martedì 29 settembre 2015

CartaCarbone 2015, la seconda edizione del festival letterario di Treviso dal 15 al 18 ottobre


Tra il 15 e il 18 ottobre a Treviso avrà luogo la seconda edizione del festival letterario CartaCarbone, a cura dell'associazione Nina Vola. 80 eventi, 18 tra letture sceniche e spettacoli, 150 ospiti (qui la lista completa), 6 laboratori, 3 tavole rotonde, 3 eventi speciali sono i numeri con cui la manifestazione si propone, con questa nuova edizione dal respiro decisamente più internazionale, di consolidare il successo di pubblico registrato all'avvio nel 2014. Una cura rilevante è dedicata alla poesia e per l'approfondimento del versante poetico del programma riporto di seguito il comunicato ricevuto da una delle curatrici del festival, Paola Bellin. Il programma completo è ovviamente consultabile a questo indirizzo (oppure qui come pdf interattivo).
 
CartaCarbonePoesia

Luciano Cecchinel
CartaCarbone festival 2015, alla seconda edizione, si apre alla poesia proponendo otto incontri con autori che tracciano il mondo poetico italiano, e da quest’anno anche internazionale, grazie alla presenza di uno dei più importanti poeti vietnamiti, Nguyen Chi Trung che con Venti (Samuele Editore, 2014) si domanda come il suono della morte viva nel vento, nei luoghi dove la concretezza dei suoi studi matematici si contrappone all'astrattezza di quelli filosofici. Poeti riconosciuti per originalità e cifra stilistica, oltre che per incisività del messaggio: Luciano Cecchinel e il plurilinguismo aspro e franto dei suoi versi che in silenzioso affiorare esprimono la necessità del ricordo, memento da non lasciare andare; Vivian Lamarque, poetessa limpida, che raggiunge il lettore grazie alla musicalità dosata e chiara dei suoi versi, sfrondata di ermetismi e capace di stupire con una poesia illegittima; Roberta Dapunt, il cui dialogo con il sacro si manifesta nei misteri del quotidiano, nelle beatitudini della malattia. Ma anche poeti giovani: Francesco Targhetta, autore di raccolte poetiche, l’ultima Le cose sono due (Valigie rosse, 2014), e di un romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie (Isbn edizioni, 2012), osserva e rappresenta, senza sconti per l’io-poetico, l’umanità della porta accanto che corre, latita, attende nella contraddizione dei molti e dei nessuno; Giovanni Turra e la fisicità della sua trama poetica, nudità sensuale delle parole visive, orografia dei corpi in Con fatica dire fame (La Vita Felice, 2014). Simone Maria Bonin, giovanissimo poeta, traduttore e curatore della poesia del poeta statunitense Hart Crane in Atlantide (Thauma edizioni, 2014), dialogherà, raccontandosi nelle forti esperienze di viaggio, dell’essere altrove per esplorare e stemperare l’io-poetico, in un incontro di urgenza poetica e grafico-poetica, con Riccardo Fabiani, poeta, illustratore, viaggiatore che traduce l’esperienza di cammino in uno schedario emotivo raccolto in Road Trippin, realizzato tramite crowdfunding in completa autonomia editoriale. Altra presenza significativa sarà quella di Antonio Turolo la cui raccolta Corruptio optimi pessima (Nuova Dimensione, 2007) rappresenta uno degli esempi più alti di poesia italiana degli ultimi anni. Poesia che scandaglia e si restituisce integra all’onestà del sentire attraverso una lingua limpida lontana da equilibrismi labirintici.

Incontri con poeti ma anche poetry slam con Lello Voce, poeta, scrittore, performer poliedrico della poesia sonora e affabulatorio interprete, tra i fondatori del Gruppo 93 e del semestrale letterario "Baldus". Insieme ai poeti che coinvolgeranno il pubblico nella performance di poetry slam anche Nicolas Alejandro Cunial, già presenza apprezzata nella serata dedicata alla poesia giovane Uno Punto Due di anteprima del festival, poeta performer in effrenata e dirompente azione di arti combinate, pillole di carne cruda (La Gru, 2013). Ospite d’onore del poetry slam un grande poeta, scrittore italiano, Nanni Balestrini, esponente di rilievo della neoavanguardia (gruppo dei poeti Novissimi, Gruppo 63) presente a CartaCarbone festival con il suo ultimo romanzo Carbonia (Bompiani, 2013).

Ancora poesia nella dirompenza del rap declamato, affermato, in continua combinazione simbiotica di musica e parola senza mediazione, con la presenza di Taiyo Yamanouchi, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Hyst, dirompente forza musicale che comunica energia, positività in un mix alchemico di racconto poetico, ricercato nella parola che incide, e di potente formula sonora. Insieme a Nicolas Alejandro Cunial, impegnato anche in questa performance, e Federico Martino Big F, rapper e visual performer, anche lui già apprezzato nell’evento Uno Punto Due, travolgente nella sua libertà dai quattro/quarti in nome dell’autonomia della parola.

Versi itineranti , poesia errante quelli del performer poeta di strada MaRea che appende come panni stesi le sue poesie e le diffonde per le strade delle città, in luoghi insoliti: Stendiversomio per tirar fuori le parole dal chiuso dei libri.

Poesia dell’ineffabile nella Lectura Dantis di Ivano Marescotti, attore di teatro e di cinema, interprete per i canti I, V, XXVI dell’Inferno, e nel commento/declamazione di Giorgio Battistella del XXXIII canto del Paradiso.
(p. b.)

sabato 26 settembre 2015

"Zangwill" di Charles Péguy

Péguy morì in battaglia nel 1914 a Villeroy, durante le prime mosse sul fiume Ourcq, preludio della Prima battaglia della Marna. Aveva 41 anni e sino ad allora aveva scritto poesie e contributi giornalistici e critici. Fu il quasi solitario animatore di una rivista chiamata "Cahiers de la Quinzaine", che cessò di esistere col sopraggiungere della sua morte. (In questo assumere una rivista come punto privilegiato per la propria scrittura Péguy assomiglia molto al filosofo spagnolo Ortega y Gasset e mi auguro che avremo modo di tornare su Ortega a breve). Charles Péguy è un autore importante per ritornare su quel periodo che va dall'Affaire Dreyfus allo scoppio della guerra. Fu normalien e allievo di quel Bergson che a fatica si affronta, nella gittata del suo pensiero e della sua azione (pensiamo anche solo al nostro Ungaretti, e sono cose risapute); i suoi scritti riaffiorano da più parti se torniamo alle tensioni intellettuali che contraddistinsero quel periodo. Péguy fu insomma un uomo che in quegli anni determinanti seppe tenere vicino a sé, fra gli altri, Romain Rolland e Julien Benda e che nella sua "conversione" abbagliante e forse abbagliata può ancora offrire degli appoggi utili a chi si preoccupa di come raccontare la storia. 

Zangwill, proposto da Marietti 1820 per la cura di Giorgio Bruno (pp. 100, euro 14), s'intitola così perché è la prefazione a un racconto di Israel Zangwill intitolato Chad Gadya! Zangwill era un autore inglese di origini ebraiche ospitato proprio dai sopra ricordati "Cahiers de la Quinzaine". Ed è bene ricordare questo dato, anche se oggi non leggiamo questo testo come una prefazione ma come libro indipendente, perché tutti i testi sono sempre legati e si muovono assieme, come onde, per quanto poi prendano le strade di tanti "pacchetti" che sono i libri scritti. Oggi diremmo che il cattolicissimo Péguy in queste pagine del 1904 prende di mira le posizioni positiviste di Taine e Renan, due assi portanti del telaio culturale francese, tanto che c'è chi, con un neologismo, ha pensato di parlare di una tendenza costante al renanotainisme della storia letteraria francese in particolar modo. Al di là della ricerca di un principio trascendente che sia in grado di offrire senso alle vicende del mondo (in questo vicino a Manzoni), quello che interessa in Péguy (parlo per me, naturalmente), una volta sfrondati gli eccessi di un estremismo religioso, è quel disagio nei confronti della scrittura e sistematizzazione della storia. Nella sua prosa turgida e a tratti un po' frondosa, tutto questo si può ancora ravvisare e mantiene una sorta di chimica fertile. E anche in questo Péguy sta in compagnia di don Lisander, pur partendo e arrivando a posizioni diverse. Insomma Péguy oggi ritorna in discussione ogni volta che ci poniamo il problema del racconto della storia (pur sempre di racconto si tratta), di quel che accade come di quello che non accade, di quello che si ricorda così come di quello che si dimentica: quel racconto è in fondo la sola cosa che conta, è in grado di sconvolgere e avvelenare (ben più che purificare) animo e popoli, muovere e far girare quella che per Javier Marías resta la "pigra e debole ruota del mondo".

martedì 22 settembre 2015

Esce finalmente per Marsilio il libro su Dante di Ezra Pound, un sogno editoriale che fu di Vanni Scheiwiller

Certi libri possono rimanere opere irrealizzate per decenni e poi essere finalmente pubblicati, in un modo bellamente intempestivo, anche se, volendo trovarci l'aggancio, sappiamo che quest'anno ricorrono i 750 anni dalla nascita di Dante. Il caso di questo Dante di Ezra Pound (pp. 252, euro 20, a cura di Corrado Bologna e Lorenzo Fabiani), finalmente realizzato da Marsilio, sta lì a ricordarci come questo possa ancora accadere. Si tratta di un libro composito a lungo sognato da Vanni Scheiwiller, che ne desiderava l'uscita entro l'anno 1965, settecentenario della nascita di Dante. Poi, per i casi della vita, il libro non si poté più realizzare. Poeta e figura controversa, in grado di attraversare un intero secolo e oltre sempre da protagonista, vero "ponte" in senso diacronico e geografico, diatopico, data la sua capacità di tenere piedi, occhi e orecchie in più continenti (oltre all'America e all'Europa non va dimenticato infatti il rapporto di Pound con l'estremo oriente e il legame con Ernest Fenollosa), Ezra Pound non ha smesso di inondare con la sua presenza molti dibattiti. Questo volume è tutto incentrato sul trasporto verso Dante e Cavalcanti e sugli scritti che a più riprese uscirono spesso su riviste. Nel suo incedere e nel suo confezionamento non dimentica di ricordare le accuse di pressappochismo e dilettantismo rivolte a Pound da parte di una stizzita "nazionale filologi". Ben vengano però anche un certo pressappochismo e dilettantismo, ben vengano persino nuovi "Bignami" del nostro tempo (se con questa immagine intendiamo dei libri "sintetici" che abbiano la forza di attraversare con le vertigini del coraggio territori vasti e desolati), ben venga l'errore interpretativo clamoroso se la mente che si esercita su una materia può aggiungere elettricità e movimento alla poesia, alla critica, insomma se sa porre una nuova giusta domanda alla vita.

Parlare di "riscoperta" di Dante nel ventesimo secolo è curioso e tutto ciò si ricollega a discorsi già fatti sul canone. Sfido chiunque a trovare un autore che più di Dante sia rimasto saldamente ancorato attraverso molti secoli a un canone, italiano e mondiale, della letteratura. Eppure parlare di riscoperta di Dante ha senso - una riscoperta messa in atto da altri, e si pensi solo al geniale scritto di Mandel’štam allora - e ci ricorda che il blasone del canone può rapidamente diventare toilet paper se non proviamo a sfoderare continuamente una spada di intelligenza sulle opere, a tenere alta la guardia dell'attenzione, tanto più nella vorticosa, divoratrice e coprofaga realtà d'oggi. Con i suoi scritti danteschi Pound mise in atto un'operazione che si sviluppò su diverse strade e lo fece anche tramite una rete di corrispondenza e relazioni umane che ebbe del prodigioso. Il mondo se ne accorse e quest'energia è quanto ha spinto avanti la sua lettura di Dante.

Ecco allora che nei decenni dell'avvilente avviamento benigniano alla propedeutica dantesca, questo sogno editoriale di Scheiwiller realizzato cinquant'anni più tardi da Marsilio ci rinvigorisce e funziona come antidoto contro molti veleni: contro un'idea statica di letteratura e del testo letterario (non cade mai a caso il binomio Eliot-Pound), contro la morte del pensiero perpetrata da tanta parte dell'accademia (cose risapute, ma meglio ricordarcelo visto che l'accademia succhia anche non poche risorse), contro la pavidità sempre latente che ci opprime quando viviamo le situazioni della letteratura, contro il calcolo perverso e alla fine controproducente in cui si culla l'editoria letteraria sedicente tale, ma anche contro chi, con un po' di esterofilia fuori tempo massimo, addita la lingua italiana come incapace di fare cose con le parole e poeticamente svantaggiata rispetto ad altre. Una bella pagina di critica e di poesia insomma, qui per forza saldamente legate come in fondo dovrebbero essere, ma anche una bella pagina di storia editoriale che molto ha a che fare con Venezia. Bello che sia così e non è cosa di tutti i giorni.

giovedì 17 settembre 2015

"Una notte" di Lou Andreas Salomé

La collana "I quaderni di via del Vento", dell'omonima casa editrice pistoiese, prosegue da anni un lavoro tenace di pubblicazione di testi inediti e rari del Novecento. Sarà sufficiente uno sguardo a queste pagine per avere un riscontro immediato di quanto appena affermato. Ed è bellissimo questo racconto di Lou Andreas Salomé, inedito (e chissà perché) sinora in italiano. Una notte (a cura di Claudia Ciardi, traduzione di Claudia Ciardi e Katharina Majer, via del Vento edizioni, venduto all'interessante prezzo di euro 4) offre, prima di ogni altra cosa, lo spunto per provare a formulare un pensiero che da molto mi gira in testa. Figure femminili mitiche, o comunque mitizzate come quella di Lou, vivono perfettamente anche al di fuori del cono di luce riflessa che deriva dal ricordare, ogni volta che le si nomina, i grandi poeti e pensatori che hanno frequentato, amato o con i quali c'è stata corrispondenza (in tutte le accezioni della parola corrispondenza). Nel caso di Louise von Salomé infatti sono puntualmente ricordati il marito orientalista Carl Andreas, professore di persiano e turco, Nietzsche (e si ricorda il Triangolo di lettere tra Lou, Nietzsche e Paul Rée pubblicato da Adelphi) e la relazione con Rainer Maria Rilke. Quel che voglio dire è che queste relazioni hanno sicuramente un peso notevole in una vita (Nietzsche è il filosofo che sappiamo, Rilke è il poeta che sappiamo), ma il rischio è quello di portarsi a casa uno sguardo unidirezionale e fuori asse. Chi ha letto le lettere o chi s'appresterà a leggere questo racconto, concluso in maniera splendida con un finale ineffabile, converrà che è bene sganciarsi da questo ricordo di Lou Salomé ed è il tempo per dire che tutti i sodalizi della sua vita sono stati importanti ma non possono essere determinanti nell'accogliere e valutare la sua opera, la quale può essere studiata come qualsiasi altra opera proveniente dal genere umano. Anche questo ragionamento rientra nelle annose problematicità del biografismo in letteratura, di cui qui si è più volte provato a dire, sebbene io sia abbastanza certo che qualcuno mi suggerirebbe di inquadrarlo meglio dentro una cornice di gender studies (e posso immaginare che con Lou Andreas Salomé questo sia accaduto a più riprese).

Inutile dedicare troppe righe a riassumere questa manciata di pagine. Oltretutto, i libri di quest'editore pistoiese mantengono prezzi assai ragionevoli, nonostante la rarità (e quindi la preziosità) della proposta e della collana nel suo insieme. Dico solo che dopo averlo letto si è rafforzata la convinzione che sia profondamente sbagliato continuare a vedere Lou come femme fatale del Novecento e che vada smarcata assolutamente da questa visione, sbagliato anche guardare alla protagonista di Eine Nacht, Elly, come altra donna fatale. La riuscitissima ambientazione notturna in un ospedale dove Elly è già stata come paziente e dove ritorna una sera, in un palpabile alone di imbarazzo, a trovare un giovane medico crea una matassa di non detto che si trattiene dal franare, per tutta la durata della storia. Anzi, la matassa muta. Ma sono anche le traiettorie degli sguardi, oltre all'incontro e al dialogo tra Elly e Berthold, che reggono questa prosa, che nella sua brevità - una notte, appunto - prevede pure la solidutine per Elly, in qualche modo prigioniera dell'ospedale a causa di un allontanamento di Berthold, chiamato al capezzale di un paziente morente. Forse è l'inserto della morte che cambia segno alla storia e muta la matassa di cui si diceva, inverte le direzioni degli sguardi ed Elly, che era entrata in ospedale quasi invisibile, esce dal plesso presto la mattina, in una scena finale tanto delicata quanto potente e di rara efficacia, quasi trasparente a se stessa.

lunedì 14 settembre 2015

Domatori di organi_Silvio D’Arzo

di Luca Rizzatello

Fra qualche tempo – così, in via amichevole – ti invierò anche qualche mia poesia che qui è piaciuta. Alcune usciranno sul “Contemporaneo” – ma attento a non dir niente: ci ho messo sotto “Andrew Mackenzie” (traduzione di Silvio D’Arzo). E tutti ci han creduto! Un letterato che conosci anche tu le ha trovate tutte di suo gusto, e ha avuto perfino il coraggio di dire che l’originale di una di queste lui l’aveva letta in un’antologia di poeti canadesi. Siamo già a questo punto!1. Nel rapporto epistolare con l’editore Enrico Vallecchi, le questioni legate alla scelta del nome2 ricorrono con altissima frequenza, essendo il mascheramento, come è già stato rilevato dai critici, parte integrante del processo di scrittura di Ezio Comparoni. Il ritratto di (per convenzione e comodità) Silvio D’Arzo, prenderà quindi le mosse proprio da una poesia in cui l’eteronimo raddoppia, dal momento che all’anagrafe non esistevano né Andrew Mackenzie, autore del presunto testo originale, tantomeno il suo traduttore, Silvio D’Arzo3. SD’A non ha mai pubblicato un libro di poesie4; alcune poesie sono uscite in rivista, firmate con nomi differenti5.

Purgatorio di A. Nervud, Professore (1897…)6

Quassù, dove l’amaro
del mandorlo si fa
non già profumo, ma sentimento,
lontano come l’ultimo
pomo rimasto all’albero
io sento, Ettore, te, che al sicomoro
mesto appoggiavi la fragile lancia
nello sgomento plenilunio.
Ma te, quello
che dall’ultimo banco sorrideva
nel suo lucido riso
di me vecchio bambino e della verde
luna che piange sui lecci del mare,
perché sento vicino come l’anima
del mio pietoso mandorlo? – Oh ragazzo,
ironico ragazzo,
che in fiduciosa immemoria
vai sicuro di te per le tue strade.
[...]
Ma qui, dove l’amaro
mandorlo di me respira
e la nostalgia si fa trifoglio,
perché infrangermi ancora
del mio Ettore morto sul lido l’amabile sguardo?
perché avvilirmi questa
poca memoria di perdute arene?

Ogni tecnica propriamente detta ha una propria forma. Ciò vale per ogni atteggiamento del corpo. Ogni società ha abitudini proprie. […] Ebbi una specie di rivelazione, mentre ero degente in un ospedale di New York. Mi chiedevo dove avessi già visto delle signorine che camminavano come le mie infermiere. Avevo tutto il tempo di riflettere. Mi ricordai, infine, che le avevo viste al cinema. Tornato in Francia, notai, soprattutto a Parigi, la frequenza di questa andatura: le ragazze francesi camminavano nello stesso modo. In effetti, grazie al cinema, il modo di camminare americano cominciava ad arrivare anche da noi. […] Abbiamo commesso, io stesso ho commesso per molti anni, l’errore fondamentale di ritenere che esistano delle tecniche solo quando ci sono gli strumenti. Bisogna, invece, ritornare a nozioni antiche, ai dati platonici sulla tecnica (Platone parlava di una tecnica della musica e in particolare della danza) ed estendere questa nozione. Io chiamo tecnica un atto tradizionale efficace (e voi vedete che, sotto questo aspetto, esso non differisce dall’atto magico, religioso, simbolico). Occorre che sia tradizionale ed efficace. Non esiste tecnica né trasmissione, se non c’è tradizione.7


A più riprese, SD’A si confronta con il suo editore Enrico Vallecchi esprimendo una posizione lucidamente orientata in merito al dispositivo della traduzione. Quando scrive che un editore di Milano mi ha proposto di tradurre per lui qualche buon testo inglese: io, nel parlargli, gli ho manifestato le mie simpatie per Conrad (in questo caso, tradurrei “Youth”, che è così bello e in Italia pressoché sconosciuto) e per Barrie. […] Ora, dal momento che mi è venuto voglia di tradurre opere brevi e complete, (ma lentamente, maturamente, quasi rivivendole) io ho pensato a te8, oppure che sono molto contento che a te piaccia, per la tua Biblioteca, “Peter Pan”: io cercherò di tradurlo nella migliore maniera possibile: e spero che mi riuscirà perché non faccio né farò mai il traduttore di professione, e tradurrò soltanto in casi eccezionali, quando troverò un’opera che per me rappresenti veramente qualche cosa. Mi piacerebbe (e rispondimi se sei dell’avviso) fare precedere la traduzione da un sostanzioso saggio su “Peter Pan” particolarmente (si capisce) e in generale sulla letteratura infantile: un problema che mi ha sempre interessato moltissimo9, SD’A ribadisce la distanza che separa la traduzione di professione dalla traduzione come strumento anzitutto autoconoscitivo (ovvero ancorato ad un immaginario estremamente significante, che consenta di attraversare le opere non tanto come meri spazi del testo, ma come passaggi dell’esperienza, quasi rivivendole); questo processo, che si sviluppa a partire da un principio di piacere (seppur mediato dalla coscienza critica di un lettore/scrittore), consente (direi meglio necessita) in un secondo momento l’apertura a speculazioni teoriche che consentano l’inserimento di uno specifico testo/tassello nel quadro generale della tradizione: un’altra ragione del mio ritardo e, credo, del mio esaurimento nervoso è lo studio che ho fatto su alcuni grandi scrittori inglesi e americani: ho letto molto e ho tratto appunti e considerazioni perché il mio intendimento è, anche, quello di pubblicare un volume (e, più, col tempo) di saggi su grandi autori non conosciuti come meriterebbero: non rivelazioni, però: io alle rivelazioni credo poco: ma, per esempio, (ci sto già lavorando) uno studio abbastanza lungo su “Tre viaggi”: quello di “Gordon Pym”, quello del capitano Achab di “Moby Dick”, quello dell’”Hispaniola” di Stevenson ectc. E cercherò che la forma sia adatta, non all’angolo del caffè e nemmeno alla piazza, ma allo studio, alla sala da pranzo o cose simili. Si verifica una situazione (paradossale, stando agli intenti espressi da SD’A) in cui l’opera di divulgazione di autori altri si risolve in una proiezione: non essere conosciuto come meriterebbe è infatti uno dei temi ricorrenti nelle lettere di SD’A, tanto nella dimensione autoriale10, quanto in quella esistenziale11. Quindi il testo altro da introiettare e da tradurre, che in prima battuta si allinea con l’invito al viaggio, o alla dislocazione, diventa un organismo autosufficiente, soggetto a un rovesciamento radicale che lo rende estraneo anche alle logiche di mercato per le quali era stato concepito: bene, io ti voglio fare una proposta: e ti prego, ripeto, di ponderarla con spirito amichevole ed attenzione: anche perché se fosse realizzabile, si potrebbe tagliare la testa a tutti gli ostacoli del mondo.  […] potresti tu, anche senza che il libro fosse pubblicato in Italia, proporne la traduzione agli editori inglesi e americani di cui mi parlavi e coi quali sei a contatto?12+12bis. Poi, traduce The scholars13, di W. B. Yeats, che in origine è così:

Bald heads forgetful of their sins,
Old, learned, respectable bald heads
Edit and annotate the lines
That young men, tossing on their beds,
Rhymed out in love’s despair
To flatter beauty’s ignorant ear.

 
They’ll cough in the ink to the world’s end;
Wear out the carpet with their shoes
Earning respect; have no strange friend;
If they have sinned nobody knows.
Lord, what would they say
Should their
Catullus walk that way?

ma sembra che questa poesia la abbia scritta lui; prendiamo questi forgetful, ignorant e nobody knows in posizioni così forti: esperienza VS oblio. Nella poesia Così vinti dal dolore…14 si legge: Oh sapere, sapere. E non potere scordare, in Canto d’amore del supplente Fleirbig15 si legge: e che solo può darmi sollievo perché non sa niente di me, in Il lamento dell’Anna dei bambini (Imitazione da una ballata inglese)16 si legge: Bambino, che mi hai tutto donato e tutto tolto/ e fatto dimenticare qualche volta/ d’essere povera, ingenua e senza sole. Fuori dal testo, il depistaggio messo in atto per evitare di tracciare un’unica identità, o in altri termini la possibilità di poter fare perdere le proprie tracce in qualsiasi momento per ripartire, viene progettato e condiviso con pochi amici eletti, non senza contraddizioni: 1) ti prego – dal momento che ormai, penso, il “caso d’Arzo”, a Reggio, fra gli amici, sarà già stato messo in archivio – di fare sempre appello alla tua impassibilità: dal momento che io, per nulla al mondo, dirò mai che sono S.d.A., né prove definitive mai verranno, tu non farai mai quelle brutte figure che già temi. Secondariamente, penso – se io ho difeso contro tutti così rabbiosamente quel segreto, cambiando nome, età, faccia e ogni cosa – che autorizza mai gli amici pensare o – peggio – a sospettare che tu sia stato messo al corrente della cosa? […] 2) Ho deciso di non scrivere più. (Con serenità, sai, con piena serenità: il fatto che qualcheduno (che non sia tu) sa o sospetta che sono io, m’impedisce di scrivere: è così17. Ma non è tutto, e infatti iniziamo da un termine cardine: aware, o meglio mono no aware. Il termine è molto antico, ma la consapevolezza del mono no aware nasce solo in periodo Heian. All’inizio era un semplice aa oppure hare: «Aa, che splendida luna!», «Hare, che bel fiore! », che poi si fuse in aware. Si trattava di esclamazioni di piacevole sorpresa del tipo: «La luna velata, aware!», con le quali si intendeva sottolineare qualcosa di bello, qualcosa la cui vista destava un acuto coinvolgimento personale. Successivamente aware si scrisse con il carattere di tristezza, dispiacere, pietà: una sensazione di melanconia, molto spesso sucitata proprio dalla bellezza di ciò che si sta ammirando e dalla consapevolezza che è destinata a sfiorire. Mono no aware è la «sensibilità delle cose» e nasce dal rapporto tra vita e sogno, realtà e visione, natura e arte, sentimento e passione. […] La difficoltà di rendere in modo adeguato in un’altra lingua cos’è il mono no aware sta proprio in questo: non si tratta di un concetto estetico, ma di una percezione che accomuna il soggetto a ciò che lo circonda18. Nell’operazione di SD’A la varianza delle identità è inversamente proporzionale alla costanza stilistica, esposta ai limiti del monolinguismo; consideriamo alcune ricorrentissime parole talismano:

Purgatorio di A. Nervud, Professore

-         Quassù (A), dove l’amaro
-         nello sgomento plenilunio (B)
-         della verde | luna (B) che piange sui lecci del mare


Così vinti dal dolore…

-         che sull’asino (C) gramo | te ne andavi cantando
-         colla luna (B) impigliata contro i rami del noce
-         te ne andavi cantando per crocicchi e le siepi (D)
-         e che almeno la nebbia (E) che mi scende sugli occhi
-         impedisse che lei, lei, più grande d’un secchio (F)


Canto d’amore del supplente Fleirbig

-         sul dolce morir dell’autunno (G)
-         saliva il fianco del colle (A)
-         sparendo al ciglio del consueto colle (A)


Rimpianto (frammento)

-         Ah, le nebbie (E) d’autunno (G)
-         luna (B) impigliata ai rami del mio nudo | noce
-         via, su asini (C) vecchi come case
-         per colli (A) e siepi a fare le serenate!...


Il lamento dell’Anna dei bambini (Imitazione da una ballata inglese)

-         e i tuoi compagni che sbucano, poi, cauti, uno ad uno, dalle siepi (D)
-         col tuo secchiello (F) dei pesci (L) fra le mani


I bambini hanno il vestito nuovo

-         alla vecchia Collina (A) di Pictown
-         Il Buon Maestro va oltre la Collina (A).
-         le lucertole (H) azzurre e verdi al sole
-         al caldo sole… l’acqua (I) è vostra

Preghiera come un’altra
-         chi pescò le anime | e i pesci (L) in calde acque (I)
-         la lucertola (H) muore


Così, la multidentità si scioglie nei testi a un grado profondo, e non si distingue più quale sia la lastra, e quale sia la luce; oppure, come ha scritto Ezio Comparoni: ma c’è un fatto. Il carattere più intimo, più essenziale di un fantasma, quello che di lui più ci sgomenta non è certo la sua inconsistenza o il suo pallore (e meno che mai il suo lenzuolo, è sottointeso): il lato che ce li fa orridi e patetici è la loro condizione di esiliati, quella loro condanna ad aggirarsi fra luoghi e memorie che non sono i loro, quella impossibilità di comunicare, quella loro mancanza di radici: quella loro eterna, assoluta estraneità: a tutto e a tutti; e anche a loro stessi […] Mi piaceva che tu lo sapessi. Tante cose19.

Note

1 lettera a Enrico Vallecchi del 18 giugno 1945. Tutte le lettere citate fanno riferimento al volume Silvio D’Arzo – Lettere, a cura di Alberto Sebastiani (Monte Università Parma Editore, 2004)
2 Mi risolvo a fare quanto non ho mai fatto con nessuno: a dirvi cioè chi sono veramente: mi chiamo, anziché Silvio d’Arzo, Ezio Comparoni. Lettera a Enrico Vallecchi dell’aprile/maggio 1943
3 questa nota ha la funzione di strappare un sorriso anche al lettore più accigliato, ed ecco venirci in aiuto Alphonse Allais: Shakespeare non è mai esistito, tutte le sue opere sono state scritte da uno sconosciuto che aveva il suo stesso nome.
4 ne ha pubblicato uno Ezio Comparoni, a quindici anni, intitolato Luci e penombre. Le poesie trattate in questa sede sono Purgatorio di A. Nervud, Professore (1897…); Così vinti dal dolore…; Canto d’amore del supplente Fleirbig; Rimpianto (frammento); Il lamento dell’Anna dei bambini (Imitazione da una ballata inglese); I bambini hanno il vestito nuovo; Preghiera come un’altra, e sono raccolte nel volume Silvio D’Arzo, Poesie (Edizioni Diabasis, 1995)
5 ecco tutti i nomi utilizzati: Silvio D’Arzo, Adelmo Ferrari, Raffaele Comparoni, Alberto Colli, Aldo Colli, Andrea Colli, Aldo Collin, Andrew Mackenzie, Nino Cavazzoni, Silvia, Oreste Nasi, Sandro Nadi, Sandro Nedi, Tullio Mari.
6 in una lettera a Emilio Vallecchi del 28 dicembre 1943 era stata presentata come Ragazzo (Dall’epitaffio del Professor Dominioni)
7 Marcel Mauss, Le tecniche del corpo, Nozione di tecnica del corpo, in Teoria generale della magia, Einaudi, pp. 385-392
8 lettera a Enrico Vallecchi del 29 ottobre 1945
9 lettera a Enrico Vallecchi del 14 novembre 1945
10 lettera a Enrico Vallecchi del 7 gennaio 1946
11 Ezio Comparoni era figlio di Rosalinda Comparoni e di padre ignoto
12 lettera a Enrico Vallecchi del 6 aprile 1948
12bis la cesura si estende anche alla scelta del nome: se vuoi ancora, mettiamo, invece del mio nome, un nome inglese o americano: attirerebbe di più. (lettera a Enrico Vallecchi del 29 luglio 1946)
13 contenuto in The Wild Swans at Coole; questa la traduzione di SD’A: Queste teste dimentiche dei loro peccati,/ vecchie, erudite, rispettabili calve teste,/ vanno commentando e annotando i versi/ che giovani uomini, smaniando nei loro letti,/ composero nel delirio d’amore,/ per accarezzare l’orecchio ignorante della bellezza.// Costoro tossiranno nell’inchiostro fino alla fine del mondo,/ e consumeranno il tappeto colle loro scarpe,/ guadagnandosi reputazione: non hanno alcun strano amico,/ se essi hanno peccato nessuno lo sa./ Dio, che cosa mai potrebbero scrivere/ se il loro Catullo avesse seguito questa strada.   
14 pubblicato in Palatina, n. 13, gennaio 1960
15 pubblicato in La Fiera Letteraria, a. I, n. 29, 24 ottobre 1946, con il nome di Oreste Nasi
16 pubblicato in Il Contemporaneo, a. I, n. 2, 31 ottobre 1946, con il nome di Tullio Mari
17 lettera a Canzio Dasioli del 14 aprile 1943
18 Letteratura giapponese, volume I, (a cura di Adriana Boscaro), p. 9
19 lettera a Ada Gorini dell’8 agosto 1950

sabato 12 settembre 2015

Su una ipotesi di Pier Vincenzo Mengaldo, su lacerazioni e omologazione, su trauma e non trauma

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #9

Pier Vincenzo Mengaldo
Qualche settimana fa sul settimanale del Corriere della Sera "La Lettura" è apparsa un'intervista a Pier Vincenzo Mengaldo. Verso la fine lo storico della lingua e critico confessa la passione per gli scrittori israeliani sostenendo questo: "Parecchi anni fa ho formulato un’ipotesi: che cioè la narrativa migliore nasca in Paesi in cui la società e la politica pongano seri problemi nazionali, per esempio contrasti etnici, politici, religiosi. Paesi in cui le lacerazioni sono profonde, come Israele. Alla letteratura non fa bene un tipo di società omogeneizzata, come sono quella italiana o quella francese". Mi verrebbe da chiedervi banalmente se siete d'accordo con questa ipotesi, ma non avrebbe molto senso. Anche per Mengaldo - mi par di capire - si tratta pur sempre di un'ipotesi che andrebbe suffragata con un lavoro lungo, accurato e sicuramente controverso. Per restare sulla traccia, quale spinoso breve libro mi piacerebbe scrivere o trovare attorno a questa affermazione e al nucleo di riflessioni che la presuppone?

Provo ad andare con ordine, premettendo che di primo acchito non mi sono trovato in accordo con Mengaldo e che per nulla sono rimasto affascinato dall'ipotesi. La sua è un'affermazione che ci si aspetta da un uomo della sinistra che fu, come lui stesso si definisce all'inizio dell'intervista, quando giustamente lamenta la barbarie preoccupante a cui siamo giunti, anche in Italia. Si tratta di una ipotesi in larga parte ancora in scia ad una critica letteraria marxista: il contrasto e il conflitto da un lato, l'omogeneità e l'omologazione dall'altra, l'aspettarsi che la letteratura dia il meglio di sé nel conflitto, nello sporco, nel disastro. Fin qui niente di nuovo, mi pare. Ora, da Boccaccio in giù abbiamo tutti ben presente che cosa significhi il ritrovare nella letteratura il cosiddetto tessuto sociale, e lo avevamo appreso anche dallo studio della letteratura latina o in altre ancora. Se questo tessuto sociale è omogeneo (omologato?), poco contrastante, come potrebbe essere il caso attuale di Italia e Francia, ne deriverà anche una letteratura meno interessante e meno increspata, piatta (i dati sulla disoccupazione e disuguaglianza, italiana e francese, non mi spingerebbero a parlare in questo modo, ma tralascio, anche perché si rischia di riesumare i disastri della "letteratura del precariato" e del suo fetido marketing mix). A sostegno di tutto ciò, potremmo inoltre ricordare che dalle lacerazioni dell'epoca di Dante è scaturito quel poema inarrivabile che è la Commedia. Ma c'è una qualche originalità in un'affermazione come quella di Mengaldo? Si può considerare interessante a sua volta questa ipotesi? Vi ricordate Orson Welles ne Il terzo uomo? Intendo quella celebre battuta che vuole l'Italia delle lotte intestine, dei massacri, dei Borgia in grado di produrre Michelangelo, Leonardo e il Rinascimento, contrapposta alla pacificata Svizzera che in cinquecento anni non è stata in grado di produrre qualcosa di più rilevante degli orologi a cucù? Anche quella battuta può vicendevolmente stimolarci come anche lasciare il tempo che trova (magari domani potremmo scoprire che il vicino di casa dell'inventore degli orologi a cucù scrisse un poema magnifico). A mio avviso la debolezza dell'ipotesi sta nel continuare a far derivare una letteratura interessante da un contesto problematico di contrasti "etnici, politici, religiosi". Il punto su cui non possiamo più andare così lisci e tranquilli è la facile derivazione dell'interesse di una data letteratura nazionale dal coefficiente di lacerazione del contesto sociale nel quale questa sorge e si nutre.


Mengaldo definisce la sua come un'ipotesi, e allora mi chiedo anche quale genere di ipotesi sia un'ipotesi che collega con disarmante linearità la "narrativa migliore" ai "Paesi in cui la società e la politica pongano seri problemi nazionali". Interessante notare come nell'intervista Mengaldo parta dalla narrativa, per poi concludere più genericamente che "alla letteratura non fa bene un tipo di società omogeneizzata". Inoltre, in che senso intende questa ipotesi Mengaldo? Se, come credo, la intende in termini di ipotesi scientifica, non gli mancano certo gli strumenti o i dati per verificarla (cioè le opere dei narratori che spinti da contesti realmente problematici producono una narrativa migliore), se invece la intende dal punto di vista della logica, cioè come un enunciato assunto come dato allo scopo di verificarne le conseguenze e a prescindere dall'effettiva correttezza dell'enunciato, mi chiedo che cosa potrà sprigionare questo enunciato e dove potrà condurre. In altre parole, in questo secondo caso, mi domanderei se la sua ipotesi sia una buona, promettente e originale intuizione critica.

C'è da aggiungere, infine, che il ragionamento di Mengaldo, pur rimandando curiosamente e in modo interessante a contesti nazionali, si colloca in una cornice che è quella che ha elevato il trauma o l'assenza di trauma a grimaldello critico principale per spiegare pressoché ogni cosa in letteratura. E a me pare che abbiamo chiesto di spiegare un po' troppo al trauma e che ormai non ce la faccia più a darci delle dritte interessanti, nemmeno se con un'intuizione critica interessante, furba ma miope si pone l'assenza di trauma come centrale (si veda ad esempio lo stimolante libro di Daniele Giglioli, emblematicamente intitolato Senza trauma). In un librino allora mi piacerebbe provare a verificare quest'ipotesi, non tanto come ipotesi scientifica da suffragare coi dati, quanto piuttosto come enunciato secco che viene assunto per indagarne le conseguenze, a prescindere dalla sua correttezza e corrispondenza alla realtà. E quale sarebbe dunque il mio enunciato? Questo:  

Le potenzialità esplicative ed euristiche del concetto di trauma (e parimenti quelle del concetto di assenza di trauma) nella critica letteraria sono pressoché esaurite. Questo non significa espungere il trauma, reale o immaginario, dalla nostra epoca (così come non significa escludere comunque delle possibilità di "riabilitazione"). Significa, forse più banalmente, porre dei dubbi sulla progressiva inservibilità di un concetto abusato.

(Comunque scherzavo: sarebbe una perdita di tempo scrivere un libro del genere, mi bastava scrivere questo post.)

mercoledì 9 settembre 2015

da "Allergia" di Massimo Ferretti

Una poesia da #53
Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #27


Se incrociate il suo nome è facile che troviate anche quei discorsi sul poeta dimenticato, sulle ingiuste manchevoli amnesie della memoria letteraria. Oppure sulla promessa falciata, fragile vermena strappata dalla vita. Si sa com'è, ora un suicidio (potrebbe essere il caso di Michelstaedter), ora una malattia (nel caso più volte trattato di Carnevali fu l'encefalite letargica, in quello di oggi l'altrettanto tremenda endocardite reumatica). Evito di rincarare la dose. Tutto ciò sarebbe una falsa partenza, anzi, una partenza sbagliata. Mesi fa, scrivendo delle poesie di Lorenzo Calogero, ho provato a dire come la penso su questi sdrucciolevoli temi della dimenticanza contrapposta magari al "ritorno in auge" di un poeta (qui, in caso). Io credo che poi dobbiamo ficcarci bene in testa che una cosa è l'entrata o la fuoriuscita di un autore dal fantomatico "canone", un'altra cosa ben distinta è invece la lettura, più o meno diffusa e continuativa, a suo modo proficua, delle opere di un autore (e qui la parola opere, cioè testi, mi interessa assai di più della parola autore). In questo senso Leopardi e le sue opere non sono mai andati fuori canone, ma questo fatto, evidente a tutti, non ci consente comunque di rilevare con quale profitto, creatività, giustezza, coraggio interpretativo lo si rilegga (legga, togliamo pure il ri-). Spesso poi il mantenimento di un autore nel canone assomiglia ad uno sterile tatticismo oppure alla melina tipica di tanti sport di squadra, messa in atto da quella squadra della Res Publica Litterarum che in quel preciso frangente storico si ritiene in vantaggio; e allora non pensate anche voi che diventerà memorabile l'azione di quel giocatore della squadra già destinata a perdere che ruba palla e riesce a fare un gran gol in contropiede, foss'anche il gol della bandiera? E chi lo sa se sarà solo il gol della bandiera? (Le faccende della letteratura assomigliano a volte a partite a doppio turno in cui ci si ferma o si ricorda solo la partita d'andata.) Mutatis mutandis, per quel che concerne il poeta e l'opera di oggi, ricordo per dovere di cronaca che dopo la prima edizione di buona reperibilità per Garzanti del 1963, il libro Allergia di Massimo Ferretti (Chiaravalle, Ancona, 1935 - Roma, 1974) conobbe una sola riemersione in un'edizione di Marcos y Marcos del 1994, stampata fra l'altro con il contributo della Biblioteca Civica di Chiaravalle e in un'occasione particolare come il ventennale dalla morte. 

Il nostro libro è apparso esattamente sessant'anni fa e con Deoso del 1954 costituisce il lascito poetico dello scrittore marchigiano, il quale scrisse anche due romanzi negli anni Sessanta (Rodrigo e Il gazzarra). Sempre per restare alla reperibilità di un libro, vorrei aggiungere che sebbene assorbite dall'organizzazione di corsi, centri estivi e incontri di tanti tipi, esistono ancora le biblioteche comunali che conservano libri come questo, qualora qualcuno desideri riprenderlo in mano dopo anni, come con piacere mi è capitato, o magari per la prima volta. (Un inciso di biblioteconomia: lo statuto di queste biblioteche comunali - oggi qualcuno preferirebbe scrivere la loro mission - andrebbe rivisto ed è un peccato che in passato non si pensasse già in ottica di una messa in rete di specializzazioni del patrimonio librario e che ogni biblioteca puntasse invece, come una monade, a seconda delle proprie risorse, ad avere un po' di tutto, dando vita così a un panorama di tanti piccoli doppioni poco vitali, magari tutte con 4 copie di epoche diverse di Cristo si è fermato a Eboli o altri libri mai andati fuori catalogo e nessuna con almeno una copia de Il volto e il ritratto di Georg Simmel, tanto per dire un titolo. Sarebbe bastato creare delle reti di specializzazioni tematiche - una specie di funzione di ricerca e sviluppo - per pensare oggi con maggior ottimismo al ruolo di queste biblioteche e ottimizzare i budget di acquisto di libri forniti dalle amministrazioni. Comunque non è mai troppo tardi, anche se bisognerebbe imparare a dire che non è mai troppo presto). 

Visto che ho ricordato quel titolo di Simmel, accompagno tutto questo con un duplice ritratto fotografico, dato dall'unione delle uniche due foto di Ferretti facilmente reperibili in rete. Mi sembrava che così accostate si rafforzassero, pur in uno sguardo poggiato nella stessa direzione e su un medesimo piano. E mi parevano più interessanti della ripetizione di certe formule che riguardano Ferretti e il suo principale mentore (Pasolini) o i rapporti con la neoavanguardia (se ricordate l'edizione di Garzanti data proprio '63). E infine prelevo un testo soltanto da questo libro il cui titolo anagramma un'allegria evidentemente ungarettiana. Autore di un unico libro, a sua agio nella misura lunga, come dimostra nel bellissimo poemetto "La croce copiativa", poeta in grado di scrivere sull'atto sessuale come pochi altri tra quelli che mi sia capitato di leggere, inscritto ma anche proscritto in una perenne costellazione di morte, Ferretti con la sua opera poetica rappresenta sempre una lettura o una rilettura di cui si conosce vagamente il punto di partenza e di cui si ignora clamorosamente l'approdo.



IV

Ho nascosto in un cassetto vuoto
il pacchetto di morte sigarette
che avevi stretto nella mano oscura:
per trovarlo nel buio senza attendere
e riprenderci l'impulso della vita.

Sui tuoi occhi ho perduto la mia morte
e col terrore d'essere felice
ho spiato il potere dell'amore.

E in un antico sonno musicale
ho danzato fino all'altopiano
dove tu dormivi inaccessibile,
e furtivo ho appoggiato alla scarpata
la bianca scala del mio inondato sogno:
ma aveva gradini troppo nudi
e per raggiungerti
dovevo camminare sul mio cuore;
e mi sono arrampicato sulla tua
e ad ogni passo ho calpestato un nome -
nomi che ricordavano e ridevano...

E nell'azzurro reale del mattino
ho adorato i sogni chiusi della notte
che si ricordano fino ad una curva.



(Per proseguire con altre due poesie potete andare qui. Vi rimando anche a questo articolo di Dario Borso intitolato Il giovane Ferretti.)

domenica 6 settembre 2015

Tutte le poesie di Wallace Stevens nel Meridiano Mondadori. Un'intervista con il curatore Massimo Bacigalupo

Librobreve intervista #60

Da poche settimane potete trovare in libreria un Meridiano assai utile. Contiene l'intera opera poetica di Wallace Stevens, lo scrittore "excruciatingly difficult" secondo il filosofo Stanley Cavell, eppure così godibile e "diretto" (prova ne sia, a mio avviso, anche la poesia che chiude questo articolo). Il curatore e traduttore è Massimo Bacigalupo, un nome familiare a chi frequenta la poesia americana in traduzioni italiane (nella foto accanto Bacigalupo, a sinistra, è ritratto assieme a Claudio Pozzani, direttore del Festival Internazionale di Poesia di Genova, lo scorso 17 giugno, proprio in occasione di una presentazione del Meridiano). Massimo Bacigalupo ha accettato l'invito a rispondere alle domande seguenti e di ripercorrere così la sua pluridecennale frequentazione con Stevens.


LB: A quando risale il suo primo incontro con la poesia di Wallace Stevens e in quali tappe principali si articola questa lunga frequentazione, da poco sfociata nella curatela del recente Meridiano di Mondadori intitolato Tutte le poesie?
R: Una ricca antologia tascabile di Stevens mi fu regalata intorno al 1970 da un giovane poeta americano che passò un periodo a Rapallo, Nick Piombino, in seguito attivo nell’ambito della “Language School”, che fa una poesia assai concettuale. In seguito fu importante per me il saggio di Randall Jarrell che dopo aver protestato davanti all’ultima raccolta di Stevens, Le aurore d’autunno (1950) si entusiasmò per La roccia, la sezione di inediti di Collected Poems (1954), come poesia di “stile tardo”. Sicché quando Giovanni Raboni mi propose nel 1984 di curare un volume per la sua collana palermitana Acquario-Guanda e fra varie mie proposte scelse Stevens, raccolsi in un unico volume, Il mondo come meditazione, tutte le poesie dell’ultimo periodo 1950-55, quello dopo Le aurore, annotandole e trovando anche molta soddisfazione nell’inventare un linguaggio appropriato. In seguito questo volume è stato ripreso dalla rinata Guanda, e ne ho approfittato per riscrivere l’introduzione e l’apparato (quelli della prima edizione, 1986, non mi convincevano più). Ma la traduzione è cambiata poco nelle varie edizioni, cosa che con Stevens per me è piuttosto rara.

LB: Veniamo subito al Meridiano e a una domanda personale, che però riguarda quel "senso di responsabilità" di un curatore che si appresta a offrire una traduzione integrale di un corpus poetico: quali sono stati i primi pensieri quando s'è profilata l'idea di un simile progetto e quali sono stati invece i pensieri a lavori conclusi?
R: Nel 1994 avevo pubblicato nei Millenni Einaudi una antologia comprendente circa metà dell’opera di Stevens, un bel volumone illustrato di cui ero piuttosto contento, ma di cui in fondo poco si parlò dato il carattere un po’ ingessato della collana. In un incontro a Segrate verso il 2011 suggerii a Renata Colorni che magari si poteva completare l’opera raccogliendo tutto Stevens in un Meridiano: un monumento, dissi scherzando, per cui ci saremmo guadagnati la gratitudine e il ricordo dei posteri. Renata accettò, dopodiché cominciarono le immani fatiche... Il primo contratto stabiliva come data di consegna il dicembre 2012, e nell’estate mi misi a tradurre e commentare diligentemente le poesie escluse dal Millennio. Ma in quello stesso anno lavoravo a una nuova traduzione per Guanda dei XXX Cantos di Pound, impresa non da poco che uscì a ottobre, e a una ampia scelta di poesie di Coleridge per la serie “Un secolo di poesia” del “Corriere della Sera”, che uscì a novembre, e nel 2013 dedicai tempo a un altro lavoro (la riedizione per Archinto di Fine al tormento di “H.D.”). Sicché fu soprattutto nel 2013 che cominciai a correre con le traduzioni nuove, che consegnai dopo varie riletture nel marzo del 2014. Ma in realtà il duro era ancora da venire. La revisione fu affidata ad Anna Ravano, ottima conoscitrice di poesia (ma non di Stevens, mi scrisse subito). Un impaginatore inserì le nuove traduzioni (appunto, circa la metà) fra quelle riprese dal Millennio, e Anna mi rimandò i file completi con tutte le sue puntualissime annotazioni, spesso con lunghe citazioni dall’OED (come quelli del mestiere chiamano il monumentale Oxford English Dictionary). Scoprii ovviamente che le versione del Millennio 1994 andavano spesso ritoccate, meno quelle del Mondo come meditazione del 1986, forse più ispirate e anche meno ardue (?). Vedo che il file delle revisioni di Armonium (la prima delle raccolte riunite nei Collected Poems) mi arrivò a settembre del 2014. Un bel ruolino di marcia ne seguì, visto che il Meridiano è uscito a giugno del 2015, con un po’ di fretta all’ultimo per arrivare prima dell’estate. C’era poi il problema delle annotazioni, che mandavo con i file delle traduzioni riviste e controllate, cioè come ultimo passo, a loro volta dopo una rilettura da parte di Anna Ravano. Dopodiché comincia a introdursi nel duetto Francesca Pinchera, che si occupa della messa in pagina e che a sua volta presenta dubbi e suggerimenti, non di rado azzeccati. È un bel balletto, ma anche defatigante. Stevens è sempre lì, misterioso, non scalfibile dalle formiche sul monumento... Stevens diceva che una poesia spiegata è morta, per questo le sue restano inspiegabili. Ma nutrienti e in qualche modo confortanti. Vivere alcuni anni con Stevens sulla scrivania è stato bello. È così tranquillamente certo di quello che ha da dire, di quello che importa, eppure non diviene mai ovvio. Mi ha colpito la segnalazione di Mario Fortunato sull’“Espresso” del 16 luglio. Fortunato cita per intero la breve ultima poesia di Stevens, Del mero essere, perché, scrive, “nell’incertezza di questi giorni di incertezza politica e follia terroristica, pare riassumere la calcinata solitudine delle nostre speranze”. Insospettabile attualità dell’inattuale Stevens... Poi rileggendo Del mero essere e ripensando al difficile ultimo verso, “The bird’s fire-fangled feathers dangle down”, mi è venuto in mente di correggerne la traduzione impossibile, cosa che farò se come spero il Meridiano si ristamperà.

LB: Può ripercorrere a sommi capi la composizione di questo volume - che ricalca in buona sostanza i Collected Poems - dando alcuni cenni sull'epoca delle traduzioni e soprattutto sulle linee guida che hanno orientato l'apparato di commento?
R: Come detto, si tratta di una avventura trentennale, che però ha avuto un giro di vite dal 2013, sicché il volume nasce unitario. Nell’estate del 2013 ricordo che ero in un aeroporto a Monaco in attesa del cambio aereo e su un portatile scarsamente efficiente mi industriavo a rendere versi non lontani dal flatus vocis: “Force is my lot and not pink-clustered / Roma ni Avignon ni Leyden, / And cold, my element” (Esame dell’eroe in tempo di guerra). Oppure: “Chome! clicks the clock,if there be nothing more” (Montrachet-le-jardin). Sono poesie scritte alla fine della II guerra mondiale. Stevens è sempre serio ma anche fantastico e stranamente divertito e divertente. Quanto al commento, c’erano già delle annotazioni estese in Il mondo come meditazione del 1986, che ho rifuso e reso meno accademiche nella riedizione del 1993. Ho ormai pratica di commenti. Cerco di scrivere piuttosto pianamente ma suggerire a volte anche l’emozione che il testo provoca. La mia edizione delle Poesie della Dickinson uscita negli Oscar ha annotazioni per ogni singolo testo, e anche indicazioni sulla metrica, materia poco nota trattandosi di inglese ai lettori italiani e non solo, eppure ovviamente essenziale, purché tutto questo commentare sia fatto con una certa sprezzatura non troppo indegna dello spirito dei testi scrutati. Sono anche per certi versi lontani, e le note chiariscono se possono il contesto, il tono (così importante): nella poesia mancano gli “emoticon” e può essere utile dopo decenni e secoli indicarli verbalmente... Ma le scoperte con Stevens non finirebbero mai.

William Wordsworth
LB: Com'è lo Stevens aforista?
R: Gli aforismi, Adagia li chiama lui, sono in massima parte inediti in vita, sicché non hanno la perfezione formale di tutto quanto Stevens stampava. Comunque lui non ha mai scritto nemmeno in privato una sciocchezza e o una zeppa. Gli Adagia sono annotazioni sobrie ed estreme (ecco il carattere di Stevens!) che spesso servivano da fonte della poesia, dove talvolta riappaiono tali quali. Credo che stiano bene in appendice alle poesie complete, perché fanno sentire uno Stevens più spoglio eppure senza tentennamenti, e infatti i recensori hanno tutti citato qualche battuta. Avviarsi nei testi poetici è senz’altro più arduo. Eppure un’amica mi ha scritto giorni fa un sms: “Anna mi ha regalato il Meridiano, la cui lettura è stato l’aspetto più bello e coinvolgente di un’estate altrimenti da dimenticare”. Stevens diceva infatti che la poesia deve aiutare la gente a vivere la propria vita. Mi vanto di avere tradotto un’altra opera che credo faccia questo per chi vi si immerge, Il preludio di Wordsworth, poeta di cui Stevens è l’ironico e indefinibile successore.

LB: Secondo lei perché chi scrive di Stevens sente quasi sempre il bisogno di ricordare il suo impiego a vita in una importante compagnia di assicurazioni?
R: Occorre pur dire qualcosa, cominciare da qualche parte. Un poeta dell’America di Hopper, che passa tutti i santi giorni in ufficio, ma poi scappa a Key West e L’Avana. Ma questa è un’altra storia. Spassosa la dichiarazione della moglie a questo riguardo, che ho messo a epigrafe della Cronologia del Meridiano!

LB: Quali sono state le maggiori difficoltà (intendo anche difficoltà tecniche e concrete) nella realizzazione di questo libro?
R: La materia sfugge fra le mani perché tutto è in evoluzione, la traduzione che via via si modifica, le note che si arricchiscono e correggono, tocchi una cosa qui e devi toccarne altre là. Una certa parola, come “plain”, si traduce sempre allo stesso modo o no? (A volte ho scelto “semplice”, altre  volte “ordinario”.) Poche settimane prima della stampa ho scoperto che in USA stava per uscire una nuova edizione dei Collected Poems con decine di correzioni sostanziali al testo, parlo di interi versi e gruppi di versi spostati all’interno di strofe. Erano tutte correzioni convincenti, dunque occorreva modificare l’inglese, ma anche la traduzione... 

Robert Frost
LB: Una domanda fuori traccia, ma forse nemmeno troppo. Rimanendo in area statunitense, e magari pensando proprio alla poesia di Stevens, quali sono i poeti dei quali vorrebbe caldeggiare una traduzione (o una nuova traduzione)?
R: Da tempo predico la necessità di un Meridiano di Robert Frost, il grandissimo antagonista di Stevens, che ha anche il merito di essere apparentemente leggibile (e popolare!). All’Università non faccio quasi mai un corso di letteratura americana senza chiamare in causa Frost, che è proprio l’America con le sue tragiche ambiguità, e la sua forza. Ci fu un’edizione Oscar tradotta da Giudici e riveduta da me, da anni esaurita. Assurdo!

LB: Può scegliere una poesia di Stevens come saluto e congedo? Grazie.


UNO SVANIRE DEL SOLE 


Chi può pensare il sole costumista di nuvole 
quando tutti sono agitati
o la notte abbagliante, orgogliosa,
quando tutti svegliati
invocano e invocano aiuto?

La calda antichità dell’io,
ognuno, diventa a un tratto fredda.
Il tè è scipito, il pane intristito.
Come è che il mondo così vecchio è così impazzito
che tutti muoiono?

Se la gioia sarà senza un libro
essa dimora dentro loro stessi,
se guarderanno
dentro sé stessi
e non invocheranno aiuto:

dentro come pilastri del sole,
puntelli della notte. Il tè,
il vino è buono. Il pane,
la carne è dolce.
E non morranno.