di poesia fatti a mano

Librobreve intervista #54

Nervi Edizioni è ormai prossima al varo. Anzi, si può dire che è già varata poiché da qualche giorno sul sito è acquistabile tramite PayPal Primo lustro di Andrea Longega, primo libro piegato con dita e nervi e riportante in realtà in copertina il numero 03. Lascio subito spazio ai tre nervosi editori, vale a dire Fabio Donalisio, Marco Scarpa e Francesco Targhetta. Prima però vi ricordo che una presentazione del progetto avrà luogo a Treviso, a Ca' dei Ricchi, il prossimo 18 giugno e che per essere aggiornati su questa e altre iniziative la cosa migliore è seguirli su Twitter e/o Facebook (più avanti nel testo troverete anche l'indirizzo email e il sito).

LB: Chi di voi si prende la briga di cominciare ab ovo, consapevole che il racconto diventerà un giorno il mito fondativo?
R: Le cose succedono agli incroci. La poesia è un'esigenza vitale. E sticazzi per tutti i cavilli patetici che si possono ricamare attorno a questa espressione. O almeno lo è per noi. La cerchiamo, la necessitiamo. Pensiamo che la realtà la necessiti per essere un po' più lucida e forse anche un po' meno ingrata. Giocoforza ne abbiamo elaborato un'estetica. Una critica. Che per militare deve passare da potenza ad atto. Quindi, a parte farla, si può fare in modo che diventi libro quella degli altri. Non una parola qui sull'esplicita non volontà – o forse anti-volontà – di fare editoria di poesia in questo paese da tanti anni. Intendo farla davvero. Uno si mette a fare le cose quando non le trova già fatte. Quando non trovi i libri che vorresti leggere, e quando non sono fatti come ti piacerebbe tenerli in mano. Il mezzo è il messaggio, anche, del resto. Il racconto, deo gratias, è molto breve. Si vuole una cosa, e poi la si fa. E in mezzo un mare di problemi e di esaltazioni che sarebbe ridicolo voler raccontare. Non tutto è destinato al tritacarne dello storytelling. Ah, e soprattutto ci sono le persone. La vera differenza – e anche questo è irraccontabile – la fanno sempre loro. Quelle che ci sono state e quelle che ci sono ancora. Perché la vera parte fondativa, e mitica, è che fare queste cose è tanto necessario quanto assolutamente divertente. Se volete uno sfondo per il racconto silenzioso, immaginateci in un bar con orario di chiusura infinitamente procrastinato. E leggete i libretti. È già tutto lì.


LB: Chi fra voi vuole spiegare perché avete deciso di fare proprio così i libri di Nervi?
R: Sono vari gli stimoli che ci hanno smosso e spinto a rispondere concretamente a quanto ci pareva naufragare nel mondo della poesia.
Innanzitutto, oltre che appassionati di poesia, siamo degli entusiasti del libro, delle sue forme, delle sue carte, della sua estetica. E proprio l'aspetto di alcune pubblicazioni degli ultimi anni ci rattristava: alcune poesie bellissime, di autori magari poco noti, dentro involucri posticci, approssimativi, scialbi. E magari nemmeno a prezzi così economici. Dunque è scattata l'idea di tornare a fare libri partendo da scelte semplici ma consapevoli: una carta più che degna, un'impaginazione elegante, la scelta di un carattere ben leggibile e piacevole alla vista, un formato adatto e una cura nell'assemblare tutto questo. Ecco, direi che prendersi cura è concetto fondante. Sono libri pensati, poi visti crescere e infine ben presentati. Le poesie di queste sillogi sono, a nostro modo di vedere, ottime e ci piace pensare che siano in buone mani con noi e che abbiano trovato un’onorevole casa in cui dimorare.
Altro aspetto fondamentale è la logica imperante dietro molti compromessi tra autore e casa editrice. Noi non chiediamo un soldo all'autore e investiamo totalmente i nostri risparmi in sillogi in cui crediamo fortemente. Facciamo 100 copie di ogni libro e cinque le regaliamo all'autore. Non c'è nessun obbligo contrattuale tra autore e noi. Noi ci occuperemo di presentazioni e vendita dei libri perché crediamo molto in questo progetto e vogliamo metterci la faccia, le mani, le idee e la passione.
Forse tutto questo non avrebbe trovato ulteriore spinta se non avessimo conosciuto quel magico luogo che è la Tipoteca, il museo del Carattere a Cornuda, in provincia di Treviso, e incontrato Sandro Berra, che al suo interno lavora e anima questo luogo. Chi ama i libri e la scrittura trova un senso di pace e di gioia per gli occhi quando ci entra. Caratteri e torchi sono in bella vista.
E c'è una frase riportata su un manifesto: "Tutti i libri, fino al secolo XVIII-XIX, che si ammirano in musei e biblioteche, decorati di xilografie e di acqueforti, composti con caratteri armoniosi, ampi margini, perfetti di registro e stampati su carte preziose, sono uscite da un torchio a mano" (Franco Riva, umanista e tipografo veronese).


LB: Chi di voi vuole addentrarsi invece nella peculiarità produttiva di questi libri, da un punto di  vista anche molto tecnico?
R: Parlando di caratteristiche tecniche, ma senza addentrarsi troppo nello specifico, le carte scelte sono Hahmuhle da 150 grammi e il testo è stato composto in carattere Monotype Baskerville 12 PT.
La rilegatura è fatta a mano con filo di cotone e ogni autore ha un colore corrispondente che viene richiamato dal filo della rilegatura, dal titolo della raccolta e dall'involucro che contiene il libro. L’involucro anch’esso è una piccola opera di carta, di grammatura variabile tra i 120 e i 140 grammi, che non usa colle, graffette o adesivi per chiudersi ma, ben piegata, si richiude (a incastro) su se stessa.
 


LB:  Un altro potrebbe raccontare come scegliete chi (ma in fondo anche che cosa) pubblicare?
R: Quello che ci colpisce, e subito. Per ovvie ragioni, pubblichiamo plaquette molto brevi: 10-12 poesie. Quindi cerchiamo testi che possano incidere e dare un pugno allo stomaco, senza fronzoli. L’unico criterio è che i testi devono piacere a tutti tre. Se uno solo pone il veto, si passa ad altro. Non ci sono preclusioni o idiosincrasie pregiudiziali. Tutti tre scriviamo e leggiamo, ma cose piuttosto diverse, quindi è sempre imprevedibile immaginare dove possiamo incontrarci. Per questi primi tre libretti, abbiamo letto 20-30 autori, tra quelli che conoscevamo, ma non solo. Vorremmo trovare anche voci nuove. Abbiamo le antenne drizzate. Semmai: nerviedizioni@gmail.com.


LB: A questo punto, uno di voi potrebbe illustrare le prime uscite?
R:  Per questa prima tornata, abbiamo scelto tre autori che hanno già qualche pubblicazione alle spalle, anche importante. Si parte con Primo lustro di Andrea Longega, un poeta dialettale veneziano, che ci ha proposto una silloge disadorna ma di un’intensità disarmante: ce ne siamo innamorati subito. Seguiranno Un bestiario di Mariagiorgia Ulbar, una collana di poesie incentrate sugli animali che mostra tutto il talento della sua voce, più simbolica ma sempre appesa con asprezza alla materia, e Strada lavoro di Sebastiano Gatto, un autore che taceva come poeta da qualche anno (in cui aveva scelto la prosa) ma che nella misura di questi testi sospesi tra Mestre e Černobyl’ ritrova una potenza dolce e cruda assieme.


LB: Colui che ha risposto a una sola domanda sinora potrebbe dire quali mosse caratterizzeranno il modo in cui veicolerete questa iniziativa?
R: Le mosse classiche, con qualche sponda informatica in più: presentazioni collettive, letture, sia in ambiti “poet-friendly” sia in contesti per bibliofili, ma, insomma, un po’ ovunque, interazioni dai social vari, possibilità di comprare online (sul sito nerviedizioni.it si può fare già, tramite paypal). Vorremmo che un’iniziativa simile potesse avvicinare i bibliofili alla poesia ma anche sensibilizzare gli appassionati di versi sulla necessità di non abdicare quando si tratta di scegliere il supporto fisico. Le belle poesie dentro un brutto libro perdono potenza. Ecco, contiamo di far toccare con mano a più persone possibili, ma proprio con mano, invitandoli ad accarezzare la carta, osservare i caratteri, spacchettare l’involucro, annusare le pagine, il piacere di avere belle poesie dentro un bel libro.


LB: Ah, Nervi?
R: Nervi sono quelle cose che prendono le sensazioni e le spostano da una parte all'altra del corpo fino a giungere nel centro di elaborazione, che poi le risputa fuori modificate e modificanti. Sono quelle cose tramite cui ti rendi conto di provare dolore, o piacere. La metafora è sia forma che sostanza. Superfluo sottolineare le assonanze con la nostra missione. Con la E finale. I nervi, poi, sono anche cose che nelle rilegature fatte per bene fanno in modo che le pagine rimangano al loro posto. Dare un ordine, anche fisico, alle parole; disordinare chi le legge. Nulla più e nulla meno.

martedì 12 maggio 2015

"Il forte X..." di Mario Puccini

Pensavo che se avete amato Il deserto dei Tartari potreste leggere questo racconto di Mario Puccini intitolato Il forte X... pubblicato da Ventura Edizioni (pp. 48, euro 6, con una nota di Giovanni Ricciotti). Pensavo che potreste leggerlo anche se non amate Il deserto dei Tartari (e magari potete anche dirmi che avete letto questo racconto di Puccini e non il libro di Buzzati). Non sto mettendo le due opere su un piano di vicinanza negli esiti raggiunti bensì in una prossimità di immaginario topografico-militare. Il racconto era già uscito nel 1992 per La Vita Felice all'interno del volume ormai irreperibile intitolato Racconti cupi, un titolo apparso per la prima volta per i tipi di Campitelli di Foligno nel 1922. E cupo in effetti qui è tutto, a partire dalle stanze che il soldato-custode del forte si trova a percorrere nei suoi giorni di presenza solitaria tra quelle mura dove viene spedito (giorni di cui perderà infine il conteggio). Segni e fantasmi di chi è passato, scricchiolii, rimasugli, i dintorni immediati di questa costruzione, la vegetazione. Io credo che un aspetto interessante di questo cupo racconto risieda anche nel mostrare quale scossa possa aver trasmesso la Prima guerra mondiale sugli scrittori "attivi" prima e dopo. L'impatto delle vicende belliche, qui lontane, raffigurate per contrasto nel silenzio e nell'isolamento che contraddistinguono queste pagine, ha fatto zampillare categorie come quella del numbing e quella ancor più nota e strettamente legata all'unheimlich freudiano. Qui Puccini non dà spiegazioni del perturbante che si è venuto a creare e che procede a narrare, fino all'epilogo tragico.

In una sua recensione a Foville, contenuta in quella salutare e mirabile collezione di recensioni che si intitola Plausi e botte (qualche editore lo riproponga e sennò, in alternativa, fate un salto qui dove troverete un testo impreciso), Giovanni Boine diede a quel libro di Puccini del 1914 una garbata "botta" e nei passaggi introduttivi precisò, ripartendo dalle novelle pubblicate nel 1912, che "Mario Puccini di Viottola, non è Balzac né Verga, non è un generale d'armata, ma è, sì, un buon caporale che le manovre al suo plotone le sa far fare e certo pian piano passerà maresciallo. Stile scorrevole, lingua abbondante, fisionomia delle solite". Boine morì troppo presto, nemmeno trentenne, nel 1917, per poter leggere questo Puccini di inizio anni Venti. Chissà se gli sarebbe piaciuto in questa virata fantastica, che affonda più dentro, in quell'inconscio che proprio dalla letteratura fantastica trasse le prime mosse e lumeggiamenti.

sabato 9 maggio 2015

"Duluth" di Gore Vidal

Ripescaggi #39

Ripesco di seguito un testo che scrissi quasi otto anni fa per il bel sito di Dori Agrosì "La nota del traduttore", dopo aver tradotto Duluth di Gore Vidal (Fazi, 2007, pp. 400, chi fosse interessato lo trova scontato del 50% su ibs.it).

Settembre 2004. Mi reco a Duluth, sorniona cittadina del Minnesota. Devo seguire una maratona sui pattini in linea per l’azienda per la quale lavoro. Ci sto quattro giorni, è il mio primo soggiorno negli Stati Uniti. Di solito uno inizia con gli Stati Uniti da New York, Los Angeles o – se va bene – da un viaggio studio nel Connecticut. Per me è diverso. Inizio da questa piccola città sul lago Superiore, vicina al confine del Canada, che molti non hanno nemmeno mai sentito nominare. Circa un anno dopo. Leggo un articolo su Gore Vidal su «Domenica» de «Il Sole – 24 Ore». Conosco già la sua produzione di polemista, saggista e soprattutto i suoi romanzi storici che Fazi sta riproponendo in nuove traduzioni. Nel fiume grosso delle sue opere vedo scorrere il nome Duluth. Ricavo solo un’informazione di ordine cronologico: opera del 1983. Mi procuro la traduzione italiana, non senza difficoltà, e nel frattempo mi documento un po’: la città che ho visto io alle prese con una popolare maratona sui pattini c’entra assai poco con la trama del libro. Mi appassiono, forse proprio in virtù della parola “Duluth”, che sembra essere l’unica cosa in comune tra la città che ho visitato e questo curiosissimo romanzo, tutto scoppiettante nelle invenzioni linguistiche e nel plot. La mia personale vicenda con Duluth-Duluth sembra finire qui. 

Da tempo volevo provare a propormi per una traduzione. Mi veniva difficile trovare una chiave di avvicinamento alle case editrici. E poi – si sa – senza referenze si fa poca strada. Scrivo alla redazione di Fazi per sapere se c’è l’intenzione di pubblicare a breve Duluth, ormai irreperibile dal momento che la traduzione di Pier Francesco Paolini per Garzanti data 1984. Quasi per scherzo, e comunque senza troppa convinzione, mi propongo come traduttore del romanzo stesso. Dopo qualche settimana mi rispondono che il libro è in programmazione e mi chiedono se mi va di spedire una quindicina di cartelle di prova. Mi tuffo nella lettura del testo nell’edizione Penguin e capisco subito che tradurre Vidal è tanto divertente quanto pericoloso. La cifra distintiva di Duluth è il pun e le costellazioni di puns disseminate da Vidal si apprezzano quasi esclusivamente nella lettura del testo originale. Ce ne sono tanti e sono tutti sottilissimi. Riuscirò a farne passare una buona parte? Mando la prova alla redazione di Fazi, che a loro volta la inoltra al maestro. La sua riposta, tramite il suo assistente, è lapidaria: “it seems he understands all the puns”. Naturalmente intende tutti quelli presenti in quelle prime quindici pagine, neanche tanti se paragonati al resto del libro. Test passato, anche alla Fazi si convincono. 

Sono il traduttore di Duluth. Non male per iniziare. La mia gioiosa incredulità è bilanciata da un ragionamento molto semplice: le case editrici, come tutte le aziende, puntano a contenere i costi. Evidentemente quello del traduttore è visto sempre più come un costo sul quale limare e la traduzione come una basic commodity da acquistare in un mercato con ampia offerta. La scelta di Fazi di affidarsi a un signor nessuno della traduzione mi risulta abbastanza leggibile dal punto di vista del (loro) conto economico. In parte, mi sembra pure una scelta coraggiosa: se mai nessuno dà la possibilità a qualcuno di iniziare… ma chiudiamo qui questo ragionamento di gestione delle imprese editoriali, anche se a me è servito come ulteriore sprone. Di sicuro iniziare con Vidal è un bel cimento. Per fortuna, come ho già scritto, il libro è uno spasso, occuparsi della traduzione diventa divertente. Le continue sovrapposizioni temporali e i mutamenti di scenario frequenti, dettati dall’alternarsi di paragrafi brevi e succosi dove i protagonisti s’avvicendano rapidamente per poi far ritorno poco più in là (o in un’altra epoca, sotto altre spoglie!), hanno richiesto uno sforzo particolare nel trarre il massimo dai dialoghi e dalla caratterizzazione dei personaggi, così marcata che per taluni caratteri non è esagerato parlare di caricatura. 

Il comico, il burlesco (c’è chi definito Duluth un capolavoro di questo genere, che estende la propria parodia a letteratura e fiction televisiva), le surreali ambientazioni e le caratterizzazioni di un manipolo di personaggi a dir poco esilaranti costituiscono un pungolo costante per il traduttore, che ha quindi il compito di operare le proprie scelte senza perdere mai di vista un obbiettivo fondamentale: trasmettere il debole di Vidal per la confusione controllata e finalizzata allo spiazzamento del lettore, per la promiscuità di registri e lessici e per i già citati puns. Sembra di vederlo quando scrive, mentre traducevo avevo davanti la sua faccia soddisfatta. Un bel monito a non abbassare mai la guardia per un traduttore alla prima esperienza importante.

mercoledì 6 maggio 2015

Destino d'un poeta: Emanuel Carnevali

Quote #8

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.

Di Carnevali ho scritto a più riprese, anche non molto tempo fa, ma torno a farlo con un brano che è sì una breve citazione, ma soprattutto una testimonianza raccolta da una persona che tra le prime ha dato un importante ritratto di questo "uomo che ha fretta" (A Hurried Man si intitolava il libro che Carnevali pubblicò del 1925, titolo ripreso dall'editore Fazi nel suo Racconti di un uomo che ha fretta a cura di Gabriel Cacho Millet e Maria Pia Carnevali, nel 2005). Assieme alle novità più recenti della casa editrice rodigina Il ponte del sale, mi è arrivata questa plaquette di una manciata di pagine intitolata Destino d'un poeta: Emanuel Carnevali, la quale sostanzialmente riproduce un articolo scritto da Eugenio Ferdinando Palmieri per “Il Resto del Carlino” il 23 novembre 1934, accompagnato da due disegni di Giorgio Mazzon, numerati dall'artista stesso. Il testo dell'articolo di Ferdinando Palmieri è quasi "inaugurale" se pensiamo a quando è stato scritto, e direi che è stato giustamente isolato da Il ponte del sale, perché in poche pagine riesce in un ritratto che a distanza di anni non ha perso nulla in vividezza.

A Bazzano, nella trattoria di Porta Castello, il giornalista de "Il Resto del Carlino" raccolse queste parole del poeta:

L'eclisse può produrre bellissime sfumature ma il sole odia la luna quand'essa intralcia il lavoro delle sue braccia. Io odio colori ed anima, io odio nuances e delicatezze, odio le danze. Un povero straccione che cammina con la testa sul petto: ecco il mio dolore. Io sono, io stesso, un dogma: la mia poesia è un semplice grido - grido del primo giorno di conoscenza, ch'io smarrii attraverso tanti giorni di dissipazione... Io voglio essere ciò che il mondo ha mancato di essere: possibilmente la bellezza ch'è l'uomo contro la bruttezza ch'è l'uomo... E se il mondo corre inevitabilmente verso il nulla, ebbene io sarò colui che gli si opporrà. Io amo troppo la vita per vederla così infamata, violentata, disonorata, annullata. Se il mondo imputridisce io sono l'unico essere che consapevolmente rifiuterà di riconoscere il suo imputridimento...



lunedì 4 maggio 2015

Massimo Gezzi e "Il numero dei vivi" a Ca' dei Ricchi a Treviso per TRAversi



Venerdì 8 maggio 2015 alle ore 21
Ca' dei Ricchi, via Barberia 25, Treviso
Rassegna di poesia "TRAversi" - a cura di Marco Scarpa
con Massimo Gezzi


Donzelli ha da poco pubblicato il suo ultimo libro di versi intitolato Il numero dei vivi (pp. 104, euro 17) ed è un motivo in più per ascoltare Massimo Gezzi, poeta invitato da Marco Scarpa questo venerdì per il terzo incontro della rassegna TRAversi ospitata nei bei locali di Treviso Ricerca Arte, presso Ca' dei Ricchi a Treviso. A questo link (oppure a ques'altro) si possono leggere in anteprima alcuni testi contenuti nel libro. Prima di lasciarvi a una nota bibliografica dell'autore, ricordo che altre notizie su quanto avviene a Ca’ dei Ricchi si possono reperire sul sito trevisoricercaarte.org.

Massimo Gezzi (Sant'Elpidio a Mare, 1976) ha pubblicato due libri di poesia: Il mare a destra (Edizioni Atelier 2004) e L'attimo dopo (Luca Sossella Editore 2009, Premio Metauro e Premio Marazza Giovani, pubblicato in Spagna dall’editore Quálea di Santander), più la plaquette trilingue In altre forme/En d'autres formes/In andere Formen, con traduzioni in francese di Mathilde Vischer e in tedesco di Jacqueline Aerne (Transeuropa 2011). Le sue poesie sono tradotte in inglese, francese, tedesco, spagnolo, croato, polacco. Nel 2015 è uscito Il numero dei vivi per l’editore Donzelli. Ha curato il volume L'autocommento nella poesia del Novecento: Italia e Svizzera italiana (Pacini Editore 2010), l'edizione commentata del Diario del '71 e del '72 di Eugenio Montale (Mondadori 2010) e l’Oscar Poesie 1975-2012 di Franco Buffoni (Mondadori 2012). Nel 2015, presso Italic peQuod, è uscito un libro che raccoglie dieci anni di interviste ai poeti e di recensioni nel volume Tra le pagine e il mondo. Ha tradotto saggi e romanzi dall'inglese per diversi editori. Insieme a Guido Mazzoni e Gianluigi Simonetti nel settembre 2011 ha fondato il sito letterario Le parole e le cose. Vive a Lugano, dove insegna italiano in un Liceo.

domenica 3 maggio 2015

Labirinti. "Comporre. L'arte del romanzo e la musica"

Riviste #6

Il numero 156 di "Labiritinti", pubblicazione curata dal dipartimento di Studi Letterari, Linguistici e Filologici dell'Università di Trento è dedicato al rapporto tra musica e romanzo. Comporre. L'arte del romanzo e la musica (a cura di Walter Nardon e Simona Carretta, 2014, pp. 222, euro 12,00, qui le informazioni principali e i sommari dei vari numeri) raccoglie contributi di Simona Carretta, Carlo Cenini, Marcel Dichte, Gabriele Frasca, Andrzej Hejmej, Andrea Inglese, Walter Nardon, Massimo Rizzante, Elisabeth Rallo-Dichte e s'inoltra, a più riprese, lungo i crinali di una riflessione che avvicina - senza mai confondere - i versanti e l'autonomia di chi scelga di esprimersi secondo una o l'altra forma. Il primo a passarmi per la testa quando penso a questo è Benedetto Marcello in Giuseppe Berto. Ma pensate solo ai romanzi di Kundera, di cui Rizzante è profondo conoscitore nonché traduttore. E qui si parla di molti autori, fra cui Beckett, Bernhard, Broch, Céline, Cortázar, Gadda, Foster Wallace, Joyce, Mann, Proust,  Pynchon. Il vocabolario del romanzo e quello della composizione musicale spesso si avvicinano e collidono, tendono asintoticamente a direzioni di sviluppo accomunanti, eppure rimangono (e devono rimanere) ben distinti. Pensate solo ad esempio a quando si parla di "polifonia" in un romanzo, contrapposta magari alla"monofonia", oppure all'armonia e al moto contrario e il contrappunto, e poi naturalmente a intensità, timbro, ritmo, durata, pause.