lunedì 30 novembre 2015

Poesie inedite di Gilda Policastro



"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare. 

Tre poesie inedite di Gilda Policastro da Calendario (un progetto che prevede anche la presenza delle fotografie di Sabrina Ragucci)
   
Tutta scena

Non lo sei abbastanza, non riconosci
le cinghie, le maniglie, i frustini
la mistica del peccato, le carni trapassate dalla furia del sacro
a voi piace soffrire?
che cosa  vedi dentro una gabbia: pulito/sporco, vuoto, animali
in ordine, la camicia da notte usata, igiene poca (ti ci abitui)
e l’offerta del sangue: non mi alletta che l’allusione nella ferita,
il contenimento del graffio, la promessa dalla gola in trazione
e poi la cura del padrone, dopo i calci
non giochiamo a questo gioco (ma mère)


Menear la pera


così si portano i vestiti, e coi vestiti si portano svelti gli avanzi
 

d’estate che non esondino d’inverno in un loro corso
 

variabile attraverso la faglia: oggi hai dato aria domani riattacca, funghisci
 

in prospettive divaricate, sia negare sia no: c’est une douleur, c’est douloureux
 

(la doluleur est difficile à définir car elle est personelle et subjective)
 

mi sento bene: sempre
 

nella svestizione dei rumori torni a occupartene: nessun recesso
 

pare pulito in questi traslochi – lo dice lui, che dobbiamo andarcene,
 

non parla lei ma incombe come sempre nei segnacoli
 

che dispone: il sollievo farà mai pace con la sentina (el espacio en la parte más
baja dove si        raccolgono todos los líquidos)
 

ripeti, non ho sentito bene: ricomincia da capo, tutto da capo
 

per bene e precisamente, cos’hai sentito, visto dove, quando è avvenuto
 

leggi e rileggi, se ti piace, e citalo pure, se ti fa gioco:   la norma dei corpi vivi


Prosa   

Ma fumi pure, la sua vita non è poi un letto di rose. Quando si capisce, è tutto molto fragile, i pacchi, porta un pezzo alla volta, distribuisci i pesi, non si può diagnosticare senza una lastra, non è facile ricordarsi di usare la lastra per: aprire le porte/scassinarle, guardare il sole durante un’eclissi, è un privilegio raro, rubò dei cervi, quanti, se c’è da pensare a niente, si stende, prima i piccoli, è così che si procede, si aggiusta tutto, se un cardine va oliato, se arrotare i coltelli pure è un’arte amplificata, non si scende senza capitombolare, se ti sei autoinvitato meglio all’oscuro, in pochi tratti puoi riconoscerlo e non esserne coinvolto, quando l’amavo era come se tutto potesse riavvolgersi, rewind, rollarsi l’erba, no, no, grazie, togliamo il fumo dalla vostra cucina, evita di chiedermelo ogni volta che passo, compra almeno l’accendino, io mangiare, tu comprare, io mangiare, tu comprare, io mangiare e no ho detto, sei sordo, come si dice nella tua lingua, ripeti, ne rompe una dozzina,  le uova o la carne al mattino, e non ci pensi alle tenere erbuzze che togli alla vacca, allatta ogni tre quattro, come bava di lumaca sta lì a dimostrare che non vai ogni giorno a innaffiare lì, dove non è che luca, pochi passi ancora, ordinati per file come nei blister, nessuno dove non è che luca,  allungato, macchiato, corretto, no, ho detto di no, te ne vai,  tutti se ne vanno, appena li noto, il primo che colse un’erba per curarsi, la bionda di fitness, uno schianto pensarsi la morte, invece ti sgonfi come tolto l’elio un pallone, tre cucchiaini, grazie, stasera sei uno schianto, ritirati

ma chi ti toccherà da morto?






giovedì 26 novembre 2015

Domatori di organi_Michelangelo

di Luca Rizzatello

In tre lettere, due delle quali inviate a Giorgio Vasari, Michelangelo Buonarroti triangola poesia, pazzia e senilità. Nell’ordine: 1. E perché standomi a questi dì molto mal contento in casa, cercando fra certe mia cose, mi venne alle mani un numero grande di quelle frascherie che già solevo mandarvi, delle quali ve ne mando quactro, forse mandatevi altre volte, voi direte bene che io sia vechio e pazo; e io vi dico che, per istar sano e con manco passione, non ci truovo meglio che la pazzia; però non ve ne maravigliate, e rispondetemi qualche cosa, ve ne priego1; 2. Messer Giorgio amico caro, voi direte ben che io sie vechio e pazo a vole’ far sonecti; ma perché molti dicono ch’i’ son rinbanbito, ho voluto far l’uficio mio2; 3. Messer Giorgio, io vi mando dua sonecti; e benché sien cosa scioca, il fo perché veggiate dov’io tengo i mie pensieri. E quando arete octantuno anni, come ho io, credo mi crederrete3. Stando a questi campioni, qualcuno potrebbe pensare che per l’anziano M. la scrittura sia esercitata come una forma di svago. Non è così, e in una lettera di due anni posteriore a 3., sempre indirizzata a Messer Giorgio amico caro, scrive: Io esco di proposito, perché ho perduto la memoria e ‘l cervello, e lo scrivere m’è di grande affanno, perché non è mia arte4-5. Lungi dall’essere una fissa della terza età, M. ha indagato per tutta la vita il rapporto tra arti figurative/plastiche e scrittura, secondo una casistica che ha sempre premesse spiccatamente tecniche. Che avvenga per sottrazione:6

Sì come nella penna e nell’inchiostro
è l’alto e ’l basso e ’l medïocre stile,
e ne’ marmi l’immagin ricca e vile,
secondo che ’l sa trar l’ingegno nostro;
così, signor mie car, nel petto vostro,
quante l’orgoglio è forse ogni atto umile;
ma io sol quel c’a me propio è e simile
ne traggo, come fuor nel viso mostro.
Chi semina sospir, lacrime e doglie,
(l’umor dal ciel terreste, schietto e solo,
a vari semi vario si converte),
però pianto e dolor ne miete e coglie;
chi mira alta beltà con sì gran duolo,
ne ritra’ doglie e pene acerbe e certe7

o per fusione a cera persa:

Non pur d’argento o d’oro
vinto dal foco esser po’ piena aspetta,
vota d’opra prefetta,
la forma, che sol fratta il tragge fora;
tal io, col foco ancora
d’amor dentro ristoro
il desir voto di beltà infinita,
di coste’ ch’i’ adoro,
anima e cor della mie fragil vita.
Alta donna e gradita
in me discende per sì brevi spazi,
c’a trarla fuor convien mi rompa e strazi

l’analisi è volta a individuare il punto di snervamento dei materiali – e il relativo traslato metafisico –, a partire da sollecitazioni e condizioni ambientali di diversa natura, tanto pratiche quanto teoriche. Riferendosi alla statua della Notte (Caro m’è ’l sonno, e più l’esser di sasso,/ mentre che ’l danno e la vergogna dura;/ non veder, non sentir m’è gran ventura;/ però non mi destar, deh, parla basso), la superficie di pietra diventa funzionale alla pratica dell’atarassia8. Accade però che in un altro sonetto, pure dedicato alla Notte, la statua diventi contraddittoriamente figura di M., destinato a vivere immerso nell’oscurità, e per niente fratello del lettore:

[…]
Onde ’l caso, la sorte e la fortuna
in un momento nacquer di ciascuno;
e a me consegnaro il tempo bruno,
come a simil nel parto e nella cuna.
E come quel che contrafà se stesso,
quando è ben notte, più buio esser suole,
ond’io di far ben mal m’affliggo e lagno.
Pur mi consola assai l’esser concesso
far giorno chiar mia oscura notte al sole
che a voi fu dato al nascer per compagno.9

L’alternativa sembra essere la metamorfosi, o la rinascita a sé stessi, nella figura del bruco (D’altrui pietoso e sol di sé spietato/ nasce un vil bruto, che con pena e doglia/ l’altrui man veste e la suo scorza spoglia/ e sol per morte si può dir ben nato.), o del serpente (segue: Così volesse al mie signor mie fato/ vestir suo viva di mie morta spoglia,/ che, come serpe al sasso si discoglia,/ pur per morte potria cangiar mie stato.), o di oggetti di uso quotidiano (segue ancora: O fussi sol la mie l’irsuta pelle/ che, del suo pel contesta, fa tal gonna/ che con ventura stringe sì bel seno,/ ch’i’ l’are’ pure il giorno; o le pianelle/ che fanno a quel di lor basa e colonna,/ ch’i’ pur ne porterei duo nevi almeno)10, o della salamandra (Se ’l foco al tutto nuoce,/ e me arde e non cuoce,/ non è mia molta né sua men virtute,/ ch’io sol trovi salute/ qual salamandra, là dove altri muore.)11. Ma queste sono delle fantasticherie; M. ci racconta la sua metamorfosi reale, occorsa durante i quattro anni impiegati per la realizzazione della volta della Cappella Sistina12, nel sonetto caudato doppio I’ ho già facto un gozzo in questo stento:

[…]
La barba al cielo, e la memoria sento
in sullo scrigno, e ‘l petto fo d’arpia,
e ‘l pennel sopra ‘l viso tuttavia
mel fa, gocciando, un rico pavimento.
E’ lombi entrati mi son nella peccia,
e fo del cul per contrapeso groppa,
e’ passi senza gli ochi muovo invano.
Dinanzi mi s’allunga la corteccia,
e per piegarsi adietro si ragroppa,
e tendomi com’arco sorïano.

La superficie del corpo viene rappresentata in tutte le sue irregolarità e deformazioni13, sbilanciando il testo più sulla componente realistica che su quella grottesca; sarebbe quindi paradossale cristalizzare l’immagine del corpo – ovvero il corpo stesso – nella rappresentazione di un Michelangelo TQ; così se la domanda è questa: I’ fu’, già son molt’anni, mille volte/ ferito e morto, non che vinto e stanco/ da te, mie colpa; e or col capo bianco/ riprenderò le tuo promesse stolte?, la risposta è questa: Quante volte ha’ legate e quante sciolte/ le triste membra, e sì spronato il fianco,/ c’appena posso ritornar meco, anco/ bagnando il petto con lacrime molte!.
In altri termini: non c’è riposo, e non c’è soluzione: 

Condotto da molt’anni all’ultim’ore,
tardi conosco, o mondo, i tuo diletti14:
la pace che non hai altrui prometti
e quel riposo c’anzi al nascer muore.
La vergogna e ’l timore
degli anni, c’or prescrive
il ciel, non mi rinnuova
che ’l vecchio e dolce errore,
nel qual chi troppo vive
l’anima ’ncide e nulla al corpo giova.

Leo Spitzer ha scritto che I Sermons del Donne (ed. Potter e Simpson, Berkeley, 1955, vol. II, n. 7, p. 170) ci offrono l’esempio migliore del processo che derivò l’idea religiosa di «mettere in accordo il cuore», nella sua versione protestante, da quella della «lira del mondo»: God made this whole world in such an uniformity, such a correspondency, such a concinnity of parts that it was an Instrument, perfectly in tune: we may say, the trebles, the highest strings were disordered first; the best understandings, angels and men, put this instrument out of tune. God rectified all again, by putting in a new string, semen mulieris, the seed of the woman, the Messias.14
Ma non importa:  

I’ t’ho comprato, ancor che molto caro,
un po’ di non so che, che sa di buono,
perc’a l’odor la strada spesso imparo.
Ovunche tu ti sia, dovunch’i’ sono,
senz’alcun dubbio ne son certo e chiaro.
Se da me ti nascondi, i’ tel perdono:
portandol dove vai sempre con teco,
ti troverei, quand’io fussi ben cieco.15

Note:

1 Lettera a Giovan Francesco Fattucci in Firenze, Roma, aprile-giugno 1547
2 Lettera a Giorgio Vasari in Firenze, Roma, 19 settembre 1554
3 Lettera a  Giorgio Vasari in Firenze, Roma, 11 maggio 1555?
4 A Giorgio Vasari in Firenze, Roma, 22? maggio 1557
5 Circa la faticosità dello scrivere, si citano due passaggi tratti da due lettere di Torquato Tasso, entrambe raccolte nel libro Lettere dal manicomio, Le nubi edizioni, 2005. Il primo: Comunque sia, di due cose l’assicuro: l’una, ch’io non sono di que’ poeti che non intendono le cose scritte da loro; l’altra, ch’io scrivo con molta fatica, la quale non soglion durare coloro che compongono mossi dal furor poetico. (Lettera a Biagio Bernardi, 1 ottobre 1583). Il secondo: Io potrei negar tutte le cose a chi me le dimanda con l’esempio di coloro che non compiacciono ad alcuna de le mie preghiere; ma voglio più tosto che sia biasimata la mia fortuna che la natura. Laonde, quando io non compiaccio a gli amici, è difetto de l’una più che de l’altra; e fra quelli che non saran compiaciuti è Vostra Signoria, avendomi pregato di cosa la quale schivo per elezione e fuggo per inclinazione, percioché niuna è più contraria a la mia malinconia, de la quale io patisco, che ‘l trattar de’ morti, massimamente in composizion lunga, com’è la canzona. E se in quelle che son liete io non soglio passare il sonetto, ne le meste non dovrei arrivarci. Prego dunque Vostra Signoria che non voglia co’ suoi prieghi costringermi a far poesia con la quale possa più accrescere il mio dolore che diminuire l’altri. (Lettera a Marcantonio Zuccoli, 14 dicembre 1585)
6 Oppure, come nel madrigale Sì come per levar, donna, si pone (Sì come per levar, donna, si pone/ in pietra alpestra e dura/ una viva figura,/ che là più cresce u’ più la pietra scema;/ tal alcun’opre buone,/ per l’alma che pur trema,/ cela il superchio della propria carne/ co’ l’inculta sua cruda e dura scorza./ Tu pur dalle mie streme/ parti puo’ sol levarne,/ ch’in me non è di me voler né forza), la liberazione della forma, ovvero il principio di individuazione, si danno per levar
7 Qui la varietà stilistica del v. 2, che sa trar l’ingegno, si sovrappone alla variabilità biologica del v. 11, e a tale proposito si confronti questa posizione con quella di Ernst Haeckel: L’”Urbild” o “Typus”, che come “unità intima originaria” è alla base di tutte le forme organiche, è la formatrice interna che conserva il piano originario e lo propaga per eredità. Al contrario “l’inarrestabile progressivo modificarsi” che nasce “dai necessari rapporti col mondo esterno” determina, come tendenza formativa (Bildungstrieb) esterna, attraverso l’adattamento alle condizioni di vita, l’infinita “diversità delle forme”. (Gen. Morph. I., 154; II., 224). L’interna spinta formativa dell’eredità, che conserva l’unità del tipo (Urbild), è chiamata da Goethe in un altro passo la forza centripeta dell’organismo, la sua tendenza alla specificazione; opposta a questa egli chiama la spinta esterna dell’adattamento, che produce la molteplicità delle forme organiche, forza centrifuga dell’organismo, la sua tendenza a variare, in Storia della creazione naturale, Utet, 1892, p. 54
8 Si consideri, al contrario, il caso in cui l’uomo in carne ed ossa descrive, malsopportandola, un quadretto di così va il mondo: Non sempre al mondo è sì pregiato e caro/ quel che molti contenta/ che non sie ‘lcun che senta/ quel ch’è lo dolce, spesse volte amaro./ Il buon gusto è sì raro/ ch’a forza al vulgo cede,/ allor che dentro di te stesso gode;/ ond’io, perdendo imparo / quel che di fuor non vede / chi l’alma à trista, e ‘ suo sospir non ode. Fuori di poesia, così: Tutte le discordie che naqquono tra papa Iulio e me fu la invidia di Bramante et di Raffaello da Urbino; et questa fu causa che non e’ seguitò la sua sepultura in vita sua, per rovinarmi. Et avevane bene ragione Raffaello, ché ciò che aveva dell’arte, l’aveva da me. (Lettera a Monsigniore… in Roma, Roma, avanti il 24 ottobre 1542)
9 Che nel madrigale S’egli è che ’n dura pietra alcun somigli si complica in una figurazione che intreccia artista, statua e donna amata: S’egli è che ’n dura pietra alcun somigli/ talor l’immagin d’ogni altri a se stesso,/ squalido e smorto spesso/ il fo, com’i’ son fatto da costei./ E par ch’esempro pigli/ ognor da me, ch’i’ penso di far lei.
10 Si verifica una inversione di genere, tanto sul piano del soggetto quanto su quello dell’oggeto, rispetto al genere poetico yongwu (詠物): Infatti i “canti su oggetti” [yongwu] si rifanno ad una antica e consolidata tradizione, in cui il poeta trae un piacere vicario dalla descrizione del languore seduttivo di una fanciulla, che viene oggettizzata in un oggetto specifico. Paolo Santangelo, Canti d’amore a Suzhou nella Cina Ming, Aracne Editrice, p. 12
11 Marco Polo, nel capitolo de Il Milione dedicato alla provincia di Chingitalas, ci spiega cosa è e cosa non è una salamandra: Chingitalas è una provincia che ancora è presso al diserto, entro tramontana e maestro. E è grande 6 giornate e è del Grande Kane. Quivi àe città e castella assai; quivi à 3 generazioni di genti, cioè idoli, e quegli ch'adorano Maccomet, e cristiani nestorini. Quivi àe montagne ove à buone vene d'acciaio e d'andanico; e in queste montagne è un'altra vena, onde si fa la salamandra. La salamandra non è bestia, come si dice, che vive nel fuoco, ché neuno animale puote vivere nel fuoco; ma diròvi come si fa la salamandra. Uno mio compagno ch'à nome Zuficar — èe un Turchio — istede in quella contrada per lo Grande Kane signore 3 anni e facea fare queste salamandre; e disselo a me, e era persona che le vide assai volte, e io ne vidi de le fatte. Egli è vero che quella vena si cava e stringesi insie[me] e fa fila come di lana; e poscia la fa seccare e pestare in grandi mortai di covro, poscia la fanno lavare e la terra sí cade, quella che v'è apiccata, e rimane le file come di lana; e questa si fila e fassine panno da tovaglie. Fatte le tovaglie, elle sono brune, mettendole nel fuoco diventano bianche come nieve; e tutte le volte che sono sucide, si pognono nel fuoco e diventano bianche come neve. E queste sono le salamandre, e l'altre sono favole. Anco vi dico che a Roma à una di queste tovaglie che 'l Grande Kane mandò per grande presenti, perché 'l sudario del Nostro Signore vi fosse messo entro.
12 Così in una lettera al fratello Buonarroto, del 17 novembre 1509: Io sto qua in grande afanno e con grandissima fatica di corpo, e non ho amici di nessuna sorte, e no’ ne voglio; e non ho tanto tempo che io possa mangiare el bisonio mio. Però non mi sia data più noia, che io no’ ne potrei soportare più un’oncia, e così in una lettera al padre Lodovico, di ottobre-novembre 1512: Actendete a vivere; e se voi non potete avere degli onori della terra come gli altri cictadini, bastivi aver del pane e vivete ben con Cristo e poveramente, come fo io qua, che vivo meschinamente e non curo né della vita né dello onore, cioè del mondo, che vivo con grandissime fatiche e con mille sospecti. E già sono stato così circa di quindici anni, che mai ebbi un’ora di bene, e•tucto ho facto per aiutarvi, né mai l’avete conosciuto né creduto. Per chiudere il cerchio, in una lettera del giugno-luglio 1509 inviata al fratello Giovan Simone, che per semplificare definiremo uno scialacquatore/picchiatore di padre, scrive: Io non posso fare che io non ti scriva ancora due versi: e questo è che io son ito da dodici anni in qua tapinando per tucta Italia, sopportando ogni vergognia, patito ogni stento, lacerato il corpo mio in ongni fatica, messa la vita propia a mille pericoli solo per aiutar la casa mia; e ora che io ho cominciato a•rrilevarla un poco, tu solo voglia esser quello che scompigli e•rrovini in una ora quel che i’ ho facto in tanti anni e con tanta fatica, al corpo di Cristo, che non sarà vero! ché io sono per iscompigliare diecimila tua pari, quando e’ bisognierà
13 Circa il valore che ricopre – è il caso di dirlo – la salute di un individuo all’interno di un corpo sociale, si legga Ivo Quaranta: L’attenzione per il corpo, per i suoi fluidi e il suo stato d’essere rinvia, quindi, a dimensioni assai più ampie che non la mera “cura di sé”: i segni del corpo parlano di realtà che trascendono l’immediatezza dell’esistenza individuale e, allo stesso modo, l’intervento sui corpi costituisce una forma di mediazione per agire sul tessuto sociale e sulle relazioni con il mondo ulteriore delle forze spirituali. Se il corpo è contenitore di sëma, è ovvio che il suo aspetto e i suoi stati d’essere siano legati a doppio filo con questa sostanza: essi sono veri e propri indicatori dello stato della sostanza. Un corpo lucido brillante e umido, nei Grassfields, è segno di vitalità, di benessere e di salute; secchezza, debilitazione e opacità rappresentano barometri morali che segnalano una disarmonia nella sostanza del gruppo. […] In virtù della sostanza ancestrale che ospita, il corpo è ontologicamente legato al gruppo e alle azioni dei suoi membri: alla luce di tale simbologia, un corpo corrotto, necessariamente, narra delle implicazioni del soggetto nel tessuto sociale in cui è imbricato, e attraverso cui definisce la sua identità ancestrale: Alcune delle peggiori malattie associate alla stregoneria, come la lebbra, sono considerate delle malattie della pelle, che causano eruzioni e lesioni su una superficie che dovrebbe essere soffice e levigata. […] La salute ed il benessere sono quindi visibili sulla pelle e costituiscono un indicatore dello stato morale della persona (Rowlands 1994, p. 161). Corpo, potere e malattia. Antropologia e aids nei Grassfields del Camerun, Meltemi, 2006, p. 117
13 Tornando alla poesia cinese, in un saggio dedicato all’antologia di canti popolari raccolti da Feng Menglong (1574-1646), Paolo Santangelo ha scritto che privilegiare l’aspetto fisico dell’amore significa dare spazio alle espressioni relative alla componente concupiscibile: il desiderio emerge dal linguaggio figurato che ritroviamo nei canti.42 Esso colpisce egualmente uomini e donne, come il vento di sudest, cioè il vento di primavera, che risveglia i desideri nei giovani e nelle giovani (1:1, 4A, 2:39); non risparmia alcuna età, e sembra aumentare anziché diminuire con l’avanzare degli anni, tanto da essere paragonato al prurito della pelle vecchia per un foruncolo sul tallone (5:132). Canti d’amore a Suzhou nella Cina Ming, Aracne Editrice, p. 29
14 Leo Spitzer, L’armonia del mondo, Il Mulino, 2009, p. 148

Note2:


a Il sëm è una sostanza ambivalente, che dà poteri straordinari usati sia per il proprio vantaggio personale sia per il bene di tutta la comunità. Chi ha un grande sëm può essere, insomma, un fon o uno stregone. Il sëm è dunque neutro anche per quanto riguarda le sue finalità: chi detiene molto sëm è sicuramente una persona potente che può usare le sue qualità a vantaggio o a svantaggio della collettività. Le credenze sul sëm permettono di riflettere sul concetto di potere. In sé e per sé, il potere non è buono, né cattivo, né solo maschile, né solo femminile. AA. VV., Il potere delle donne visto dagli uomini, Franco Angeli, p. 264

lunedì 23 novembre 2015

"So What" di John Szwed. Vita di Miles Davis

Musicali pretesti #10

Di tanto in tanto, una notizia su un libro e un brano da ascoltare, al libro collegato.

Come si dice in questi casi John Szwed è un'istituzione per quelli che si interessano di antropologia, African Studies, jazz e limitrofi. In italiano erano già usciti Jazz! Una guida completa per ascoltare e amare la musica jazz per EDT e Space is the Place. La vita e la musica di Sun Ra per Minimum Fax. Da poco, per i tipi de Il Saggiatore, potete trovare So What. Vita di Miles Davis (pp. 518, euro 35, traduzione di Melinda Mele), volume che ormai ha circa 12 anni, visto che l'edizione in lingua inglese data 2003. Ci si chiede cosa interviene nel caso di queste traduzioni tutto sommato tardive, se un anniversario, un risveglio di interesse, un trend editoriale intravisto o fiutato, la "costruzione di un autore" presso il pubblico di una data lingua e quindi un certo passato sedimentato di titoli tradotti. Quel che è. Resta il fatto che è una bella notizia. E per l'occasione niente So What ma una più stagionale Autumn Leaves con Cannonball Adderley al sassofono contralto, Davis alla tromba, Hank Jones al piano, Sam Jones al contrabbasso e Art Blakey alla batteria. Registrazione del 9 marzo 1958 al Van Gelder Studio (Somethin' Else l'album e che bello nei dischi jazz dove si cita sempre esatto il giorno della registrazione!).

giovedì 19 novembre 2015

"Cella" di Gilda Policastro

Primo: c'è una parola che m'è subito parsa ricorrente o quantomeno insistente in questo terzo romanzo di Gilda Policastro intitolato Cella (Marsilio, pp. 180, euro 17). Quale potrebbe essere? Si tratta della parola "romanzo". Sembra infatti che l'insistenza su questo lemma ponga la scrittura in un dialogo metaletterario e camuffato sulle possibilità del "romanzo". Avevo chiesto all'autrice un file con il testo del libro per poter verificare, con una statistica lessicale. Il risultato è questo: “Dice che è il nome di un cavallo da romanzo. Nella vita di Elena niente somiglia più a un romanzo, oppure, se a un romanzo somiglia, è uno di quei romanzi che non concludono, con la storia tutta ingarbugliata.” (pag. 11); “Forse l’amore adesso si misura in minuti. Dice, mamma, sapessi quanto si aspettano le donne, nei romanzi. Legge sempre. Legge, va a cavallo, oppure manda uno dei suoi frenetici messaggi.” (pag. 12); “Elena dice che potrei scrivere romanzi, passo le ore a rimuginare su particolari insignificanti. A distanza di giorni le chiedo, all’improvviso, se si ricorda un frammento di qualche conversazione casuale, orecchiata per strada, dal medico, in coda alle poste.” (pag. 31); “Giovanni e le donne. Un giorno lo potrei scrivere su questo, un romanzo.” (pag. 32); “Quando Elena ha cominciato il liceo ho preso in mano qualche romanzo. Ma mi annoiavano queste donne a loro volta annoiate, uomini sempre indecisi, che ne amavano una e poi andavano con le altre. Era lì che avevano copiato, quelli come Giovanni.” (pag. 39-40); “Non riesco ad amarla, come la donna di quel romanzo. Non riesco a dirle che le voglio bene, forse non gliene voglio perché è figlia sua, forse non gliene vorrei in ogni caso.” (pag. 102); “Loro si piacquero subito, avevano i libri, parlavano di quelli. Soprattutto i romanzi russi, ma anche la poesia: le prestò un’antologia che non aveva voluto darmi («cosa te ne faresti, tu»), 100 poeti della DDR” (pag. 111). Insomma l'impressione è che il romanzo ne dissemini molti altri, in più accezioni. Significa qualcosa tutto ciò? Forse l'ossessione del romanzo? La sua banalizzazione? La sua presunta morte? I suoi limiti? Si sa che più si nomina una cosa più si svuota. Si trova anche un'accezione di "foto-romanzo". Questo libro inoltre è intervallato da due foto su cui torneremo.

Secondo: la storia. Chi narra è una donna del Sud che diventa amante mai renitente di un medico benestante, conosciuto e stimato tanto da fare, come molti altri suoi colleghi, il passo della politica. Un cacciatore di donne seriale, anche. Lei proviene da una storia familiare incasinata, con un padre che mise presto nei guai tutta la famiglia. Già, la famiglia: si avverte in tutto questo libro, assai poco "famigliare", come Policastro desideri scrivere di famiglia sopra ogni altra cosa, prima ancora che di sesso. Il sesso non è granché, anche se trapunta un po' tutta la linea della narrazione (viene in mente Girotondo di Arthur Schnitzler, uno dei più grandi "pezzi" che sul sesso siano stati scritti lo scorso secolo). L'iniziazione dell'io narrante avviene presto, in uno studio dentistico dove viene spedita diciasettenne per racimolare soldi. Di lì a poco l'incontro con Giovanni e la nascita di Elena, figlia che nel carattere risentirà del concepimento e personaggio attraverso il quale emerge lo sguardo felice e feroce dell'autrice su chi è più giovane. Giovanni si allontanerà dalla "famiglia" e diventerà latitante per aver curato, nell'ambito della propria professione, una terrorista (è frequente questo inserto relativo alla lotta armata nei romanzi degli ultimi dieci o quindici anni).  Così, con l'imbarazzo tipico che mi assale ogni volta che affronto il temibile "riassunto di un'opera", ho riassunto io. In una intervista a puntate apparsa su "Vibrisse", il bollettino di Giulio Mozzi, Gilda Policastro ha così riassunto: "una donna senza nome racconta la sua condizione di prigioniera: il paese con le sue restrizioni, le frequentazioni di personaggi squallidi come il dentista che la molesta da adolescente, la famiglia con un padre che a un certo punto, per questioni di debiti, se ne va. L’incontro con Giovanni Principe, figura di riferimento per la sua professione di medico e il suo impegno in politica, sembra offrirle una possibilità di emancipazione. Viaggiano, incontrano persone colte come il professore, con cui la donna sarà quasi obbligata a iniziare una relazione. Ma anche Giovanni Principe, a un certo punto, come il padre, la abbandona. La donna si ritrova sola, con una figlia che non riesce ad amare e per la quale è motivo di imbarazzo e di inquietudine, specie dopo il tentato suicidio. Fino all’arrivo di una brigatista, che rimette in discussione tutto il suo vissuto, suggerendole una possibile via d’uscita nel confronto a più voci col suo passato”.

Terzo. Le opere di Louise Bourgeois che inframezzano il testo in due punti potrebbero far pensare a Sebald. Sono foto nel romanzo. In realtà, più che all'autore di Austerlitz, anche qui Policastro s'invia in una metariflessione che riguarda i limiti - e quindi le possibilità - dell'opera, necessariamente multimediale. Non c'è relazione stretta tra storia e opera, almeno nel senso comune che potremmo immaginarci di "relazione stretta".

Quarto: dal punto di vista della scrittura osserviamo un telaio che quasi si regge sulla ricerca di un appiattimento funzionale per tendere il testo e quindi, in ultima analisi, una sorta di strategia della tensione. L'anticipazione del complemento oggetto è un tratto frequente, ma anche la posticipazione come avete notato nei numerosi esempi del primo paragrafo. I dialoghi si fondono senza punteggiatura nel corpo dei brevi capitoli. Se in qualche punto si ha l'impressione di un'ingerenza del lessico specialistico della psicologia, alla fine è più nei territori della letteratura greca che vanno ricercati gli assi (del resto questa ha alimentato larga parte di psicologia, psichiatria o psicanalisi e tutti i nostri complessi).

Quinto: Sade. Non lo dico per le scene di sessualità brutale che apostrofano questa narrazione o per circonvoluzioni fuorvianti attorno a quel che si chiama "sadismo". Sade è stato alla fine uno dei più lucidi "idraulici dell'animo". "Tutto ciò che mi impedisce di abitare la mia tristezza mi è insopportabile" vuole l'epigrafe scelta da Policastro, da Roland Barthes. Lo capiremo leggendo il libro. Il sesso perverso e reificato non è certo la questione centrale di Cella e non è nemmeno il colore primario di un libro che raduna in meno di duecento pagine un pensiero sulle relazioni famigliari, sull'amore, sulla perversione intesa come ingrediente sempre dato nell'esistenza umana. Basta, mi fermo qui. Cinque stazioni come cinque sono le lettere del breve titolo - nome della protagonista - per fissare una nota di lettura puntiforme su un libro che parla soprattutto di potere, più di quanto parli di impotenza. Penso potreste trovarlo notevole per come stempera tanti grumi di temi caldi dell'oggi. Ciascuno a suo modo. E forse, ci penso ora mentre lo scrivo, anche Pirandello c'entra: per come tratta le celle del suo spazio scenico, per il suo speculare attorno alla maschera, alla tortura, alla stanza della tortura (indimenticabile quello studio di Giovanni Macchia sul drammaturgo).

martedì 17 novembre 2015

"sopra la panca": incontri di poesia e musica a Treviso in Piazza Santa Maria dei Battuti

Il titolo "sopra la panca" allude alle polemiche sulle panchine recentemente installate nella piazza di Santa Maria dei Battuti a Treviso - panchine troppo assomiglianti a delle bare, per qualcuno - e mi pare abbastanza efficace per provare a sotterrarle con ironia (intendo le polemiche). Il programma completo di questa rassegna di poesia e musica a ingresso libero si trova nella locandina qui sotto e, più nel dettaglio, in questo pieghevole: quattro venerdì di fila a partire dal 20 novembre, alle 18 degli incontri di poesia, alle 19 la musica e un quinto venerdì conclusivo di sola musica.  

La notizia da dare è questa: dopo aver presentato in città decine e decine di poeti provenienti da tutta Italia, finalmente anche Marco Scarpa torna a leggere a Treviso.

Ringrazio in particolar modo Paola Bellin. L'evento è in collaborazione con Treviso Smartcity/Città di Treviso, assessorato Semplificazione sviluppo e crescita, San Leonardo Libreria Universitaria Spazio Espositivo, Codice a Curve Forme d'arte e Proteo Fare Sapere. Ad un livello personale ringrazio il percussionista Lucio Bonaldo che ha accettato di riproporre per l'occasione la lettura del poemetto sulla Prima guerra mondiale Nella demenza che non sa impazzire (contenuto in Pertiche, La Vita Felice, 2012).


Un riassunto per la parte di poesia, 
con alcuni rimandi agli autori interni al blog:

venerdì 20 novembre 2015, ore 18

venerdì 27 novembre 2015, ore 18

venerdì 4 dicembre 2015, ore 18
Alberto Cellotto con Lucio Bonaldo, Luca Rizzatello

venerdì 11 dicembre 2015, ore 18

giovedì 12 novembre 2015

"Breviario di novembre" di Alessandra Conte: una presentazione a Compiobbi (Fiesole)

I libri di poesia durano quel che durano, come gli altri libri del resto. A volte scompaiono, poi riemergono quando decidono loro, altre volte scompaiono per sempre o quasi. Certi galleggiano e poi sprofondano. Va così, inutile occuparsi più di tanto di questo. I critici possono avere un peso in questo su e giù, ma non sono sempre loro a essere determinanti. Ci sono sempre stati i critici che abbassano la cresta a un autore fortunato e innalzano dai fanghi dell'oblio un autore scordato. A volte queste operazioni sono argomentate e in buona fede critica, quindi interessanti e salutari, altre volte mi pare che lo siano meno e possono rivelarsi un po' pretestuose, uno stratagemma vecchio come il mondo attraverso il quale il critico cerca di far notizia e quindi cerca facile visibilità, in primis per sé. Certi libri di poesia, a distanza di sei anni dalla pubblicazione (un'eternità!), senza particolari spinte promozionali continuano a compiere un tragitto, a scavarsi una trincea e a interessare nuove persone, magari appartenenti a più "sfere disciplinari". Sembra questo il destino di Breviario di novembre di Alessandra Conte, uscito per l'editore Raffaelli nel 2009, un insieme di testi che di anno in anno continua a trovare un lettore nuovo o una situazione nuova dove essere presentato e letto. Al libro sono arrivato tempo fa grazie a Marco Scarpa, un amico poeta che legge molta poesia. (Ho scoperto che tra chi scrive poesia non è automatico leggere molta poesia; inizialmente ciò mi pareva una cosa strana, poi mi sono detto che è un'opzione come un'altra e alla fine conta il risultato: insomma, forse si può anche leggere poco e arrivare a scrivere belle poesie.)

Sabato 14 novembre Alessandra Conte sarà a Compiobbi, ospite della biblioteca della frazione di Fiesole. Con l'occasione combino una cosa che volevo fare da tempo, cioè pubblicare un paio di testi da Breviario di novembre. In realtà l'operazione è un po' rischiosa, visto che per me è stato uno dei libri che ho più apprezzato nella lettura in sequenza e credo che meno di altri si presti agli "assaggi". Ad ogni modo andrà bene anche pubblicare soltanto i due testi che seguono, per oggi. Il mese poi è quello giusto.



 ----
Breviario di novembre
di Alessandra Conte
(Raffaelli Editore, 2009)

presentazione alla biblioteca comunale di Compiobbi
(Via Romena 58, lato piazza Etrusca, Fiesole - FI)
sabato 14 novembre ore 16:30

appuntamento a cura dell'associazione Amici della biblioteca di Fiesole,
con il Palinsesto e Coop Firenze Nord
(INGRESSO LIBERO)

Seguirà la condivisione del libro La chimera
di Sebastiano Vassalli
Letture a cura di Tamara Tagliaferri
----

“Un tè con i morti. Breviario di novembre, dal 2009 un evergreen tra I tre porcellini e La carica dei cento e uno. L’autrice ne dice: "amo le costruzioni per negazioni, non vorrei che il lettore non pensasse che non sia un libro senza capo né coda, allego il testo incipitario ed il corsivo di chiusura. Sono felice di essere stata invitata alla stessa serata con Sebastiano Vassalli”


La suora bambola chiama
nel suo letto di noce che sale
con le pareti che si perdono
ancora più in alto, dove i rondoni
gridano e circondano di voli
i morti, fatti di scritture
e guano seccato.
I muri di Galugnano esalano
foglie di tabacco e voci
di donna grossa,
che gioca a domino con le lupe
e vince, e ha già perso.


Un soldo,

per aggiungere tempo al tempo
e dare il modo ai verbi sciolti.
Un soldo sotto la lingua
e sperare l’assoluto.
Un soldo a decantare
i sali del reflusso.

Là dove le mani non arrivano
si deformino i verbi e i nomi
si bagnino i contorni di nero china.
Da dove la voce non esce
si sfibri il laccio.

E il traghetto ondeggia
tra un braccio e un altro
intravisto solo come orizzonte.



(Per proseguire nella lettura potete trovare altri testi qui e soprattutto qui, dove si pubblicano anche alcune "carte" con cui Lia Malfermoni ha illustrato Breviario di novembre.)

martedì 10 novembre 2015

"Il pianto dell'aragosta" di Marco Simonelli (per non fare la fine di Dj Super X)

Molti lettori e critici spesso si soffermano a parlare di erudizione e "poesia colta" nel caso di Marco Simonelli. Al toscano di Firenze, "toscano maledetto" pure lui secondo l'antologia curata da Raoul Bruni, in effetti riesce persino di rubacchiare un sapore da Cino da Pistoia. Scrivere poesie è sempre un saccheggio, dilapidazione di un patrimonio ritmico e immaginativo; è furto, anzi rapina a volto scoperto, ma mai sequestro. Questo a maggior ragione se siamo d'accordo, con Goffredo Parise, che in poesia non ci sono eredi. La perversione e l'illecito di queste azioni, se ben orchestrati, sono spesso sorgente di grandezza del testo. E in ogni gesto davvero creativo ho sempre intravisto inoculato un germe di amorevole contemptus, sia del mondo che dell'altro da sé, che - attenzione - è ben lontano dallo snobismo di qualsivoglia tipo. Un problema, ma neanche tanto grande, è quando la poesia si fa coincidere col mondano e il personale oppure viceversa. Ma non è un discorso così interessante, secondo me, e ne accenno solo perché è un discorso che va per la maggiore anche fra chi crede di essere immunizzato contro questi capricci della ragione. Oppure può essere un problema quando, per promuovere la poesia, si lavora su determinate categorie pretestuose, in modo schifosamente surrettizio. Spesso, nel gran "Superclassifica Show" che è diventata la sempiterna "giovane poesia", si aspetta sempre un Dj Super X o un Maurizio Seymandi che dica fino a che punto una poesia arriva (arriva al lettore, arriva in classifica), magari dopo averla confezionata all'interno di un bel pacco (da leggersi in quasi tutte le accezioni della parola "pacco"). Il problema, volendo proseguire, è quello della ricezione, palesatosi nella notte dei tempi e messo in bella copia anche dalla coppia Iser-Jauss della Scuola di Costanza. Ma un altro problema, non meno importante e forse ancora più grande, è quando una poesia davvero parte. La partenza, differentemente dall'arrivo, ha in sé l'attesa di un tragitto che non è necessariamente dato per sempre. Inoltre la partenza assomiglia di più a una domanda che a una risposta. E a me interessano le domande.

Tutto questo per dire che ciò che sempre mi colpisce è l'orecchio di Marco Simonelli, perché di là passa la sua vera partenza. Una forte e nitida impressione in tale direzione si ricavava da Poesie d'amore splatter pubblicato da Sartoria Utopia in tempi recenti, ma si ritrova inalterata anche ne Il pianto dell'aragosta (edizioni d'if, pp. 56, euro 16), che assieme a La susina di Roberta Durante, inaugura la nuova collana "i miosotìs - Seconda Serie" di questa casa editrice napoletana, alla quale va ormai riconosciuta una posizione di rilievo nel panorama dell'editoria di poesia. Dicevo dell'orecchio perché è l'intero campionario delle stratificazioni e associazioni foniche che fa della poesia di Simonelli un mantice sempre pronto a soffiare sulle concatenazioni e sulle arsure del racconto e sulle gelate dello sguardo, anche in due terzine come queste di Previsione pioggia ("[...] Tu sapevi che in questi casi è utile/ indossare abiti sportivi, il corpo comodo,/ vestirsi a strati per poi spogliarsi in fretta.// Uscisti presto e non ci salutammo./ Aveva piovuto tutta la notte./ Io mi svegliai più tardi.[...]" o nell'attacco di Probabilmente un passero ("[...] La domenica lo porto sempre al parco/ due tiri col pallone all’aria aperta./ Ma poco prima di tornare a casa/ lui nota qualcosa sotto un albero/ mi prende per la mano e s’avvicina./ Un uccellino caduto giù dal nido. [...]"

Sono poesie narrative quelle che si spalancano sul bestiario in avvio, ma trattengono questa caratteristica anche nelle successive sezioni "Cortesie per gli ospiti" che contiene il testo uscito poco fa in Ora di Chiusura (La collana Isola) e "Il settimo anno". Insomma, sono episodi. Chi è familiare con le etimologie ricorderà quella di "episodio", cioè qualcosa che entra in scena, sopraggiunge, indipendentemente dal soggetto. La parola "episodio" conserva oggi il suo enigma, ovvero il porsi come qualcosa di incidentale ma cruciale nel corso di una narrazione o di una vita. Tra i lessemi più ricorrenti ci sono "tempo", "casa", "pianto" (sin dal titolo, anche se apprendiamo che quel pianto dell'aragosta non è propriamente un pianto), e poi "mano, "occhi", "sonno" e "mattina" (in poesia provo sempre un interesse al sommo grado per il decidersi tra mattino/mattina). C'è una felice alternanza tra luoghi chiusi e aperti. Javier Marías scriveva che "si racconta tanto o si racconta tutto, perché niente sia mai accaduto, una volta raccontato". Nella poesia non può esserci verità, come non può esserci in un quadro, in una foto. Forse in una musica sì. La verità, se esiste, è sempre nascosta, fuori dal controllo di chicchessia e in queste poesie è come se fosse incorporata una convinzione che ha circa questi connotati. Non dovremmo mai più pensare alla verità come ad una risposta, bensì come ad una riformulazione diversa di una domanda. Così anche quando ci affacciamo su dei versi. Questo si ricollega al discorso sulle rapine in poesia: si ruba, per riformulare con una nuova poesia una domanda che proviene da altre poesie.

Dj Super X di Superclassifica Show
Con questo nuovo breve libro Marco Simonelli conferma il valore di un lavoro che prosegue da anni e una ricerca che necessariamente abita al di fuori delle galassie nane sulle quali si è a volte cercato di alloggiare il suo versificare (ad esempio quella omosessuale, quella del performer o del poeta pop che giustamente elargisce la propria apologia per Wanna Marchi). A volte si ha l’impressione, soprattutto in un paese omofobo, maschilista e arretrato come l’Italia, che queste galassie e categorie incanalanti vengano elevate, per contrasto, a mera strategia promozionale da quattro soldi. Tutto ciò è alla lunga fastidioso, inutile forse, pernicioso. Un appello, insomma: non fatelo più. Se avete voglia di leggere poesie come queste, fatelo senza troppe sovrastrutture, per quanto possibile. Ne trarrete un maggiore godimento. E ricordatevi del gatto Oscar, della sigla del Supertelegattone Sono il gatto sul tetto che ascolta tutto come fosse la prima volta (fatelo senza sovrastrutture antiberlusconiane, per una volta, se possibile, passiamo oltre, anche se so che è molto difficile). Concludo con un altro gatto di nome Asdrubale.

Asdrubale

Avresti fritto pure una ciabatta:
sarebbe stata asciutta
croccante calda e friabile
come i tuoi fiori di zucca.

Le tue mani significano cibo
le osservo attentamente quando posso
sono piccole, vecchie, farcite dalle rughe
mentre mescolano il manzo macinato
con l’aglio col formaggio e il pangrattato
e aggiungono un ciuffo di prezzemolo tritato.

Asdrubale passava al pianerottolo
gatto vecchio, lentissimo ed obeso:
un occhio cavo perso in una lotta
e un tumore in vista alla mascella.
Non sempre ci riusciva, quella bestia
a scendere le scale e farla nel cortile.

Un giorno lo trovarono nel prato
sembrava addormentato, poverino
aveva terminato l’agonia tutto da solo
non voleva lo sentissero nel rantolo;
la morte per i gatti è un fatto personale
se ne voleva andare senza disturbare.

Gli preparasti apposta una polpetta
friggendola con spugna naturale.
Lui ti leccò le dita, forse a ringraziarti
di quel boccone buono, offerta dell’addio.
Faresti lo stesso con me
se al suo posto ci fossi io.

domenica 8 novembre 2015

da "Gasoline" di Gregory Corso

Una poesia da #56

Dei giovani Corso e Ginsberg
Nel giugno di quest'anno, per la traduzione di Damiano Abeni, è uscito Gasoline di Gregory Corso (Minimum Fax, pp. 251, euro 12,50). Il libro porta la prefazione di Fernanda Pivano e un'introduzione di Allen Ginsberg, presente anche nella foto a lato (una foto che potrebbe aver ispirato la copertina del disco Songs from the Big Chair dei Tears for Fears). Il titolo di quest'opera uscita la prima volta nel 1958 per la City Lights di San Francisco non è stato tradotto. Guanda invece l'aveva pubblicata nel 1969, nella traduzione di Gianni Menarini, col titolo di Benzina, curiosamente seguito, nell'edizione tascabile TEA, da un (Gasoline), come a suggellare un'incertezza di fondo sulla titolazione da scegliere, o forse per ribadire un principio di intraducibilità che sta tra il pop e il beat. Eppure la traduzione esiste! Il poeta sepolto a Roma nel cimitero acattolico vicino all'adorato Shelley fu davvero il picco di quella generation? Probabile. Da qualche tempo ho l'impressione che nel complesso tutta quella generazione sia stata sopravvalutata ma è un'impressione che si fa meno acuta con Corso. Sicuramente il cupio dissolvi che hanno sparpagliato coi loro passi nel mondo è servito alle loro opere e a correggere l'autopercezione che la letteratura aveva sulla faccia della terra. Da un bel po' di tempo però c'è il rischio di farne solo una icona isterilita. Non è un problema loro, naturalmente, bensì un problema di chi tende a soffermarsi più sugli eccessi e stravaganze delle loro biografie che su quello che hanno effettivamente scritto.  Allora ecco Corso, con un testo che mi piace proprio e che mi pare sensato leggere ogni volta che si parla e ci si riferisce alla fantomatica poesia. Qui trovate invece un ulteriore assaggio del libro.



VENTICINQUENNE

Con un amore un andare pazzo per Shelley
Chatterton    Rimbaud
e il bisognoso latrare della mia giovinezza
                è passato di orecchio in orecchio:
       DETESTO I VECCHI POETANTI!
In particolare i vecchi poetanti che ritrattano
che consultano altri vecchi poetanti
che parlano della propria gioventù in sussurri,
e dicono: «'Ste cose le ho fatte tempo fa»
                  ma era tanto tempo fa
                  era tanto tempo fa»
O li vorrei tranquillizzare questi vecchi
dicendo loro: «Io vi sono amico
                          ciò che siete stati, grazie a me
                          sarete di nuovo»
Poi la notte nel segreto delle loro case
estirpo le lingue piene di scuse
                          e rubo le loro poesie.


I AM 25


With a love a madness for Shelley
Chatterton    Rimbaud
and the needy-yap of my youth
                    has gone from ear to ear:
        I HATE OLD POETMEN!
Especially old poetmen who retract
who consult other old poetmen
who speak their youth in whispers,
saying:--I did those then
                that was then
                that was then--
O I would quiet old men
say to them:--I am your friend
                         what you once were, thru me
                         you'll be again--
Then at night in the confidence of their homes
rip out their apology-tongues
                         and steal their poems.