sabato 26 settembre 2015

"Zangwill" di Charles Péguy

Péguy morì in battaglia nel 1914 a Villeroy, durante le prime mosse sul fiume Ourcq, preludio della Prima battaglia della Marna. Aveva 41 anni e sino ad allora aveva scritto poesie e contributi giornalistici e critici. Fu il quasi solitario animatore di una rivista chiamata "Cahiers de la Quinzaine", che cessò di esistere col sopraggiungere della sua morte. (In questo assumere una rivista come punto privilegiato per la propria scrittura Péguy assomiglia molto al filosofo spagnolo Ortega y Gasset e mi auguro che avremo modo di tornare su Ortega a breve). Charles Péguy è un autore importante per ritornare su quel periodo che va dall'Affaire Dreyfus allo scoppio della guerra. Fu normalien e allievo di quel Bergson che a fatica si affronta, nella gittata del suo pensiero e della sua azione (pensiamo anche solo al nostro Ungaretti, e sono cose risapute); i suoi scritti riaffiorano da più parti se torniamo alle tensioni intellettuali che contraddistinsero quel periodo. Péguy fu insomma un uomo che in quegli anni determinanti seppe tenere vicino a sé, fra gli altri, Romain Rolland e Julien Benda e che nella sua "conversione" abbagliante e forse abbagliata può ancora offrire degli appoggi utili a chi si preoccupa di come raccontare la storia. 

Zangwill, proposto da Marietti 1820 per la cura di Giorgio Bruno (pp. 100, euro 14), s'intitola così perché è la prefazione a un racconto di Israel Zangwill intitolato Chad Gadya! Zangwill era un autore inglese di origini ebraiche ospitato proprio dai sopra ricordati "Cahiers de la Quinzaine". Ed è bene ricordare questo dato, anche se oggi non leggiamo questo testo come una prefazione ma come libro indipendente, perché tutti i testi sono sempre legati e si muovono assieme, come onde, per quanto poi prendano le strade di tanti "pacchetti" che sono i libri scritti. Oggi diremmo che il cattolicissimo Péguy in queste pagine del 1904 prende di mira le posizioni positiviste di Taine e Renan, due assi portanti del telaio culturale francese, tanto che c'è chi, con un neologismo, ha pensato di parlare di una tendenza costante al renanotainisme della storia letteraria francese in particolar modo. Al di là della ricerca di un principio trascendente che sia in grado di offrire senso alle vicende del mondo (in questo vicino a Manzoni), quello che interessa in Péguy (parlo per me, naturalmente), una volta sfrondati gli eccessi di un estremismo religioso, è quel disagio nei confronti della scrittura e sistematizzazione della storia. Nella sua prosa turgida e a tratti un po' frondosa, tutto questo si può ancora ravvisare e mantiene una sorta di chimica fertile. E anche in questo Péguy sta in compagnia di don Lisander, pur partendo e arrivando a posizioni diverse. Insomma Péguy oggi ritorna in discussione ogni volta che ci poniamo il problema del racconto della storia (pur sempre di racconto si tratta), di quel che accade come di quello che non accade, di quello che si ricorda così come di quello che si dimentica: quel racconto è in fondo la sola cosa che conta, è in grado di sconvolgere e avvelenare (ben più che purificare) animo e popoli, muovere e far girare quella che per Javier Marías resta la "pigra e debole ruota del mondo".

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