martedì 10 novembre 2015

"Il pianto dell'aragosta" di Marco Simonelli (per non fare la fine di Dj Super X)

Molti lettori e critici spesso si soffermano a parlare di erudizione e "poesia colta" nel caso di Marco Simonelli. Al toscano di Firenze, "toscano maledetto" pure lui secondo l'antologia curata da Raoul Bruni, in effetti riesce persino di rubacchiare un sapore da Cino da Pistoia. Scrivere poesie è sempre un saccheggio, dilapidazione di un patrimonio ritmico e immaginativo; è furto, anzi rapina a volto scoperto, ma mai sequestro. Questo a maggior ragione se siamo d'accordo, con Goffredo Parise, che in poesia non ci sono eredi. La perversione e l'illecito di queste azioni, se ben orchestrati, sono spesso sorgente di grandezza del testo. E in ogni gesto davvero creativo ho sempre intravisto inoculato un germe di amorevole contemptus, sia del mondo che dell'altro da sé, che - attenzione - è ben lontano dallo snobismo di qualsivoglia tipo. Un problema, ma neanche tanto grande, è quando la poesia si fa coincidere col mondano e il personale oppure viceversa. Ma non è un discorso così interessante, secondo me, e ne accenno solo perché è un discorso che va per la maggiore anche fra chi crede di essere immunizzato contro questi capricci della ragione. Oppure può essere un problema quando, per promuovere la poesia, si lavora su determinate categorie pretestuose, in modo schifosamente surrettizio. Spesso, nel gran "Superclassifica Show" che è diventata la sempiterna "giovane poesia", si aspetta sempre un Dj Super X o un Maurizio Seymandi che dica fino a che punto una poesia arriva (arriva al lettore, arriva in classifica), magari dopo averla confezionata all'interno di un bel pacco (da leggersi in quasi tutte le accezioni della parola "pacco"). Il problema, volendo proseguire, è quello della ricezione, palesatosi nella notte dei tempi e messo in bella copia anche dalla coppia Iser-Jauss della Scuola di Costanza. Ma un altro problema, non meno importante e forse ancora più grande, è quando una poesia davvero parte. La partenza, differentemente dall'arrivo, ha in sé l'attesa di un tragitto che non è necessariamente dato per sempre. Inoltre la partenza assomiglia di più a una domanda che a una risposta. E a me interessano le domande.

Tutto questo per dire che ciò che sempre mi colpisce è l'orecchio di Marco Simonelli, perché di là passa la sua vera partenza. Una forte e nitida impressione in tale direzione si ricavava da Poesie d'amore splatter pubblicato da Sartoria Utopia in tempi recenti, ma si ritrova inalterata anche ne Il pianto dell'aragosta (edizioni d'if, pp. 56, euro 16), che assieme a La susina di Roberta Durante, inaugura la nuova collana "i miosotìs - Seconda Serie" di questa casa editrice napoletana, alla quale va ormai riconosciuta una posizione di rilievo nel panorama dell'editoria di poesia. Dicevo dell'orecchio perché è l'intero campionario delle stratificazioni e associazioni foniche che fa della poesia di Simonelli un mantice sempre pronto a soffiare sulle concatenazioni e sulle arsure del racconto e sulle gelate dello sguardo, anche in due terzine come queste di Previsione pioggia ("[...] Tu sapevi che in questi casi è utile/ indossare abiti sportivi, il corpo comodo,/ vestirsi a strati per poi spogliarsi in fretta.// Uscisti presto e non ci salutammo./ Aveva piovuto tutta la notte./ Io mi svegliai più tardi.[...]" o nell'attacco di Probabilmente un passero ("[...] La domenica lo porto sempre al parco/ due tiri col pallone all’aria aperta./ Ma poco prima di tornare a casa/ lui nota qualcosa sotto un albero/ mi prende per la mano e s’avvicina./ Un uccellino caduto giù dal nido. [...]"

Sono poesie narrative quelle che si spalancano sul bestiario in avvio, ma trattengono questa caratteristica anche nelle successive sezioni "Cortesie per gli ospiti" che contiene il testo uscito poco fa in Ora di Chiusura (La collana Isola) e "Il settimo anno". Insomma, sono episodi. Chi è familiare con le etimologie ricorderà quella di "episodio", cioè qualcosa che entra in scena, sopraggiunge, indipendentemente dal soggetto. La parola "episodio" conserva oggi il suo enigma, ovvero il porsi come qualcosa di incidentale ma cruciale nel corso di una narrazione o di una vita. Tra i lessemi più ricorrenti ci sono "tempo", "casa", "pianto" (sin dal titolo, anche se apprendiamo che quel pianto dell'aragosta non è propriamente un pianto), e poi "mano, "occhi", "sonno" e "mattina" (in poesia provo sempre un interesse al sommo grado per il decidersi tra mattino/mattina). C'è una felice alternanza tra luoghi chiusi e aperti. Javier Marías scriveva che "si racconta tanto o si racconta tutto, perché niente sia mai accaduto, una volta raccontato". Nella poesia non può esserci verità, come non può esserci in un quadro, in una foto. Forse in una musica sì. La verità, se esiste, è sempre nascosta, fuori dal controllo di chicchessia e in queste poesie è come se fosse incorporata una convinzione che ha circa questi connotati. Non dovremmo mai più pensare alla verità come ad una risposta, bensì come ad una riformulazione diversa di una domanda. Così anche quando ci affacciamo su dei versi. Questo si ricollega al discorso sulle rapine in poesia: si ruba, per riformulare con una nuova poesia una domanda che proviene da altre poesie.

Dj Super X di Superclassifica Show
Con questo nuovo breve libro Marco Simonelli conferma il valore di un lavoro che prosegue da anni e una ricerca che necessariamente abita al di fuori delle galassie nane sulle quali si è a volte cercato di alloggiare il suo versificare (ad esempio quella omosessuale, quella del performer o del poeta pop che giustamente elargisce la propria apologia per Wanna Marchi). A volte si ha l’impressione, soprattutto in un paese omofobo, maschilista e arretrato come l’Italia, che queste galassie e categorie incanalanti vengano elevate, per contrasto, a mera strategia promozionale da quattro soldi. Tutto ciò è alla lunga fastidioso, inutile forse, pernicioso. Un appello, insomma: non fatelo più. Se avete voglia di leggere poesie come queste, fatelo senza troppe sovrastrutture, per quanto possibile. Ne trarrete un maggiore godimento. E ricordatevi del gatto Oscar, della sigla del Supertelegattone Sono il gatto sul tetto che ascolta tutto come fosse la prima volta (fatelo senza sovrastrutture antiberlusconiane, per una volta, se possibile, passiamo oltre, anche se so che è molto difficile). Concludo con un altro gatto di nome Asdrubale.

Asdrubale

Avresti fritto pure una ciabatta:
sarebbe stata asciutta
croccante calda e friabile
come i tuoi fiori di zucca.

Le tue mani significano cibo
le osservo attentamente quando posso
sono piccole, vecchie, farcite dalle rughe
mentre mescolano il manzo macinato
con l’aglio col formaggio e il pangrattato
e aggiungono un ciuffo di prezzemolo tritato.

Asdrubale passava al pianerottolo
gatto vecchio, lentissimo ed obeso:
un occhio cavo perso in una lotta
e un tumore in vista alla mascella.
Non sempre ci riusciva, quella bestia
a scendere le scale e farla nel cortile.

Un giorno lo trovarono nel prato
sembrava addormentato, poverino
aveva terminato l’agonia tutto da solo
non voleva lo sentissero nel rantolo;
la morte per i gatti è un fatto personale
se ne voleva andare senza disturbare.

Gli preparasti apposta una polpetta
friggendola con spugna naturale.
Lui ti leccò le dita, forse a ringraziarti
di quel boccone buono, offerta dell’addio.
Faresti lo stesso con me
se al suo posto ci fossi io.

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