mercoledì 29 luglio 2015

"Dostoevskij, Nietzsche e la crisi del cristianesimo in Europa" di Vladimir Kantor

Per chi si fosse perso lo scorso anno a pordenonelegge la lectio magistralis di Vladimir Kantor, annoverato da "Le Nouvel Observateur" tra i 25 filosofi di fama mondiale (destano sempre la mia curiosità queste definizioni, tra il perentorio e il numerico), c'è la possibilità di leggerne ora il testo che Amos Edizioni pubblica, in edizione completa e con testo russo a fronte, nel primo volume della collana "Esodo" (pp. 120, euro 10, traduzione di Emilia Magnanini). L'editore veneziano è sostanzialmente l'unico ad essersi occupato di Kantor, sin dallo scorso anno quando ha pubblicato il lungo racconto Morte di un pensionato. Ora questo testo, programmatico sin dal titolo, ci porta dentro almeno tre questioni fondamentali: 1) la crisi del cristianesimo europeo tra fascismo e comunismo come elemento sconvolgente del XX secolo; 2) ci offre un interessante raffronto e distinzione tra le posizioni di Dostoevskij e Nietzsche su questi temi (il libro, soprattutto sul versante dostoevskiano, è davvero una preziosa ricognizione delle opere principali, con in testa il capitolo de Il grande inquisitore) e infine 3) la tesi di fondo di questo scritto, passibile della tentazione di esser giocata in chiava "attualistica", cioè che la crisi del cristianesimo è (è stata) la crisi dell'Europa. Tra le pagine inoltre potrete trovare un ritorno d'analisi sulla figura di Barabba, che mi ha riportato alla memoria il romanzo di Pär Lagerkvist intitolato appunto Barabba (lo pubblicò Iperborea).

Kantor prende le mosse da ciò che definisce "l'affanno d'Europa" e proficuamente attinge da José Ortega y Gasset, spagnolo che aveva studiato in Germania, a Marburgo, in pieno neokantismo. L'aristocratico pensatore di Madrid resta tuttora imprescindibile per capire il salto del contemporaneo, nei vari livelli della sua speculazione. Il filosofo e narratore russo ci ricorda infatti come La rebelión de las masas del 1930 rimanga un testo fondamentale per chi intenda occuparsi di storia delle idee nell'entre-deux-guerres e fissa puntualmente tutto in questo paragrafo:

"Il primo è il problema della rivolta delle ragioni pagane, legate all’ingresso sulla scena della storia dei ceti inferiori del popolo, nel quale il cristianesimo era un fragile strato sopra la mole dei principi pagani. In seguito Ortega y Gasset avrebbe definito questo fenomeno «la rivolta delle masse». Il quarto stato entra nella vita sociale attiva, pretendendo l’eguaglianza spirituale oltre che materiale. Tuttavia, l’archetipo che agiva nella mole di questa massa era ancora interamente pagano. Non è un caso che Černyševskij nutrisse dubbi circa  l’evangelizzazione di tutta la popolazione europea, e supponesse che «le masse popolari sia in Germania sia in Inghilterra sia in Francia, siano ancor oggi sprofondate nella più grande ignoranza, [esse] credono negli stregoni e nelle streghe, tra di loro abbondano i racconti superstiziosi di carattere ancora del tutto pagano». Per la Russia ciò suonava molto più attuale."

Per Kantor Dostoevskij e Nietzsche si completano a vicenda, sono inquadrati in una luce di parentela stretta, anche se i distinguo tra i due giganti sono la vera risorsa di questo breve libro. Dostoevskij parla per primo di morte del cristianesimo e alcuni passi di Dostoevskij sembreranno schiudersi solo alla lettura di altri passi di Nietzsche. Fra loro e le loro pagine c'è davvero un passaggio fondamentale della vicenda europea, alla quale s'aggiungerà poi l'analisi heideggeriana, con il "Dio è morto" inteso come condizione precipua della storia dell'Occidente e non come tesi dell'ateismo. Il punto di vista di Kantor ci immerge anche nella Russia dove risiede e dov'egli insegna, e ciò aggiunge un elemento di ulteriore interesse a questo libro. Il resto, ad esempio l'antropofagia che emerge in un pensiero di Dostoevskij, la spinosa eredità del pensiero nicciano in tutta la sua portata, la riflessione costante sullo scivolamento e corrugamento di sfondo pagano, cristianesimo ed emersione dell'uomo-massa sono tutti gangli, fra altri, che lasciamo agganciare a chi si avventurerà nella lettura di questo contributo notevole di Kantor su uno dei temi più ricorrenti e centrali dell'immaginario e della realtà europea.

martedì 28 luglio 2015

"L'importanza di essere piccoli - rassegna di poesia e musica nei borghi dell'Appennino". V edizione dal 3 al 6 agosto


di seguito il comunicato stampa

 L'importanza di essere piccoli
rassegna di poesia e musica nei borghi dell'appennino
V edizione dal 3 al 6 agosto
un progetto associazione arci “SassiScritti”
LA POESIA CARICA DI MONDO
riabitare il luoghi marginali con la poesia e la musica

con
CRISTINA DONA', ELISA BIAGINI, DIODATO, EMILIO RENTOCCHINI, FRANCESCO DI BELLA, GUIDO CATALANO, DELLERA, ANDREA LONGEGA, ANNALISA TEODORANI

L'importanza di essere piccoli è un festival di poesia e musica nato nel 2011 da un'idea di Azzurra D'Agostino e Daria Balducelli che hanno creduto di poter riabitare “poeticamente” il paesaggio allacciando una relazione autentica con chi lo cura e vi dimora. La complicità che nasce tra i musicisti, i poeti e i cittadini, l'affluenza di un pubblico eterogeneo e vivace che proviene da tutt'Italia, sono tra i punti di forza di una rassegna “minuta” che dal 3 al 6 agosto ritorna nelle valli, nelle pievi, nei castelli, nei borghi dell'Appennino tosco-emiliano con un passo volutamente più lento di quello preteso dal mondo odierno. Questo legame con le storie e i luoghi ‘minori’ è rafforzato dal gemellaggio che quest'anno lega L'importanza di essere piccoli a due storici festival che arrivano da lontano sia spazialmente che temporalmente: inizia infatti un colloquio per consonanza di intenti, poetiche e modi con l’XI edizione del CABUDANNE DE SOS POETAS, festival di poesia che si svolge a Seneghe, provincia di Oristano in Sardegna, e con la XXII edizione del festival STAZIONE DI TOPOLÒ/POSTAJA TOPOLOVE, in provincia di Udine, al confine con la Slovenia. Questi tre festival, sparsi per l’Italia e diversi per linguaggi e paesaggi, hanno sentito un’aria comune che li ha portati a dialogare sia per quanto riguarda le scelte artistiche che sostenendosi nella promozione, partendo dal presupposto che la marginalità è la ricchezza che più li caratterizza.
 

Ecco allora che le parole di Paul Celan, scelte quest'anno come effige del festival, diventano ancor più palpitanti e mormorano l'immagine di una chiocciola, carica della sua misteriosa casa/mondo: uno sbucare timido e tenace, come quello che il festival continua a fare da cinque anni.

Cristina Donà, Elisa Biagini, Diodato, Emilio Rentocchini, Francesco Di Bella, Guido Catalano, Dellera, Andrea Longega, Annalisa Teodorani si incontreranno per la prima volta durante il festival e saranno ospitati nel castello neogotico Manservisi di Castelluccio di Porretta Terme, sugli assolati campi del circolo culturale ippico Scaialbengo a Castel di Casio, presso l'antica Pieve della Rocca di Roffeno (Vergato) raccolta in un silenzioso paesaggio montano e nell'intimità del borgo di Castagno di Piteccio (Pistoia) che incontra la linea transappenninca della Porrettana.

Tutti gli eventi sono a ingresso libero e in caso di pioggia si svolgeranno ugualmente nei luoghi indicati.

INFO 

 
www.sassiscritti.wordpress.com sassiscritti@gmail.com
fb: SassiScritt L'importanzaDiEsserePiccoli
mob: 349 5311807 | 349 3690407

ufficio stampa SassiScritti: Daria Balducelli mob. 349 3690407; d.balducelli@gmail.com

PROGRAMMA

3 agosto
Castello Manservisi, Castelluccio di Porretta Terme (BO)
h.21
ELISA BIAGINI (lettura/incontro)
CRISTINA DONA' (live acustico)

4 agosto
“Scaialbengo” centro culturale ippico, Castel di Casio (BO)
h.21
GUIDO CATALANO (lettura/incontro)
FRANCESCO DI BELLA (live acustico)

5 agosto
Castagno di Piteccio (PT)
h.21
A. LONGEGA e A. TEODORANI (lettura incontro)
DELLERA (live acustico)

6 agosto
Pieve della Rocca di Roffeno, Vergato (BO)
h.21
EMILIO RENTOCCHINI (lettura/incontro)
DIODATO (live acustico)

L’IMPORTANZA DI ESSERE PICCOLI – V edizione
poesia e musica nei borghi dell’Appennino tosco-emiliano


con il sostegno di
Regione Emilia Romagna, Distretti Culturali. Bologna città metropolitana, Comune di Castel di Casio, Comune di Pistoia, Comune di Porretta Terme, Comune di Vergato, Arci Bologna.

con il contributo di
Fondazione del Monte, Banca di Credito Cooperativo Alto Reno, Helvetia Thermal SPA Hotel

con la collaborazione di
ASSOCIAZIONE “AMICI DELL’ ANTICA PIEVE” , Associazione CASTELLO MANSERVISI, PRO LOCO DI CASTAGNO, SCAIALBENGO CENTRO CULTURALE IPPICO di Castel di Casio, LIBRERIA L’ARCOBALENO di Porretta Terme GELATERIA LA BARACCHINA di Porretta Terme CENTRO TURISTICO LA PROSSIMA di Castel di Casio, F.LLI TOVOLI Chiostro sul Lago di Suviana LIBRERIA LO SPAZIO DI VIA DELL'OSPIZIO di Pistoia

 

domenica 26 luglio 2015

Dialogo con Gian Mario Villalta di Alberto Carollo

Le edizioni Saecula hanno pubblicato due libri appartenenti a una stessa serie con titoli e grafica sostanzialmente analoga. Uno è Dialogo con Enrico Palandri a cura di Alberto della Rovere e l'altro, di cui scrivo ora, è Dialogo con Gian Mario Villalta a cura di Alberto Carollo (pp. 104, euro 10). Si torna a parlare di nord-est o Triveneto o Venezie nella forma del dialogo e intervista. Il filo - ma l'immagine del filo è solo comoda e non regge più se si parla di memoria - è anche quello della memoria individuale e ciò che, in un frangente preciso del dialogo, è invocata come "responsabilità della memoria": in un breve passaggio, ad esempio, l'intervistato dimostra come siano i paladini della memoria e delle tradizioni i più grandi contraffattori di queste (penso di aver provato a dire qualcosa di analogo quando ho scritto in queste pagine contro la peste delle "rievocazioni storiche"). Villalta fra l'altro non è nuovo a ragionamenti del genere, visto che qualche anno fa per Mondadori pubblicò Padroni a casa nostra. Perché a nordest siamo tutti antipatici. C'è stato un tempo in cui "nord-est" si trovò ad essere etichetta e tematizzazione giornalistica pressoché quotidiana. Ora tutto ciò è scemato e in questi giorni si scrive e si legge più facilmente di Europa, di tenuta o disfacimento di questa, e si dovrebbe parlare di un lento invisibile massacro politicamente corretto degli europei fra di loro, che sotto diverse spoglie - o sotto spogli elettorali ormai esangui - sta perfezionando i massacri degli scorsi secoli. Questo non significa che sia un momento meno opportuno per parlare di queste aree e del mutamento degli ultimi cinque decenni, dei mutati cicli di lavoro e comunicazione, e da qui allargare lo sguardo e l'interpretazione. E sia detto che nelle risposte lavoro-produzione-comunicazione sono inquadrati assieme e non più in modo disgiunto: non è un fatto e un'osservazione secondaria, bensì un punto di partenza spesso dimenticato per qualsiasi ragionamento sensato che si voglia provare a fare.

Naturalmente in questo libro, completato dalle interviste a Stefano Dal Bianco e Alberto Garlini, c'è molto spazio per parlare di formazione personale, dell'infanzia e adolescenza nella campagna friulana, di letteratura o anche di premi e manifestazioni letterarie e quindi del libro, oggetto mallarmeanamente progettato affinché il mondo gli precipitasse dentro, tra le pagine, e tuttavia ora non più centrale e imprescindibile nelle trasformazioni che tutti viviamo. In questo punto si accenna naturalmente alla grande mutazione portata dalle nuove tecnologie le quali, pur rapidissime nella loro propagazione, hanno avviato in un certo qual modo una grande ma lentissima trasformazione, della quale non si vede più chiaramente un principio e non si vedrà tantomeno una fine (forse ci avvicineremo a quella che nel linguaggio delle tecnologie definiamo solitamente come "fase matura"?). Chissà se questa lenta ed estenuante trasformazione fosse stata invece più decisa, quasi una mazzata, non ci trascineremmo in certe paludi o crisi che conosciamo da tempo (questo pensiero nel dialogo investe in maggior misura i ragionamenti attorno all'editoria) o se queste supposizioni sono solo il frutto di una proiezione di una fretta. La trasformazione è comunque tale, onnipresente, e a volte viene il dubbio che i nostri mondi che descriviamo travolti dall'accelerazione, in realtà ci stordiscano pure nella loro esagerata e distratta fissità. Anche dal punto di vista della scrittura, poetica narrativa o saggistica che sia, questo dialogo mostra il non risolto della questione del contemporaneo e le molte balle che ci è piaciuto raccontarci sinora. Leggendo mi tornava in mente anche una sorta di polemica a distanza tra Covacich (il cui sodalizio è più volte citato nelle risposte di Villalta) e Goffredo Fofi, risalente ormai a diversi anni fa, nel quale lo scrittore triestino dissentiva dal critico che propugnava una maggior vitalità creativa degli scrittori del sud, a suo modo di vedere più sollecitati dai problemi veri e cocenti di quelle aree d'Italia. Questa sorta di "determinismo geografico" di Fofi oggi come ieri è incomprensibile: siamo tutti più simili e per questo dobbiamo anche prestare molta attenzione al nostro sistema di credenze e ai nostri immaginari, a come si creano, a come si consolidano e a come si infrangono nel tempo e tra gli spazi del contemporaneo.

In questo dialogo si parla naturalmente anche di cultura e non potrebbe essere altrimenti, visto l'impegno che da anni vede Villalta alla direzione artistica di pordenonelegge, il festival letterario italiano di maggior successo. Come tutte le manifestazioni che funzionano - e qui qualcuno, compreso l'intervistato, ci vedrebbe bene un gesto apotropaico - pordenonelegge ha attirato e continua ad attirare un pubblico cospicuo ma anche critiche e a generare dispiaceri. Mi domando se così fosse anche per Mantova, quando questa deteneva il primato indiscusso tra i festival letterari e mi sento di prendere una posizione di difesa, per quel che può valere e per quanto possa capire che alcuni miei connazionali siano attratti da un masochismo guidato spesso da una superbia solipsistica: credo infatti che pordenonelegge rappresenti non solo un'opportunità di accrescimento e di ascolto bell'e buona, sia per una città in senso lato sia per chi la frequenta in quei giorni, tanto ricca è l'offerta e tante le opportunità di ascoltare autori importanti senza spendere nulla per gli incontri, ma anche un esempio abbastanza singolare di rilancio. Anche tra i tanti amici poeti, tutti quelli che hanno criticato il censimento poetico fatto da pordenonelegge secondo me hanno dimenticato tre elementi fondamentali: 1) quel censimento può favorire (per quel che mi riguarda ha favorito) la conoscenza e il contatto tra chi pratica la scrittura poetica in Italia; 2) ha contribuito a una descrizione meno impressionistica del panorama basata sulle solite lamentele che siamo in troppi a scrivere e pochissimi a leggere; 3) è qualcosa, un punto di partenza, finanche una banale ma utile "rubrica telefonica". Nel dialogo tra Carollo e Villalta allora non si leggono prese di posizione figlie di una concezione statica e "ministeriale" della cultura come potrebbe essere il parlare solo di "cultura come diritto" o "cultura come privilegio", perché la cultura è già parte fondativa di un sistema sociale, economico e di pensiero, quando questo c'è davvero e dà segni di vita. Se si parla troppo a vanvera di cultura significa che è venuto a mancare quel sistema economico e di pensiero e con esso la sua cultura. Trasformare la cultura in un alibi, in una scusa o peggio ancora in un tema di dibattito fiacco è un peccato mortale. E soffermarsi a parlare solo in termini di diritto o privilegio della cultura denuncerebbe una visione vecchia e stantia della cultura stessa, legata a parametri per lo più nozionistici, didascalici e assai statici.

Nel dialogo non manca infine un'incursione nel territorio infido, a tratti forse tossico (nel senso della dipendenza), dei social media. La posizione non è da apocalittico e nemmeno da integrato. Ben si comprende che di questi non ne facciamo e non ne faremo a meno. Quel che è semmai denunciato è ricollegabile alla superbia solipsistica di cui si scriveva poco fa, all'assenza di un dialogo, ad un'interazione che rischia ad ogni curvatura del pensiero di diventare fasulla, risolta - ma in fondo drammaticamente irrisolta - nell'irrazionalità calcolata di un like

Quasi a compendio di quanto ripreso sin qui, ricordo un passaggio racchiuso in quel bel libro di racconti ormai introvabile che segnò l'esordio narrativo di Villalta, Un dolore riconoscente, dove si leggeva questo:

"La vita che ci aspetta è piena di tutto, è come vivere dappertutto, è troppo grande per riuscire a pensarla.
La vita che ci aspetta è veloce, dovrà per forza sorprenderci continuamente. Io mi aspetto che un giorno penserò a me stesso di questi anni nel modo in cui adesso penso a mio nonno e ai miei genitori, come qualcuno che era quello che diceva e vedeva ogni giorno, qualcuno che era tutto in quelle parole e in quegli sguardi.
Eppure questo film già finito crescerà insieme a me, questi prati che sembrano fatti per seguire la curva degli occhi, questi cieli pieni di nuvole non andranno più via. Diventeranno un peso che io sarò costretto a portare dentro di me, un altro me stesso che non smetterà di restare nel suo mondo, che porterò dentro di me insieme con un mondo ormai morto, e sarò veramente come i miei nonni e i miei genitori, ma più nessuno avrà ricordi così puri. Nessuno avrà più avuto così poco, nessuno avrà avuto abbastanza spazio, silenzio, vuoto dentro di sé come loro."


Il prezzo in copertina di quel libro di racconti era ancora in lire. Credo che, in nuce, le riflessioni che abbiamo letto in Padroni a casa nostra. Perché a nordest siamo tutti antipatici o che possiamo leggere in questo Dialogo fossero tutte già in queste righe. Resta da capire, tra le altre cose, anche questo: se il mondo non è più fatto per finire in un bel libro dove diavolo può finire ora? Temo che sia fin troppo facile rispondere o pensare che possa finire nello schermo che avete davanti, grande o piccolo che sia. Io non sono del tutto convinto che questa sia la risposta esatta e definitiva, non la accendo e soprattutto non mi piace.

mercoledì 22 luglio 2015

"Nuovi giorni di polvere" di Yari Bernasconi

Il segmento testuale "uno dei più..." che si trova sovente nelle quarte di copertina o in altri paratesti sta diventando quasi un tic e sarebbe davvero curioso tentare una statistica lessicale in merito. L'avrò usato anch'io su queste pagine, e spero soltanto di averlo fatto in momenti di poca lucidità e poca fantasia. All'espediente però non sfugge nemmeno un decano come Goffredo Fofi il quale, nella nota a Nuovi giorni di polvere (Casagrande, pp. 96, euro 18 - CHF 20), parla di Yari Bernasconi (Lugano, 1982) come di "uno dei più coinvolgenti poeti delle ultime generazioni". Il problema non è quanto Fofi sia lontano da fare centro - pure l'obiettivo di questo mio scritto è simile a quello di Fofi, ossia suggerire la lettura del libro di Bernasconi cercando di metterlo in relazione con altro che ho letto e magari con altro che si scriverà - bensì la scorciatoia critica che queste espressioni spesso racchiudono e il loro avvitarsi sulla base di un principio di auctoritas che ancora, in qualche modo, soprattutto nella critica letteraria, sembra tenere, aggrappato però a una roccia friabilissima. (Penso ora a Mengaldo, che non era estraneo a scorciatoie analoghe, anche se nel suo caso il giudizio di valore diventava spesso un giudizio ben raccordato a un sistema di valori emerso o autoemergente nel testo critico.) Insomma la formula "uno dei più |aggettivo| della sua generazione/delle ultime generazioni" per me diventa ormai automaticamente una sorta di "abuso di posizione critica dominante" se non è supportata da una congrua analisi del testo e sortisce ormai effetti contrari dell'invito a leggere. Non so voi. Quest'auctoritas, fra l'altro, è qualcosa che i poeti intimamente vorrebbero o dovrebbero sempre rifiutare, a trenta come a novant'anni, così come mi pare rifiutarla la vena del polso di Bernasconi. Si noti anche un altro aspetto, ovvero la collosità problematica del concetto di "generazione" in poesia, ripreso anche da Fofi nel suo giudizio che parla di "ultime generazioni"; verrebbe da chiedere: quante generazioni? Quali "ultime generazioni"? Intende quelle dopo la sua? Che cosa ci entusiasma ancora nel parlare per generazioni in poesia e non ad esempio in altri generi letterari o nel campo della ricerca scientifica? Parlare di generazioni inizia ad aver senso se è in atto una vera "questione morale" che le sta attraversando, ma nella megamonogenerazione serpeggiante in cui si ricade spesso oggi tutti quanti, dal-nipote-al-nonno senza soluzione di continuità, da Noto a Oslo, parlare per generazioni rischia di configurarsi come l'ennesimo e fiacco ritrovato del marketing.

Passo finalmente al libro, tralasciando giudizi diretti su autore o biografia, a mio avviso sempre pericolosi e poco fertili. Tra le pagine, fra l'altro, scompare un battito generazionale per lasciar posto a un'anabasi camminata quasi sempre da un'enigmatica, forse inconciliata prima persona plurale (che sia la prima persona plurale il fine e la fine di questa scrittura?). Bernasconi scrive spesso di un noi, a volte esplicito, altre meno. Di polvere, polvere e (nuovi) giorni. Quante polveri conoscete? C'è quella da sparo, quella cosmica, quella che rimane delle lavorazioni e dalle limature, e poi la polvere delle case che si appoggia sui piani. Ci sono polveri più o meno visibili. Ci sono anche le polveri che ulcerano i nostri stati di coscienza e il nostro organismo o quelle farmaceutiche. Ad un livello letterario, almeno per chi scrive, forse per piccolezza di vedute, il rimando più immediato è John Fante di Ask the Dust. In effetti ci sono molte domande che possiamo rivolgere alla polvere. Il titolo rinvia anche a un immaginario biblico e, tutto sommato, sembra sottolineare la portanza e durata del concetto di vanitas vanitatum che può essere ridestata un istante da un'"aria improvvisa" (come in una poesia della serie irlandese). Nel libro la polvere è quella che raccoglie un dito indice che, nell'atlante d'Europa, si sposta a indicare la località estone di Dejevo, nella più grande isola del paese baltico (Lettera da Dejevo fu l'esordio di Bernasconi pubblicato dall'editore Alla chiara fonte) alla Svizzera e all'Italia, per poi tornare a nord con una cospicua sezione irlandese, Piccolo diario d'Irlanda (con Emanuela). In questa sezione abbiamo la riprova che spesso si scrivono i versi più bellamente vagolanti in quello stato di alterazione che il viaggio può comportare, agostinianamente più per la pressione del viaggio sulla pelle dei nostri giorni che per quello che possiamo effettivamente scoprire distanti da casa. Come in Galway: "Se c’è qualcosa di vero in questa strada, tra le case, / attorno ai corpi dei turisti che spingono all’entrata / dei locali, cantando con voci grasse, è tutto / nell’asfalto. L’asfalto levigato e la sua inerzia. / L’asfalto sotto i ciottoli, negli interstizi, nelle crepe. / Quell’asfalto ignorato. // Se c’è qualcosa di vero è già sbiadito, già trascorso."

Facciamo ora un passo indietro. Dopo l'iniziale Dejevo s'apre la sezione dal titolo fortiniano Non è vero che saremo perdonati ("Non è vero che siamo in esilio. / Non è vero che torneremo in patria, / non è vero che piangeremo di gioia / dopo l’ultima svolta del cammino. / Non è vero che saremo perdonati." dai versi del fiorentino). Qui entra il paesaggio della Svizzera, il discrimine del San Gottardo e la sua galleria ferroviaria, il treno per Zurigo, ma poi trovano spazio frammenti di conversazione e "Cartoline", dalla località francese di Saint-Gilles-du-Gard e da quella svizzera di Herisau. Siamo vicini a San Gallo: "Dalle colline si vede San Gallo, rassicurante, / col suo stadio. Gli anziani stanno insieme, salutano / il soldato che torna in caserma dagli altri. / Immacolate, le case e le facciate respingono i prati, / troppo verdi. Ristagna una fierezza vaga: / le nostre donne, le nostre terre, le nostre bestie. // È strano che in un bosco, proprio qui, / ci sia il corpo senza vita di una bambina. / Così stonato. È strano che una terra come questa / dia anche, ogni tanto, di che morire. /". Spesso capita che in questi versi si immischi nel paesaggio un elemento di forte inquietudine, quasi misterioso. Il controllo formale è sempre molto alto, il metro quasi rassicurante anche se non si capisce bene su che cosa rassicuri (ho avvertito in questo l'aspetto intrigante del libro). Di certo Sereni, Orelli e il già citato Fortini sono stati a lungo meditati (Orelli pure conosciuto e frequentato, ricordo infatti la curatela del suo Abbecedario), eppure il piglio più interessante giace dove Bernasconi s'allontana da un'idea di tradizione e calca uno scarabocchio sopra quella che un tempo si chiamò "linea lombarda" ("Siamo cambiati senza movimento: all’oscuro / delle unghie più nere, grati dei sentieri battuti, / le strade e i cortili puliti. Sangue? Macerie? / La guerra vera era noiosa: distante e prevedibile.").

Lungo la Landstrasse è una sezione anaforica. Molte poesie di questo terzo movimento del libro iniziano infatti con "Siamo": "Siamo diversi, ma il sangue dei nostri padri / è rosso. [...]", "Siamo tanti, ma presto ci perderemo.", "Siamo in viaggio, ma non in fuga. [...]", "Siamo selvaggi, dicono, come se fosse / un problema. [...]", "Siamo felici nella nostra carovana, tra i volti / che conosciamo. [...]", "Siamo indifesi davanti ai bastoni / che sembrano forconi; [...]". Anche qui torna prepotente la prima persona plurale, di cui si diceva sopra. La quarta sezione, La montagna di fuoco, raggruppa solamente due prose poetiche e la poesia intitolata "Residui". Ora, se vogliamo criticare chi scrive di residui possiamo farlo, possiamo giocare a individuare i pusterliani in Ticino o in Italia (poco cambia), resta che a mio avviso scrivere di residui significa accogliere nell'opera qualcosa che è etimologicamente ma anche ontologicamente rimasto indietro. Io penso allora, per contrapposizione, più che a Pusterla, a I compagni corsi avanti del Vocativo zanzottiano, quel finale "[...] Strugge la mite / notte Hitler, di fosforo, e congiunta // in alito di belva sugli estremi / muschi dardeggia Diana le impietrite / verità della mia mente defunta." Quest'associazione dovrebbe tornarmi utile per un pensiero alla fine.

La sesta sezione segue la già ricordata Piccolo diario d'Irlanda (con Emanuela) e si intitola Se camminiamo. Questo è anche il titolo della prima poesia: "Se camminiamo è per andare avanti, / per cercare qualcosa, per non abbandonare / una speranza. Dimenticando tutto il resto. / Tornare ha sempre avuto poco significato. / Tornare dove? Riconosciamo i sassi / e gli orizzonti: i sentieri ci dicono / che ci siamo, che andiamo.". I toni tornano intimi (stavo per scrivere intimissimi), quasi un morettiano diario senza le date ma ritorna forte un senso del luogo, come nel "luogo vacillante" di un testo, nella ferroviaria "Berna–Milano–Napoli (quadretto di genere)" o nella poesia conclusiva "Un commiato" che termina con questi versi: "L’acqua che passa si è già presa il domani. / Io ti scrivo da qui, dove poi si scompare. / Perdona se non tornerò in quello spazio / perenne.". Questo richiamo ai e dei luoghi resta, come residuo, uno degli aspetti più coinvolgenti e convincenti di queste poesie. Se restassimo alle parole di Fofi, spostando l'accento più sull'opera che sul nome del poeta, mi domanderei allora dove e in che misura è "coinvolgente" la scrittura poetica di Bernasconi? Paradossalmente - e non intende essere un gioco di contrari - è tanto più coinvolgente quando ci parla in modo chiaro, anche se obliquo, di una esclusione che ci riguarda. Non mi riferisco alla sbandierata esclusione di una (nostra?) generazione al cospetto della Storia, ma a quell'esclusione forse salvifica e persino rassicurante che sperimentiamo nel viaggio e nel sentimento di un luogo, è la nostalgia "di seconda mano" richiamata in un testo di spostamento tra la Svizzera e l'Italia, sempre nella sezione conclusiva del libro. Può essere persino il rischio di un'esclusione perenne dall'azione e in questo i versi provano a tenere alta la guardia. Non è e non può essere l'esclusione da un'autonomia di pensiero che dobbiamo comunque provare a conquistare se non vogliamo cadere in quella pressoché unica, lunga e sinuosa generazione destinata a essere fatta a pezzi all'occorrenza, per questo e quell'utilizzo nella macelleria del reale o del virtuale. Attraverso il perseguimento di una spazializzazione e scansione della propria scrittura, Bernasconi rimane aggrappato a quell'esclusione, spesso incistata nei luoghi, ma che da sola può divenire il fondamento di qualsiasi principio-appartenenza, di un'anabasi forse incompiuta e tuttavia senza ritirata: "Tornare ha sempre avuto poco significato. / Tornare dove?", appunto.

lunedì 20 luglio 2015

"Wilder Mann o la figura del selvaggio" di Charles Fréger

Musicali pretesti #6

Di tanto in tanto, una notizia su un libro e un brano da ascoltare, al libro collegato.

Inizia a essere difficilmente reperibile ma si trova ancora Wilder Mann o la figura del selvaggio del fotografo Charles Fréger, libro pubblicato da Peliti Associati nel 2012 (pp. 272, euro 28,90). Il libro racchiude una serie di ritratti dell'uomo selvaggio (sic). Chi desidera può trovare una nutrita galleria di foto a questo indirizzo. Le foto sono state anche recentemente ospitate alla Galleria del Cembalo di Roma per una mostra. Sono ritratti di costumi e maschere trovate in giro per l'Europa e non si sa bene cosa pensare visto che quello dell'uomo selvaggio resta un mito sempre più arduo da trattenere. Ad ogni modo queste foto si possono intanto vedere. E poiché non si sa bene cosa pensare dell'uomo selvaggio oggi possiamo ascoltare la musica dedicata a questo progetto da Teho Teardo in Music for the Wilder Mann. (Ricordo che sempre Teardo ha risposto a qualche domanda su Pasolini poco fa e l'intervista si trova qui.)
 

venerdì 17 luglio 2015

Tradurre in italiano Jonathan Franzen, Arthur Bradford, Don DeLillo, Jonathan Galassi e altri. Intervista a Silvia Pareschi

Librobreve intervista #58

Di seguito trovate una nuova intervista a chi di mestiere traduce. Questa è la volta di Silvia Pareschi, un nome sicuramente noto a chi è solito cercare il nome del traduttore sotto il titolo e l'autore di un'opera tradotta. Come lei ricorda, il suo fu un esordio fortunato e col botto: Le correzioni di Jonathan Franzen. Attraverso una sua risposta riusciamo anche a gettare uno sguardo negli Stati Uniti e intravediamo cosa si sta muovendo attorno alle traduzioni di scrittori italiani. La mappatura di quanto si traduce all'estero potrebbe essere un esercizio interessante e nemmeno troppo difficile da portare a termine, visto che i dati sono più o meno noti. Eppure se ne parla sempre poco, mi pare. Certo, sappiamo che Camilleri è tradotto un po' ovunque, ma ci potrebbe interessare sapere se qualcuno sta ripensando a una nuova traduzione integrale da Leopardi o da Primo Levi. Sono alcune delle notizie che apprendiamo leggendo questa intervista che si chiude con una splendida citazione da Cesare Garboli. Buona lettura.


LB: Qual è stato il primo libro che ha tradotto e che anno era? Si ricorda cosa provava all'idea della prima vera traduzione? Era qualcosa di simile a un'emozione oppure no?
R: Il mio è stato un esordio molto fortunato: il primo libro che ho tradotto è stato Le correzioni di Jonathan Franzen. Era il 1999, stavo frequentando una scuola di scrittura creativa e durante un seminario di traduzione venni notata dalla docente, Anna Nadotti la quale fece il mio nome a Marisa Caramella, che all’epoca lavorava come editor all’Einaudi. Ricordo benissimo l’emozione che provai il giorno in cui Marisa mi telefonò e mi disse che voleva “parlare di traduzione”. Fu una cosa del tutto inaspettata, ma anche nel mio totale sbalordimento capii che quel momento avrebbe potuto cambiarmi la vita. Dopo una prova mi venne affidato il mio primo lavoro, Il guardiano del frutteto, di Cormac McCarthy. Avevo cominciato a tradurlo da qualche settimana quando ricevetti un’altra telefonata: era arrivato un nuovo libro che bisognava tradurre subito, The Corrections. Lo tradussi sotto la supervisione di Marisa, e quella fu per me un’esperienza inestimabile. Dopo Le correzioni, pubblicato nel 2001, uscìIl guardiano del frutteto. Poi vennero Dogwalker di Arthur Bradford e Cosmopolis di Don DeLillo. 

LB: E qual è l'ultimo libro tradotto uscito in libreria?
R: La musa, (Guanda), un romanzo sul mondo dell’editoria americana scritto da Jonathan Galassi, il grande editor della casa editrice Farrar Straus & Giroux. Ora sto traducendo l’ultimo romanzo di Jonathan Franzen, Purity.


LB: Quali sono le situazioni che maggiormente la divertono nel suo lavoro?
R: Incontrare gli autori e discutere con loro. È sempre affascinante dare una voce e un corpo alle persone di cui ho tradotto le parole. In genere ricevo una conferma di ciò che avevo immaginato pensando a loro, e riesco a instaurare buoni rapporti, a volte anche di amicizia, con i “miei” scrittori. 


LB: E le situazioni più pericolose perché la annoiano o magari la sconfortano?
R: Le scadenze troppo strette, che mi costringono a correre e mi fanno perdere gran parte del piacere di lavorare.


Ann Goldstein
LB: Vive oltreoceano, negli Stati Uniti, e le chiedo di invertire per un attimo la visuale linguistica: potrebbe nominare alcuni traduttori che si stanno spendendo bene per tradurre la letteratura italiana contemporanea negli Stati Uniti?
R: Il mio lavoro da freelance per fortuna mi permette di alternare alcuni mesi oltreoceano con altri in Italia, così non rischio di compromettere il mio italiano e nello stesso tempo posso trascorrere lunghi periodi di immersione nella lingua e nella cultura da cui traduco.
Fra i traduttori, anzi, le traduttrici americane che traducono letteratura italiana ricordo Frederika Randall, che ha tradotto Guido Morselli, Luigi Meneghello, Ippolito Nievo e Helena Janeczek; Anne Milano Appel, che ha tradotto Paolo Giordano, Roberto Saviano, Claudio Magris, Goliarda Sapienza; Ann Goldstein, che sta curando l’edizione integrale delle opere di Primo Levi, e che ha tradotto tra gli altri Ferrante, Leopardi e Pasolini.


LB: Tiene un blog molto interessante. Da cosa è nata l'idea di curare questo spazio e di alimentarlo? A cosa le "serve"?
R: L'idea di aprire un blog mi è venuta poco dopo aver cominciato la mia vita da pendolare intercontinentale fra gli Usa e l'Italia. Spesso mi veniva voglia di raccontare le mie osservazioni da "emigrante" in un paese che conosco piuttosto a fondo – sia per letture che per esperienze – e in una città interessante come San Francisco. Così ho pensato di metterle su un blog, aggiungendoci anche altre cose che mi interessano: traduzione, letteratura, musica, viaggi, varie ed eventuali. Mi serve come allenamento alla scrittura, per scrivere qualcosa di mio dopo aver passato tutta la giornata a tradurre parole altrui. 


LB: Suggerisce mai degli autori da tradurre o più spesso sono le case editrici a contattarla per traduzioni di libri già acquistati?
R: No, nel mio caso è sempre la casa editrice che mi contatta per propormi una traduzione.


LB: Magari i sogni non bisognerebbe mai raccontarli, però le chiedo se le va di parlare di un libro che vorrebbe molto tradurre (o anche ritradurre)?
R: Mi piacerebbe ritradurre Ragtime, perché adoro come scrive Doctorow e perché si tratterebbe di una vera e propria sfida, tanto la lingua di quel capolavoro è intrisa delle sonorità e dei ritmi del jazz.


Cesare Garboli
LB: Per finire le chiedo se c'è una frase o un pensiero sulla traduzione letteraria che secondo lei sintetizza la sua visione di questo lavoro assai peculiare. Grazie.
R: Mi piace molto questo brano di Cesare Garboli: “Tradurre è essere attori. Stessa attitudine, stessa condizione dello spirito che porta, istituzionalmente, a recitare, a fare teatro, a respirare carnalmente la vita di un altro. E come avviene nello spettacolo, ci sono i traduttori dilettanti, i professionisti, le compagnie di giro, gli stabili [...]. C'è il traduttore raffinato il volgare, il solista e il generico. E c'è, infine, il traduttore di genio: il grande attore. È l'attore che ha capito che basta, per essere grandi attori, credere ciecamente alle proprie battute, non c'è bisogno d'altro. Un attore porta già in sé, impressa nelle rughe del volto, fra le pieghe di una vocazione mostruosa, tutta la maschera del teatro, ogni tragedia e ogni commedia. Non ha bisogno d'altro. Sa come agire, come lavorare. Sa cosa gli spetta, nel gioco del mondo. Comincia a truccarsi. Può, come è lecito in teatro, fare di tutto. Può giocare, irridere, travestirsi. È solo, è libero. Ed eccolo in scena. Ha scelto, chissà perché di creare, di inventare, fare esistere una cosa che già c'è, già esiste, già è stata scritta. Di farla esistere come è stata scritta, e come mai nessuno aveva pensato che fosse, prima di lui che la recita.”

giovedì 16 luglio 2015

Meglio di uno specchio. Riccardi, Buttafuoco, Berardinelli alla notte bianca e fonda della poesia?

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #8

In questo spazio così titolato provo, di tanto in tanto, a fermare pensieri che mi vengono spesso su libretti che mi piacerebbe scrivere se avessi capacità, tempo, spazi o persino, ancora più presuntuosamente, un committente. Oppure, meglio ancora, librini che vorrei trovare già scritti brillantemente da altri. Libri piccoli, che provino ad affrontare temi o autori che già hanno una bibliografia, ma con la voglia di provare a dire cose nuove, magari correndo qualche rischio. Non occorre scrivere tanto, pensate a certi articoli filosofici brevissimi, a come hanno cambiato tutto. Scrivendone così brevemente qui, mi faccio passare l'idea di intraprendere tortuosi percorsi inconcludenti.

Prima è arrivata la notizia della fine del rapporto tra Antonio Riccardi e Mondadori, di cui era direttore letterario. Poi gli articoli di Alessandro Zaccuri su "Avvenire", di Pietrangelo Buttafuoco su "Il Fatto Quotidiano" e di Alfonso Berardinelli su "Il Foglio". Un piccolo fuoco è stato buttato attorno attorno alla poesia, al suo fiacchissimo mercato e attorno a un lutto probabile, ovvero quello immaginato per la più gloriosa delle collane di poesia italiane, Lo Specchio Mondadori (da tempo in queste pagine ne ho registrato agonia e cure palliative, pur tra alcune uscite interessanti). L'articolo di Berardinelli non è che un coacervo di cose risapute e ridette attorno alla poesia contemporanea, un facile gioco al ribasso che non aggiunge granché. A mio avviso rappresenta assai bene quel genere di articoli che non serve davvero a nulla, tantomeno a sorridere. Prendete ad esempio quel provare a dare dei numeri sulla quantità di poeti pubblicabili o prendete il raffronto con la narrativa (ma che senso ha? Che senso ha in quel punto dell'articolo?), o prendete l'ormai tipico deviare in corner sull'artigianalità (tipico rimedio da difensore cotto di stanchezza?) o il raffronto con l'opera d'arte la quale, fra l'altro, se vogliamo parlare di mercato, si trova in una situazione diametralmente opposta a quella della poesia, visto il suo essere oggetto di frequenti speculazioni del tutto analoghe a quelle della finanza. Questi ragionamenti che si pensano provenire da un critico sono normali pezzi giornalistici, poco critici e poco interessanti a mio modo di leggere, e non sono dissimili da quelli della stampa sportiva o musicale che da sempre crea le rivalità ad hoc, all'interno di una stessa squadra o band o tra due squadre o band diverse, per vendere qualche copia in più (la stampa giornalistica ha sviluppato se non altro un linguaggio originale e i titoli de La Gazzetta dello Sport talvolta sono uno spasso).

Ci sono molti discorsi più interessanti che si potrebbero affrontare, al posto di prolungarsi in simili articoli, occupando le pagine dei quotidiani e perdendo così il tempo (beninteso, uno il tempo può perderlo come gli pare, a maggior ragione se gli viene pagato, ma almeno si senta dire che quello che scrive non è interessante). Ad esempio potremmo ragionare attorno al "libro" come opzione paradigmatica; parallelamente potremmo ragionare attorno all'istituzione editoriale della "collana"; poi potremmo occuparci con più attenzione dei contesti in cui si continua a proporre la poesia; potremmo infilarci dentro anche qualche discorso sui nostri desideri (perché no?); poi potremmo smetterla di lamentarci ripetendo la solita solfa e potremmo fare molte altre cose. La vita è breve, si dice, e pare anche a me, anche se la nostra vita (media) è l'unità di misura con cui siamo soliti stabilire ciò che ha vita lunga o breve, aforismava Oscar Wilde. Se avessimo un po' più coscienza di tutto il nostro nulla, potremmo vivere con maggior profitto, economico ed etico, l'avventura della poesia sulla faccia della terra. Questa "arte e tecnica di comporre versi o, più generalmente, di esprimere in forme ritmiche estranee alla prosa idee, sentimenti e realtà" potrebbe infatti aiutarci a spaccare il mondo per vedere meglio che cosa c'è dentro e riesaminarlo dopo un po'.

Da un punto di vista personale mi interessa chi continua a scrivere e pubblicare poesia senza troppe fisime, paure e paranoie, cercare di ascoltare e scoprire prima ancora di capire, senza continuare a vivere circondato di tutte queste sovrastrutture vecchie come il cucco, intrise di discorsi raffazzonati, un patchwork che ora para sul mercato, ora sui rapporti di potere (potere?), ora sulle amicizie, su giochetti sporchi o sull'alternativa secca tra l'essere distrattamente mainstream vs. l'essere fieramente underground. Sono cose note che ormai lasciano davvero il tempo che trovano. Ci fa schifo provare a scrivere e basta? Ci fa schifo provare a leggere e basta? Ci fa schifo, se capita, vendere? Ci fa schifo capire quali sono i meccanismi della produzione e promozione di un libro e osservare cosa accade alla poesia nella sua attuale scompaginazione? Ci fa schifo provare a criticare con criterio, argomentare con argomenti, domandare con domande e magari rispondere con risposte che riformulino meglio le domande, sempre guidati da una incrollabile fede nel nostro nulla? Ci fa schifo tornare a conoscere quali poesie si scrivono in altre lingue e magari tradurle? Per ora non mi fa schifo nessuna delle attività elencate, per cui mi rammarico della sterilità di articoli come quello che adesso finalmente vi indico e per il quale sviluppo solo un senso di stanchezza inaudita. 

Se la collana Lo Specchio chiude allora non è, come scrive Berardinelli, perché non ci sono più poeti pubblicabili, ma magari per altri motivi meno notiziabili e meno sensazionalistici: avrà esaurito la propria funzione e l'energia, avrà smesso di produrre un pur piccolo utile all'interno di un gruppo editoriale che ha determinate logiche di utile e marginalità, avrà pure esaurito la forza attrattiva del brand e magari verrà solo silenziata per qualche anno, per essere rilanciata fuori tempo massimo quando il vintage non andrà più di moda, magari con l'originaria grafica di copertina. Chi vivrà vedrà: morto un Papa se ne fa un altro. L'unico punto di interesse sembra essere dove Berardinelli si pone il problema di cosa significhi essere leggibile, anche se, alla fine, mi è sembrato pure quello un problema mal posto. Meglio tornare a parlare di "opera" e di "abitazione/coabitazione di un'opera", e da parte di un autore e da parte di un lettore, anziché porre simili domande. Infine, al di là del verosimile calo dell'argent de poche dedicato ai libri, riflettiamo piuttosto sul perché ci sono molte più inibizioni ad acquistare (anche d'impulso) un libro di poesia, rispetto ad un romanzo o a un saggio. Forse perché la poesia manca di storia e manca di idee? Eppure a me pare che niente più della buona poesia - che ancora si fa in giro per il mondo - sia d'aiuto a chi si interessa di storia-delle-idee.

martedì 14 luglio 2015

Quinto Antonelli e la "Storia intima della grande guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati dal fronte"

Leggere una grande guerra #16

"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).

Quinto Antonelli è direttore dell'Archivio della scrittura popolare presso il Museo storico del Trentino. Ha collaborato a La Grande guerra, l’opera edita da Utet curata da Mario Isnenghi e Daniele Ceschin. Da tempo il suo interesse staziona sulle narrazioni autobiografiche. Questo libro intitolato Storia intima della grande guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati dal fronte (Donzelli, pp. XVIII-320, euro 32, con allegato il dvd del film di Enrico Verra Scemi di guerra) restituisce, ancora una volta, quella che fu l'esplosione di scrittura che il conflitto fece deflagrare. Queste pagine riordinano un lavoro che prosegue da molto tempo e che finalmente trova la giusta collocazione all'interno di un catalogo di un editore rilevante a livello nazionale. Il titolo aggiunge l'aggettivo "intima" alla parola "storia" e se ne capiscono chiaramente le motivazioni: si crea così una provvisoria contrapposizione con la storia ufficiale, scritta dai vincitori o dai vinti, oppure con la storia dei bollettini, dei proclami. Non so se e a chi giovi questo frazionamento della storia in tante storie (intime, sociali, popolari, militari ecc.), ma si capisce quali sono i presupposti di una simile titolazione. Il libro in questione, unito al DVD del film di Verra, può essere impiegato a molti livelli, dalla lettura personale alla didattica. Naturalmente, in questi casi,  il pensiero ritorna anche agli studi di Leo Spitzer sulle lettere di prigionieri di guerra italiani. Chiudo con un'annotazione: oltre all'istituto trentino ricordato in apertura, su temi affini va senz'altro menzionato anche l'aretino "Archivio Diaristico Nazionale" di Pieve Santo Stefano, del quale segnalo questa recente iniziativa lanciata assieme a Finegil e L'Espresso.

giovedì 9 luglio 2015

"Black Rook in Rainy Weather" di Sylvia Plath nella traduzione di Luca Rizzatello


 
Accanto ai ratti di "al cor gentil ratto s'apprende" con le loro poesie inedite, compare un altro animale per nominare uno spazio dove si ospitano traduzioni di poesia: lo stregatto o Gatto del Cheshire di Lewis Carroll. Ratti e stregatti, insomma. Adotterò pregiudiziali e faziosi criteri per vagliare proposte di traduzioni, anche nei casi di lingue totalmente sconosciute come russo, coreano o giapponese (insomma, mi baserò su un traballante concetto di fiducia). Il gatto qui sopra è un particolare del dipinto "San Girolamo nello studio" di Antonello da Messina. Al di là delle molteplici simbologie e caratterizzazioni dei gatti, da Antonello a Carroll (Dante non è tornato utile stavolta perché un po' li snobba), qui proviamo a stregarvi con nuove traduzioni facendo le fusa. L'augurio è incoraggiare la traduzione poetica che un po' latita, anche nelle generazioni più giovani, e che qualche stregatto un giorno possa precipitare altrove, anche in un libro se capita.


UN CORVO NERO, UNA GIORNATA UGGIOSA


Lassù sul rametto stecchito
si raccoglie fradicio un corvo
nero che assetta e poi riassetta
le sue piume sotto la pioggia.
In un miracolo o in un caso
che mettano a fuoco la vista
nell'occhio non ci conto, non
cerco qualche intento nel tempo
malfermo, ma lascio le foglie
cadere come sanno senza
cerimonie, o prodigi. Anche
se, lo ammetto, a tratti aspetto
qualche moto dal cielo muto,
non mi lagno: una certa luce
marginale potrebbe ancora
guizzare rovente dal tavolo
della cucina o dalla sedia
come se ogni tanto una vampa
celeste possedesse quasi
tutti gli oggetti ottusi per
sacralizzare una parentesi
sennò inconsistente, per dargli
splendore, decoro, una forma
d'amore. Io ora mi aggiro
accorta (se accadesse pure
in questo opaco, rovinoso
paesaggio?); scettica ma cauta,
ignara di qualsiasi angelo
brillasse nei dintorni. So
solo che un corvo che si aggiusta
le piume nere sa risplendere
fino a rapirmi i sensi, issarmi
le palpebre, offrirmi una pausa
dalla paura della piena
neutralità. Se avrò fortuna,
valicherò ostinata questa
stagione spossante, potrò
rabberciare trame mediocri.
Ecco i miracoli. Se noi
ci curassimo di chiamare
miracoli quegli spasmodici
scherzi di radianza. Così
si riapre l'attesa, la lunga
attesa dell'angelo, della
sua rara, fortuita discesa.




BLACK ROOK IN RAINY WEATHER


On the stiff twig up there
Hunches a wet black rook
Arranging and rearranging its feathers in the rain.
I do not expect a miracle
Or an accident

To set the sight on fire
In my eye, nor seek
Any more in the desultory weather some design,
But let spotted leaves fall as they fall,
Without ceremony, or portent.

Although, I admit, I desire,
Occasionally, some backtalk
From the mute sky, I can't honestly complain:
A certain minor light may still
Lean incandescent

Out of kitchen table or chair
As if a celestial burning took
Possession of the most obtuse objects now and then-
Thus hallowing an interval
Otherwise inconsequent

By bestowing largesse, honor,
One might say love. At any rate, I now walk
Wary (for it could happen
Even in this dull, ruinous landscape); skeptical,
Yet politic; ignorant

Of whatever angel may choose to flare
Suddenly at my elbow. I only know that a rook
Ordering its black feathers can so shine
As to seize my senses, haul
My eyelids up, and grant

A brief respite from fear
Of total neutrality. With luck,
Trekking stubborn through this season
Of fatigue, I shall
Patch together a content

Of sorts. Miracles occur,
If you care to call those spasmodic
Tricks of radiance miracles. The wait's begun again,
The long wait for the angel,
For that rare, random descent.



mercoledì 8 luglio 2015

Scienze della comunicazione o lo stile Fosbury

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #7

In questo spazio così titolato provo, di tanto in tanto, a fermare pensieri che mi vengono spesso su libretti che mi piacerebbe scrivere se avessi capacità, tempo, spazi o persino, ancora più presuntuosamente, un committente. Oppure, meglio ancora, librini che vorrei trovare già scritti brillantemente da altri. Libri piccoli, che provino ad affrontare temi o autori che già hanno una bibliografia, ma con la voglia di provare a dire cose nuove, magari correndo qualche rischio. Non occorre scrivere tanto, pensate a certi articoli filosofici brevissimi, a come hanno cambiato tutto. Scrivendone così brevemente qui, mi faccio passare l'idea di intraprendere tortuosi percorsi inconcludenti.

Appartengo alla popolazione dei laureati in Scienze della comunicazione, forse il corso di laurea più bersagliato e stigmatizzato d'Italia. Ci troviamo davanti a un paradosso: questo corso non ha saputo comunicare se stesso, tanto che molti - compresi gli imprecisissimi italici giornalisti della carta stampata - lo chiamano "scienza delle comunicazioni" o "scienze delle comunicazioni". In questo post non intendo addentrarmi sulle statistiche relative all'impiego di chi è laureato in scienze della comunicazione o sulla sensatezza del piano di studi. Immagino ci siano tanti occupati, disoccupati e inattivi per ogni corso di laurea attivato negli ultimi anni in Italia. La cosa che ogni tanto mi chiedo è come può questo corso di laurea essere via via diventato lo zimbello fra tutti i corsi di laurea, esempio paradigmatico del mutamento peggiorativo dell'università italiana, tanto da guadagnarsi epiteti e varianti come "scienze delle merendine" o "scienze della parlantina". Inizialmente è stato sicuramente osteggiato dall'imprecisissima corporazione giornalistica (vedi sopra), poi a livello trasversale tutti quanti si sono divertiti, in un crescendo assai conformista che non dovrebbe stupirmi in quanto comune, a dirne peste e corna, con una facilità che è simile a quella che comunemente si chiama in causa quando si dice "sparare sulla croce rossa".

Ho detto che non mi sarei addentrato ad analizzare il piano di studi, anche perché da quel che so questo corso aveva accenti assai diversi a seconda dell'ateneo in cui veniva attivato. Io ad esempio l'ho frequentato a Padova e posso dire che ho avuto docenti preparati. Una volta il più importante tra i professori che ho avuto disse, quasi per celia, che a Padova il corso era stato attivato da un gruppo di ubriaconi una sera a casa di qualcuno in un clima festaiolo. Non mi importava se fosse vero: in fondo, quale miglior viatico? Dico solo che a ben vedere forse non ha giovato alla storia del corso di laurea la presenza "organizzatrice" di Umberto Eco e forse nemmeno il volgere in negativo del paradigma (paradigma?) strutturalista nel campo delle scienze umane (eppure si studiava tanto De Saussure e Barthes quanto Adorno e Horkheimer). Se fossi banalmente mosso da istinti comparativi, potrei chiedere a quanti lo chiamano in causa con compiaciuta ironia, per ripicca, quanti laureati in lettere brillanti hanno incontrato nella loro vita, quale trasformazione abbia portato al pensiero il numero non esiguo dei laureati in filosofia, quale spinta innovativa ed economica abbia portato il numero dei laureati in economia oppure quale ingegnere vi abbia rapito con un'intelligenza senza pari. Sarebbe un esercizio insulso e una provocazione stupida. Ciò che non riesco però a spiegarmi bene è come e perché un singolo corso di laurea, un corso come altri e per di più istituito a numero chiuso in molti casi (quindi con un numero non esagerato di laureati), possa essere diventato paradigmatico di un certo modo di riferirsi alla cattiva università. Ad un livello pratico-organizzativo posso dire questo: dove ho studiato io si producevano molti testi scritti e il numero maggiore dei respinti si trovava proprio nelle prove di scrittura. In quante facoltà si scriveva prima della tesi? Pochissime e si tratta di un problema arcinoto.

Sarebbe interessante che qualcuno (magari proprio un laureando in scienze della comunicazione) indagasse sulle cause di questa cattiva fama, insomma, vorrei capire perché si va a parare sul caso particolare e non si resta sulla cattiva fama che investe il sistema universitario e scolastico nel suo complesso, il quale non può limitarsi a cercare facili capri espiatori da sbeffeggiare. Scrivendone ora dico anche questo: ho l'impressione sempre più netta che questa cattiva fama tragga origine della "corporazione" giornalistica la quale, agli albori del corso di laurea in Scienze della comunicazione, non tardò a mettere in opera una vera campagna diffamatoria, probabilmente dettata dalla più banale delle ragioni: la paura di una nuova concorrenza giovane, magari preparata, magari meno imprecisa. Fra l'altro molte teorie impartite a futuri insegnanti tramite SSIS SOS o TFA si insegnavano regolarmente a Scienze della comunicazione, che tuttavia non prevedeva alcun sbocco nell'ambito dell'insegnamento. Di sicuro Scienze della comunicazione ha scontato la mancanza di heritage e si sa che quello di heritage è un concetto "fuffoso" ma portante, tanto per vendere un corso di laurea quanto per vendere un paio di jeans. Molti corsi erano mutuati da corsi di laurea esistenti da decenni ai quali non era riservato un così feroce e sarcastico trattamento. Non si capisce perché questo corso, spesso a numero chiuso, dovesse diventare la quintessenza del peggio. Nell'impolverato bricolage dell'università italiana il corso di laurea in Scienze della comunicazione non è affatto lontano da quanto è accaduto in tutta l'università italiana nel suo complesso e pochi corsi di laurea, al di fuori di alcuni corsi scientifici, si sono attrezzati per interpretare il mondo di oggi. Da par mio, se mi fossi iscritto a scienze geologiche come inizialmente pensavo, ora sarei forse più cool. Mi chiedo poi: se avessi fatto fisica andrei in giro con quella rarefatta, indetermintata e distratta eleganza di certi fisici che sembrano sempre con la testa altrove? Mi piacerebbe. Confesso che nei momenti di maggiore sconforto più che alla fisica penso all'educazione fisica e mi domando se iscrivermi a scienze motorie e trasformare un po' la mia vita diventando un prof di ginnastica delle medie che insegna lo stile Fosbury.

domenica 5 luglio 2015

Due poesie di Robert Walser nella traduzione di Claudia Ciardi


 
Accanto ai ratti di "al cor gentil ratto s'apprende" con le loro poesie inedite, compare un altro animale per nominare uno spazio dove si ospitano traduzioni di poesia: lo stregatto o Gatto del Cheshire di Lewis Carroll. Ratti e stregatti, insomma. Adotterò pregiudiziali e faziosi criteri per vagliare proposte di traduzioni, anche nei casi di lingue totalmente sconosciute come russo, coreano o giapponese (insomma, mi baserò su un traballante concetto di fiducia). Il gatto qui sopra è un particolare del dipinto "San Girolamo nello studio" di Antonello da Messina. Al di là delle molteplici simbologie e caratterizzazioni dei gatti, da Antonello a Carroll (Dante non è tornato utile stavolta perché un po' li snobba), qui proviamo a stregarvi con nuove traduzioni facendo le fusa. L'augurio è incoraggiare la traduzione poetica che un po' latita, anche nelle generazioni più giovani, e che qualche stregatto un giorno possa precipitare altrove, anche in un libro se capita.

LUCE OPPRIMENTE


Stanno due alberi nella neve,
stanco della luce, il cielo
se ne va e null'altro intorno
che non sia malinconia

E spuntano dietro gli alberi
scure case.
Ora si sente uno discorrere,
ora i cani si mettono ad abbaiare.

Ora nella casa appare
la cara lampada rotonda come la luna.
Ora è spenta,
come una ferita aperta.

Quanto piccolo il vivere qui
e quanto grande il niente.
Il cielo, stanco della luce,
tutto ha dato alla neve.

I due alberi le teste
chinano fra loro.
Alla quiete del mondo
fanno girotondo le nubi.


ORA


L’ora viene, l’ora va;
tante cose ci sono in un’ora,
i contrasti del sentire,
la nostalgia che come vento del mattino spira.
In un’ora pronuncia il giorno
le sue preghiere o imprecazioni,
e sempre io resto una misera casa
piena di giubilo e dolore.
In un’ora è il mondo intero
così ignaro e senza voglie,
e io, ah, quasi mai so
dove riposa e si nasconde il mio mondo.



 
 
Drückendes Licht 


Zwei Bäume stehen im Schnee,
der Himmel, müde des Lichts,
zieht heim, und sonst ist nichts
als Schwermut in der Näh’.

Und hinter den Bäumen ragen
dunkle Häuser hinauf.
Jetzt hört man etwas sagen,
jetzt bellen Hunde auf.

Nun erscheint der liebe, runde
Lampenmond im Haus.
Nun geht das Licht wieder aus,
als klaffte eine Wunde.

Wie klein ist hier das Leben
und wie groß das Nichts.
Der Himmel, müde des Lichts,
hat alles dem Schnee gegeben.

Die zwei Bäume neigen
ihre Köpfe sich zu.
Wolken durchziehen die Ruh’
der Welt im Reigen. 



Stunde 


Die Stunde kommt, die Stunde geht;
in einer Stunde liegt so viel,
liegt der Gefühle Widerspiel,
liegt Sehnsucht, die wie Frühwind weht.
In einer Stunde spricht der Tag
sein Beten oder Fluchen aus,
und ich bin stets das arme Haus,
gefüllt mit Jubel oder Plag’.
In einer Stunde liegt die Welt
nichtsahnend, nichtsbegehrend so,
und ach, ich weiß nicht immer wo
sie ruht und schlummert, meine Welt.



Una nota di Claudia Ciardi



Robert Walser (Bienne, 15 aprile 1878 – Herisau, 25 dicembre 1956), conosciuto più come prosatore che come poeta, inizia a scrivere versi intorno alla fine dell’Ottocento. Il quotidiano bernese «Der Bund» pubblica sei suoi componimenti nel maggio 1898. La nota di presentazione compilata da Josef V. Widmann riporta che Walser si esprime con una «sicurezza di sonnambulo», cogliendo fin dal suo primo manifestarsi i tratti di una personalità poetica sui generis, sospesa e quasi immobilizzata nel conflitto tra mondo esterno e spazio interiore. Ogni volta che il poeta intraprende una via conciliante tra sé e ciò che lo circonda, qualcosa cede il passo al distacco, a una sorta di rassegnata tensione dove le forze dell’esistenza si esauriscono. La tregua è possibile solo in rari istanti di beatitudine che subito dissolvono.

Anche nella sua quotidianità Walser fu così, figura centrale del panorama letterario d’oltralpe ma uomo defilato, estremamente schivo, tanto da aver vissuto sette anni a Berlino (1905-1913), la nascente metropoli, «la vorticante fabbrica del mondo», per dirla con Else Lasker-Schüler, senza clamore. L’epigrafe schüleriana non a caso viene qui portata all’attenzione del lettore. Sul numero 31 della rivista «Incroci» diretta da Lino Angiuli e pubblicata da Adda Editore, è appena uscito un mio contributo nel quale presento un brano della grande letterata tedesca. La prosa, inedita in Italia, fa parte dalla raccolta Concerto, di cui mi sono precedentemente occupata per Via del Vento, e si presta a una serie di considerazioni sull’immaginario della Kindheit, esplorato dai nomi di maggior rilievo della cultura tedesca di inizio Novecento. Gli accenti dello sradicamento schüleriano, che nutre un raffinato gioco di mimiche orientali doppiato nel ricordo della casa-rifugio a Wuppertal, mi hanno svelato più di un’affinità proprio con Robert Walser, magnifico esemplare di eremita delle lettere tedesche. 

Maestro di levitas, ossia narratore lieve di cose lievi, secondo la duplice accezione latina che si riferisce a quel che è levigato e leggero. Nella scelta dei suoi temi sembra un miniaturista orientale: una nevicata notturna, la pioggia, la luce in una sera d’inverno. All’inizio del 1909 l’editore berlinese Bruno Cassirer gli pubblicò una raccolta di quaranta poesie, la maggioranza composte circa un decennio prima, quando era ancora un giovane impiegato di commercio a Zurigo. Da qui provengono le due liriche selezionate per questa rubrica, offerte al lettore in nuova traduzione italiana.