giovedì 31 marzo 2016

"...del cul fatto trombetta": peti per poeti (qualche appunto sull'aria che tira)

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #10

Il dibattito attorno alla poesia e il meta-discorso che la avvolge da qualche tempo a questa parte stanno prendendo delle pieghe pericolose nonché, alla fine, assai noiose. Il fatto che siano pieghe noiose dovrebbe scoraggiare un intervento che le riguardi, ma la noia non si è ancora trasformata del tutto in indifferenza. Non sto parlando del discorso critico, bensì del discorso fatto da poeti e "operatori del settore" attorno alla poesia. Sembra che il piccolo mondo antico di chi nutre qualche interesse per la poesia (interesse intellettuale, ma anche economico o di prestigio e riconoscibilità) provi improvvisamente a mondarsi di tutti i risaputi vizi che lo attanagliano e che sono - ne elenchiamo alcuni così vediamo se è vero che repetita iuvant - un banale do ut des, clientelismo, logiche di cartello-servizio-favore, altre scorciatoie e situazioni in cui giudizio fa fin troppo rima con orifizio, il trascurare il progetto e l'opera, concetti troppo difficili ai quali si preferisce un più semplice ammaliamento per l'immagine di un autore o editore. Sono tutte problematiche di sfondo facilmente superabili, non sostanziali, a patto che si voglia veramente superarle o lasciarle sullo sfondo, dove possono tranquillamente rimanere senza troppo disturbare. Attenzione va prestata affinché queste problematiche di sfondo non intacchino la sostanza, se c'è, e non infestino tutti i pozzi. In questo scenario, mancava solo che si iniziasse a parlare di editori, collane e selezionatori "leali", di poesia "onesta" (vecchio cavallo di battaglia sabiano buono per tutte le stagioni, non importa se completamente avulso dal suo contesto originario), addirittura di poesia e poeti difesi e salvati da una legge apposita. Chi più ne ha più ne metta ed è prevedibile che a ridosso della Giornata mondiale della poesia si alzi il tiro e se ne sentano di cotte e di crude. Ognuno può raccogliere dati del genere da più fonti (siti, comunicati stampa delle case editrici, profili di social network, quarte di copertina, discorsi a festival e presentazioni ecc.). Si salvi chi può. E poi il c'è il fantomatico "lettore", questo Carneade: nominato, invocato, ripetuto come un mantra come se la ripetizione ne generasse miracolosamente di nuovi, protetto con un piglio da WWF o come ennesimo presidio Slow Food. Quanta inutilità e, nei casi peggiori, quanta velenosa approssimazione si cela tra questi discorsi? 

Nella maggior parte dei casi tutti questi dibattiti, discorsi e annunciazioni si riducono a grasso che cola, ad aria fritta, a peti centripeti buoni soltanto per gli stessi poeti, in un circuito che come noto si dipinge solitamente chiuso e centripeto, appunto. Bisognerebbe capire come si fa veramente a spalancare le finestre per cambiare l'aria viziata di quelle scoregge concettuali che insiste tra le stanze e i poetici salotti. Prendete il discorso attorno al lettore, questa (compatibile?) creatura sacrificata al moloc della lettura: il "lettore" non può essere dato una volta per tutte e studiato solamente con parametri sociologizzanti. Per me il lettore è una persona che in un dato momento della propria vita mette in gioco la propria intelligenza nella lettura (o rilettura) di un'opera testuale. Ora come ora non saprei trovare una definizione più aderente, tetragonale, puntellata sulle quattro parole che ho messo in corsivo, con particolare accento su opera, dal momento che persona, intelligenza e lettura sono chiamati in causa anche per leggere un commento su un social network o una comunicazione dell'Agenzia delle Entrate (e non fa male continuare a pensare che ogni OPUS è zero più pus, come scriveva Zanzotto). E poi il testo, il benedetto testo: dov'è finito in tutti questi discorsoni sulla poesia? Parimenti, la lingua: dove si è spostata la questione della lingua, la quale non può mancare in qualsiasi riflessione o dibattito sulla poesia che siano degni di questi appellativi?

Non è il caso di dilungarsi, basti esprimere ora un disagio ma soprattutto la necessità che si inizi a dibattere in termini mutati. Questo intervento non è uno sfogo. Di sfoghi abbiamo piene le tasche e non sappiamo bene cosa farcene ormai. Ognuno saprà trarre le proprie riflessioni e nei casi più fortunati le proprie conclusioni. Credo che sia utile sollevare dei dubbi sull'utilità di una certa "antifona delle virtù" che ci stiamo abituando ad ascoltare e a leggere ogni volta che l'argomento è la poesia e i guardiani del suo tempio salgono in cattedra. Io penso che la poesia stia di gran lunga meglio nell'incerto, soprattutto quando non è più di tanto invocata e tirata per la giacchetta per esplicitare strategie e visioni del mondo "leali", "buone", "generose", "eque", "politically correct" o "oneste". Ci manca solamente che a questa serie di aggettivi s'aggiunga la "purezza" e poi la palude sarà esiziale. In questo panorama il tanto vituperato "censimento dei poeti" di Pordenonelegge - criticato anche da chi ha poi partecipato - è meno problematico e pericoloso di quel che si possa pensare, è una pratica finalmente "empirica" e asettica (nonché un'operazione di web marketing semplice, economica ed efficace come poche altre ai tempi di Google). Molti discorsi ruotanti attorno alla poesia stanno diventando pericolosamente noiosi, ottundenti e ridondanti. Poco interessanti, in ultima analisi. La situazione è così già da un bel pezzo, ma mi pare che stia peggiorando a vista d'occhio. Lealtà e onestà restino fuori dai discorsi, restino sullo sfondo e in orizzonte, ma si eviti di nominarle troppo, perché più si tirano in ballo più si sente puzza di bruciato e di flatulenza nauseabonda. E infine non c'è niente da salvare e tutelare se non il testo poetico, che fra l'altro si salva e si tutela benissimo da sé, se è aggrappato a tappe e boe inaggirabili del pensiero e della storia, di un dato immaginario, di una lingua.

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