lunedì 1 febbraio 2016

L’arte del conversare secondo Montaigne e l'empatia secondo Facebook

Se foste costretti a scegliere, tra vista e udito cosa vi fareste togliere? Per il Montaigne de De l'art de conférer non ci sono dubbi: la vista. Leggendo questo capitolo dei Saggi, ora isolato e proposto da Elliot nella collana "Lampi" col titolo L'arte del conversare (pp. 48, euro 6,50, traduzione di Giulio Martone) emerge invece un interrogativo, banale e riduttivo ma proprio per questo "tarlante": per conversare oggi ci basta la vista? Credo che in pochi oggi risponderebbero come Montaigne alla domanda iniziale. Lo stesso telefono porta un nome che rischia di resistere come un fossile linguistico in un dispositivo che il più delle volte è solo visivo, nel quale l'audio è spesso relegato alla riproduzione di contenuti multimediali (a volte, soprattutto i giovani fanno una sorta di telefonata mandandosi messaggi vocali su Whatsapp, ma non è la stessa cosa di una telefonata, dal momento che non c'è interazione diretta e subentra sempre il concetto di latenza, come in una qualsiasi chat, mancando la compresenza in un medesimo tempo, quello della conversazione appunto). La conversazione che ha in mente Montaigne non è comunque quella che, fatte le debite proporzioni e adattamenti, potrebbe essere ridotta alla conversazione telefonica. Inoltre bisogna prestare sempre attenzione a non far dire a dei testi del passato quello che non dicono. Allo stesso tempo però dobbiamo rimanere aperti a quello che suggeriscono, indovinano o intuiscono, come se la loro luce partita secoli fa arrivasse oggi a illuminare determinate zone preponderanti della nostra vita, un po' come la luce ritardata delle stelle. Inoltre, non è nemmeno questo il posto dove aprire nuove discussioni sulle alterne vicende tra oralità e scrittura alla luce dei nuovi dispositivi di comunicazione che si sono imposti alle nostre attenzioni. Non è questa grande scoperta avvertire forte e chiaro come i Saggi di Montaigne sappiano vibrare a più latitudini - sono secoli che vibrano - e immagino che l'operazione di un editore che estrapola un testo ben preciso da quel fantastico corpus degli Essais sia quella di attualizzarne la forza. In realtà, uno scritto di Montaigne non ha alcun bisogno di essere attualizzato, tanto è grande la sua capacità di trasformarsi nelle varie epoche. Ed è questa trasformazione che caratterizza un vero classico del pensiero o della letteratura. Allora l'unico atto che attualizzi un testo è il più semplice di tutti: riproporlo, renderlo disponibile e finalmente leggerlo, per davvero, nella nostra circostanza. 

Il libro in questione, inteso come oggetto, nei paratesti non cede allora alla facile piega dell'attualizzazione, se non un pochino nella copertina concepita da Chiara Mammì, che strizza l'occhio appunto a una concezione "digitale" della conversazione odierna (tuttavia senza ricorrere alla "punteggiatura" delle emoji, ormai "linguaggio" parallelo, almeno nelle conversazioni dei più giovani). Ma mi pare una mossa azzeccata, più di certe tirate malriuscite che inseguono a tutti i costi la retorica della "grande attualità di un testo". Chi frequenta i cosiddetti "classici" sa poi che l'equivoco centenario sta lì, ovvero nel credere i classici come opere immutabili e date una volta per tutte. Non c'è nulla di più folle e nocivo in questa concezione e vulgata e qui andrebbe verificato l'assassinio (premeditato) che la scuola ha talvolta perpetrato sui classici e sul modo di proporli. Solamente i libri meno interessanti sono dati una volta per tutte e immutabili, i classici invece mutano, si spostano come fanno le onde. Che poi alcuni temi dei classici siano ricorrenti e immutati è un altro paio di maniche, anche se pure su questo aspetto inizio a nutrire dei dubbi.

Premesso ciò, che cosa dice Montaigne e che cosa può suggerire oggi questa lettura? Dal lato di ciò che Montaigne effettivamente scrive troviamo una riflessione aperta e godibile sulla conversazione, intesa come l'esercizio migliore per il nostro spirito, sulle libertà di cui è capace e sulle tirannie odiose a cui è sottoposta. La conversazione è ritenuta un vero sale della vita. Si legge appunto del gusto di praticarla, della ricerca della disputa e del contraddittorio e quindi dell'impossibilità di ridurre sempre la complessità del reale all'interno della conversazione. Sono temi antichi, che tuttavia Montaigne rivisita con la prosa che ha reso gli Essais l'opera che sono. Ma che cosa può suggerire, fra altre cose, questa lettura sul versante del raffronto con la nostra vita di ogni giorno? Ho ravvisato almeno tre spunti forti che, di riflesso, arrivavano durante la lettura di questo scritto di Montaigne e li propongo come esempi, non tanto di aspetti che il testo sviluppa ma come suggestioni che il testo innesca:

1. Il conformismo del pensiero è noioso e diffusissimo. Bella forza, dirà qualcuno. Un'ovvietà di affermazione. Però prendete anche il piccolo mondo delle lettere, di coloro che si interessano di libri e letturatura o filosofia. Quanto conformismo c'è in giro, quanti meccanismi di appiattimento di giudizio, o, meglio ancora, quante pigrizie e assopimenti della conversazione registriamo pur di andar d'accordo e non scomodare qualcuno che magari ha una briciola di potere? La cosa grave è che questo conformismo attecchisce in un mondicolo che spesso si atteggia a maestro di pensiero e anche tra coloro che si costruiscono un'immagine critica particolarmente polemica. Altra cosa grave è che questo conformismo perpetua delle forme di potere ridicolmente.
2. Le capacità e, prima ancora, la voglia di argomentare sono ridotte al minimo storico. Davanti a un "MI PIACE" e alla sua logica invasiva ormai consolidata c'è ben poco da argomentare. I sudatissimi dibattiti del management di Facebook sull'opportunità o meno di introdurre un pulsante "NON MI PIACE" possono far sorridere, ma la dicono lunga (lunghissima) su determinate logiche di pensiero-potere e tirannia/sudditanza che permeano le nostre preferenze e il modo di distribuirle. A oggi il pulsante "NON MI PIACE", che pure esiste in social network come YouTube, non è stato previsto e qualche motivo ci sarà (è più ingombrante, reclama un'argomentazione, una discussione, impone una logica binaria e oppositiva che per il momento si preferisce evitare). Al posto del NON MI PIACE arriverà allora una serie di emoji con le quali esprimere uno "stato d'animo", diverso dal MI PIACE. Secondo le parole di Zuckerberg, quello che desidera esprimere "la gente" è  infatti l'empatia, magari attraverso un filtro colorato o un logo creato subito dopo una tragedia trasmessa in mondovisione. Che dire? Mai un bottone aveva fatto tanto discutere, anche se "la stanza dei bottoni" è un'immagine antica che qualcosa in tutto questo c'entra.
3. Montaigne sembra quasi aver anticipato in alcuni passi di questo suo scritto la civiltà (inciviltà?) del commento. Il commento così come lo conosciamo è spesso la fiacca risposta lassista di una popolazione stanca di ragionare, argomentare e quindi conversare nel senso di Montaigne. Esistono naturalmente dei "commenti" che sono interessanti e costruttivi, ma quello che passa ormai è l'immagine di un commento-telecomando (quando non telecomandato) con cui fare zapping per distribuire il proprio esserci.

Il discorso non va limitato ai social o a Facebook in particolare. Quasi più nessuno può permettersi di fare davanti a questi il vecchio gioco degli apocalittici contro gli integrati. Questi mezzi fanno parte della realtà e della vita di moltissime persone (anche se non di tutte le persone) e sarebbe stupido disinteressarsi e non osservarli, tanto più che si pongono come mezzi di conversazione e interazione sociale. Non c'è alcun atteggiamento ostile da parte mia e alcune osservazioni che ho portato mi pare valgano anche al di fuori dei social. Come anticipato, si deve resistere alla tentazione di far dire a Montaigne quello che non ha detto, in pagine che fra l'altro scorrono in un fiume ben preciso, vale a dire quello dei contributi tradizionalmente dedicati alla conversazione, un fiume che da secoli si alimenta delle riflessioni di scrittori fondamentali. Allo stesso tempo mi è venuto da scrivere di quello che una lettura così ha inevitabilmente suggerito e smosso. Detto diversamente, questa segnalazione, oltre a soffermarsi sulla conversazione, sull'argomentazione, sul MI PIACE/NON MI PIACE, voleva essere un ulteriore argomento a sostegno di una data tesi: il vero classico è mobile, mutevole, ontologicamente instabile e si presta ad illuminare situazioni lontane anni luce da quelle in cui è stato concepito e scritto. E non c'è nulla di così fermo, riappacificante o pigro in un classico della letteratura, tanto meno nell'Oblomov di Gončarov, che è passato nell'immaginario come il classico della pigrizia e dell'accidia.

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