martedì 28 giugno 2016

"La mano mozza" di Blaise Cendrars in una traduzione après Caproni

Leggere una grande guerra #21

"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).

Chi ha già letto questo libro di Blaise Cendrars è probabile lo abbia fatto nella traduzione di Giorgio Caproni. Centenario o meno, è positivo che il titolo, uno dei pilastri della narrativa uscita dalla Prima guerra mondiale, apparso in Francia solo nel 1946, sia stato riproposto da Elliot nel 2014 in una nuova traduzione di Raphael Branchesi (pp. 271, euro 19,50), al principio del quinquennio del centenario. Positivo anche il fatto ci si sia confrontati con una "traduzione d'autore" antecedente e con la continua creazione linguistica dello scrittore di La Chaux-de-Fonds, cantone di Neuchâtel. Assieme a Le feu di Henri Barbusse (lo trovate in ben tre edizioni: Kaos, Castelvecchi e Elliot) e a La peur di Gabriel Chevallier (Adelphi), La main coupée compone un trittico abbastanza "facile" da menzionare ogniqualvolta ci si propone di affrontare il versante della narrativa francese venuta dalle trincee. Ma sono ovviamente trittici di comodo, visto che dovremmo almeno ricordare Céline o Drieu La Rochelle e potremmo, con qualche distinguo, aggiungerci i Souvenirs de guerre di Alain (che vi segnalo fra l'altro disponibili in questo file per tutti). Senza dire nulla della trama (il libro di Cendrars riporta l'esperienza del fronte e ne restituisce un quadro che si è ampiamente impresso nei lettori), notavo più che altro la distanza tra gli eventi narrati e il momento di uscita del libro. Anche la principale opera italiana di narrativa sulla Prima guerra mondiale, Un anno sull'altipiano di Lussu, così diversa nei moventi e nello stile rispetto alla tessitura linguistica ardita di Cendrars, non esce affatto a ridosso del quadriennio di guerra, ma molti anni dopo, alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Con Cendrars siamo addirittura oltre, nel 1946, quindi in un anno in cui le macerie della seconda guerra fumavano ancora in tutta Europa. Che anche quest'autore di origini svizzere abbia portato a termine dopo molti anni quella che è diventata un'opera di riferimento su un dato tema a me ha dato da pensare, sia nei termini dell'evoluzione di una materia nella scrittura di un autore e sia, dal punto di vista eminentemente storico, del come si siano sovrapposte le due guerre nella mente di chi le ha vissute entrambe nella prima metà del secolo scorso, il quale, a bene vedere, fu sostanzialmente mezzo secolo di guerre europee.

giovedì 23 giugno 2016

"faria" di Giusi Montali e Luca Rizzatello: più di un autore, ma meno di due

Al di là del titolo e dell'illustrazione, una gabbia capovolta e un uccello distante, la copertina di faria (volume curato da Maria Luisa Vezzali per Dot.com Press, pp. 76, euro 10, con una nota/depistaggio di Sergio Rotino) è curiosa per un altro motivo. Capiamo subito da questa di avere davanti un libro scritto "a quattro mani" - come si diceva anche quando si scriveva con una mano sola a penna, oggi l'espressione è forse più corretta - da Giusi Montali e Luca Rizzatello. Qua viene aggredito con un colpo il cardine dell'autorialità unica, univoca della poesia, una picconata (indiretta, o forse neanche tanto) al narcisismo che devasta qualsiasi discussione sulla poesia. La cosa strana è che il mito di Narciso sembra però giocato nella grafica, dal momento che i nomi dei due autori sembrano rispecchiarsi in una superficie d'acqua rispetto a un asse che corre sotto di loro, solamente che il risultato sotto quest'asse non è il nome riflesso bensì il nome dell'altro autore. Sono molte e notevoli le implicazioni che questa inusuale scelta autoriale porge a noi lettori di un libro di poesia siffatto. Ma che cosa accade in faria? Ce lo dice, meglio di qualsiasi altro discorso, la nota iniziale: "ci sono 56 testi, divisi in due sezioni di 28 testi ciascuna, a loro volta costituite da 14 testi fonte e 14 riscritture; la struttura rimanda al dispositivo della Vita Nova, in cui si alternano poesie e commenti; ma dove là i commenti presentano le ragionate cagioni, qui producono le ipotetiche conseguenze. Nella sezione L’agiografia umana i testi fonte sono di Luca Rizzatello, nella sezione Il signor kleck i testi fonte sono di Giusi Montali. La prima regola di faria è: c’è più di un autore, ma meno di due. La seconda regola di faria è: fare letteratura di evasione, ma in senso escapologico." La nota dice anche altre cose molto interessanti, ma per ora mi fermo qui, perché nel suo tono descrittivo in realtà pone più di qualche picchetto per le capanne sudatorie dei nostri ragionamenti. Scrivere note sensate in un libro di poesia non è un'attività facile - non credo sia nemmeno particolarmente gratificante - ma a volte all'autore/agli autori questo gesto riesce bene.

"Più di un autore, ma meno di due", appunto. Questo potrebbe essere destabilizzante per chi ha una certa abitudine a leggere poesia filtrandola sempre e comunque a partire dal nome dell'autore e dalla tirannia che questo esercita sul percepito, sulle aspettative, sulle delusioni ecc. Nel caso di faria sapere e non sapere così bene chi ha scritto cosa potrebbe insomma essere un'azione di disturbo alle nostre certezze in merito a teorie delle percezione e ricezione del testo letterario. Argomenti non più tanto di moda, si sa, ma pur sempre centrali se quello che ci interessa è la scrittura e non il côté-cotechino che attorno alla sedicente letteratura e paraletteratura s'affetta. Voglio dire che se qualcosa accade allora accade dentro la scrittura, in un libro pensato e progettato e non altrove, come troppo spesso verifichiamo. Da questo punto di vista, cioè quello di una virtù anonima della scrittura, faria è un congegno di critica dei meccanismi più incancreniti mediante i quali il tapis roulant delle patrie lettere pensa di muoversi. In realtà, e lo verifichiamo sempre più spesso, c'è ben poco movimento e avviene tutto per una malsana e per tanti versi inspiegabile cooptazione intragenerazionale che continua a tenere banco. Cui prodest? è la domanda da fare, soprattutto a chi è più giovane e si avvale di questa cooptazione.

La prima parte del volume, L'agiografia umana, riporta tutti titoli in inglese e si palesa come "affresco contemporaneo che oltrepassa ogni senso nazionale e nel quale la realtà studiata si apre all’immaginazione che permette, più di qualsiasi altro strumento, di indagarne gli aspetti anche meno evidenti e rivelarne le storture". Dispone via via sonetti di versificazione più breve a sinistra e di versificazione lunga a destra. Si registra un forte squarcio d'apertura, nelle immagini e nell'attingere a cespiti inediti (la Nigeria e Osaka possono fare capolino in un passo breve). Se usignoli stanno con tralicci di cementifici, vetri strisciati di littorine, sfrigolanti neon d'Autogrill, le radici dei limoni biancheggianti vivono con "fantasmi anoressici sulle stampe/ delle case da tè di osaka" negli "specchi di pagina" che messi insieme formano questo libro. A destra, il testo s'allunga e prende altre forme, direzioni, riparte da capovolte motivazioni, talvolta ricorrendo a determinati lessemi che si ripresentano, talvolta apportando una riscrittura pressoché totale. Ma è corretto dire che a destra troviamo una riscrittura dei testi fonte disposti a sinistra? Non penso che "riscrittura" sia la definizione più aderente a quel che accade. Vediamo un esempio di questo "specchio di pagina" nel testo intitlato "Dark roomances":

In nigeria i farmaci si fanno mescolando
l’acqua con i fiori e con la polvere di gesso
dentro i catini incrostati negli scantinati
le smorfie delle maschere rituali restano

l’unica cura contro il ceppo virale più
ostinato mentre fuori gli arbusti non si
possono nascondere tra i morsi della polvere
gli animali sono sbiancati per il sudore

nel dopopranzo non si muovono ma non stanno
mai fermi tremolano in preda ai vapori della
digestione nel silenzio infranto solo dai

kalashnikov nell’acqua dei catini si specchiano
il morso e le cinghie di cuoio dell’esorcista
il cigno ha il piumaggio bianco ma la carne nera.

-

in india ogni tre anni si è liberi dal ciclo terrestre:
né vita, né morte, l’elisir cade da un catino conteso
ai quattro angoli del paese le gocce svelano il regno
del sole, alla confluenza dei fiumi la purificazione

si trasmette per generazioni, mentre il sadhu si salva
individualmente e fa ritorno al cosmo, shiva fuma
con lui hashish e si ritrova sull’eminenza tanar delle
discrezioni: hegel ha torto, così preferisce la coincidenza

di pensiero e modus vivendi, si scopre gimnosofista
eremita del corpo nell’ascesi del silenzio, nell’imbuto
del bacino le voci percorrono il corpo mesmerizzato:

anche i topi sono sacri, nell’inconscio si ingravida
il ramo d’oro, i bambini e i cantastorie si sottraggono
alla morte e proseguono lesti un altro giro di vita

Mi sembra che questo testo sia in grado di reggere la complessità terribile dell'esemplificazione e di rendere l'idea di come funziona questo marchingegno di faria. Ma funziona? Non nel senso del verbo "funzionare" con cui si parla orribilmente della poesia in giro, ovvero riferendosi a quel "test sul testo" all'applausometro del pubblico nelle pubbliche letture. Non in quel senso funziona faria, per fortuna. Funziona semmai con diversa accezione del verbo, meno da playlist radiofonica insomma. Funziona nei moventi e negli esiti, funziona proprio lì dove accade, cioè nella scrittura, e persino in una ritrovata mimesi del mondo. Ritornando alla preziosa nota e alla parte in cui introduce la seconda sezione intitolata Il signor kleck, leggiamo che questa sezione sarà "la narrazione di un tentativo di analisi della realtà da parte di un soggetto e al contempo uno studio che un altro soggetto fa sul primo; è un monologo, ma anche un dialogo; è il tentativo di descrivere una serie di immagini talmente «informali» da modificarsi continuamente. Entrambe le sezioni intendono evadere da ogni preconcetto poetico e da ogni conformismo e in ciò siamo debitori all’abate Faria che ci ha ben istruito."


Quest'altro frammento riportato introduce allora altri due aspetti essenziali: la seconda sezione del libro, sulla quale presto arriveremo, e il personaggio da Il conte di Montecristo che presta il proprio nome al titolo del libro, quell'abate Faria impegnato nella fuga dalla sua cella nel castello d'If (ma nel dialetto, almeno in quello di Rizzatello, o nella lingua di Cecco Angiolieri, "faria" è anche il condizionale "farei-farebbe"). Di qui il richiamo alla volontà di fare letteratura d'evasione, ma in senso "escapologico" come chiude la già citata nota, in un'accezione magico-illusionista quindi. L'annosa questione della "letteratura d'evasione" è così risolta, in senso letterale, all'interno dello stesso circuito che ha creato, ricorrendo a un famoso personaggio che cercò la propria evasione (ecco allora che potremmo ritornare per un attimo alla copertina). Nella seconda sezione, laddove i testi fonte sono di Giusi Montali, è la centralità del verbo "vedere" a colpire, spesso nell'accezione "vedi" ma anche "vedilo", "vedila". Troveremo anche qui parole da linguaggi specialistici e settoriali, come quello medico o scientifico, ma anche di un rinnovato repertorio crepuscolare (una piccola campionatura potrebbe annoverare "diencefalo", "poltergeist", "linea di Kármán", "fibromi", "eritema", "aritmia", "narghilè", "entalpia", "verminazioni", "epistassi", "iperacusia"). Ecco quanto accade, sempre a esempio, nel componimento e nello "specchio di pagina" intitolato "prima tavola":


il sonno è una costellazione di dimenticanza
che nel vuoto ripete il codice in dotazione
attraverso lo spazio conosciuto e oscuro e
il tempo dilatato: si ampliano le arterie per
contenere l’aria attraversata, i piedi nella terra
la testa spinta in questo buco: nell’orizzonte
degli eventi la strada è un ago che perfora
dentro un nero che ingoia, verme di buio

-

sul visore c’è scritto manichino
perché non si confonda con gagarin
vedi la foto sul mar nero vedi
il francobollo eppure l’equipaggio
è quello di riserva oltre la linea
di kármán ecco la stazione in fiamme
il rientro il difetto nella valvola
dell’aria poi l’esposizione al vuoto

Le immagini "talmente informali" di cui è fatta questa seconda sezione, i moltissimi elementi inconsueti (anche geografici) che fanno questa sezione e l'intero libro spostano con una scossa il terreno su cui cammina la lettura e travolgono quell'immaginario poetico che ormai potremmo definire "medio" a favore di un progetto di scrittura che si apre, soprattutto in senso spaziale, a un flusso di percezioni divaricanti. Ed è forte la componente progettuale del libro - lo avete letto anche dalla nota - che fissa il perimetro della cella del possibile e i tunnel della fuga del nostro abate. La parte più interessante della bella nota di Sergio Rotino è dove precisa che "nello scrivere le poesie doppie, duali, bine, che compongono il progetto di questo libro, così come nel leggerle, ci troviamo sì per le scale di Escher, ma restando sempre in un sistema cartesiano di inizio-fine. Chi scrive (forse più di un autore, forse meno di due autori) vuole cioè cancellare preconcetti poetici e varie forme di conformismo poetico, affidando al lettore la propria fuga. Ma così facendo usa la carta, l’inchiostro, il libro e il verso. Quindi chi legge diviene momentaneo testimone dell’atto. Ne diviene anche complice spostando in avanti il limite con il proprio cercare nuovi paradigmi. [...]". Insomma, finalmente un "libro di poesia" e non solo un "quaderno di scritture", per provare a riassumere.

lunedì 20 giugno 2016

I cambi di stagione: solstizio d'estate


In occasione di solstizi o equinozi, quindi al massimo quattro volte l'anno se non mi stufo prima, riprendo qui un testo dagli archivi. Specifico solo il caso dei testi editi. Le immagini che accompagnano questi pigri post sono tagli e rotazioni (di 90°, 180° o 270°) dalle tavole.


Bianco di titanio




Esistono i cavalli vicino ai fiumi.

Esistono le strade e hanno
rispetto, esistono i colli nei pollai
nascosti tra le lamiere di questo
mattino diviso: il sole, l'ultima
nebbia accecante.
Esistono le onde i doganieri
gli spettri i sogni che cambiano pegno
ai giorni.
              Gli specchi no
non esistono più.
                            L’igiene del mondo
poteva essere un colore
infranto sullo spazio sempre più
sottile sempre più verosimile fino a farci
sbucare nel bianco.

sabato 18 giugno 2016

"L'età del sospetto. Saggi sul romanzo" di Nathalie Sarraute per Nonostante edizioni

Inaugura la collana di saggistica "Menabò" di Nonostante Edizioni la raccolta di saggi di Nathalie Sarraute intitolata L'età del sospetto (pp. 152, euro 17, traduzione di Donata Meneghelli). L'Ère du soupçon. Essais sur le roman esce nel 1956 per Gallimard e cristallizza quattro contributi sul romanzo in un momento preciso, ovvero agli albori della grande riflessione sul "nouveau roman" (il contributo canonizzante Pour un nouveau roman di Alain Robbe-Grillet uscirà nel 1963, ma raccoglie saggi scritti a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta). A ripensarci, fu davvero impressionante, soprattutto in termini quantitativi, la riflessione sul romanzo che ebbe luogo in Francia nel Ventesimo secolo. Fu vasta, dettagliata, con esiti assai diversificati, anche nelle modalità in cui il mantice della riflessione teorica soffiò sugli esiti creativi degli autori che si esercitarono in entrambi i versanti, quello critico e quello creativo. Per Nathalie Sarraute la vicenda fu un po' diversa e si può dire che la riflessione teorica innesti tematiche care già manifestate con l'esordio delle prose brevi di dialoghi e conversazioni intitolata Tropismes (del 1939, opera della quale registriamo traccia in una vecchia edizione Feltrinelli, collana "Le comete", in un volume plurititolato Ritratto d'ignoto - Tropismi - Conversazione e sottoconversazione, prefazione di Jean-Paul Sartre e traduzione di Oreste Del Buono). Quel libro d'esordio con un titolo preso a prestito dalla biologia fu sostanzialmente ignorato, con l'eccezione di pochi osservatori d'eccezione come Jean Paul Sartre e Max Jacob, ma fu ripreso da Les Éditions de Minuit nel 1957, che lo battezzò in un certo qual senso come l'opera precorritrice del "nouveau roman". Ed è proprio sui dialoghi e sul personaggio che, come noto, si concentra parte fondamentale della speculazione francese su quanto ci ostiniamo a chiamare romanzo. Si possono prendere tutte le posizioni che si vogliono, ma al dialogo e al personaggio sempre torniamo, se di romanzo proviamo a parlare parlare (soprattutto del secondo). Anche per questo è utile questa riproposizione di saggi della scrittrice di origini russe nata a Ivanovo nel 1900 e morta a Parigi nel 1999.

Ma che cos'è questo "sospetto" da cui il titolo del celebre contributo di Nathalie Sarraute e la fortuna della sua formula? Sono ormai ben note le parole con cui Sarraute circoscrisse il suo ragionamento. Le ricordiamo nella sua lingua: "Un soupçon pèse sur les personnages de roman. Le lecteur et l'auteur en sont arrivés à éprouver une méfiance mutuelle. Depuis Proust, Joyce et Freud le lecteur en sait trop long sur la vie psychologique. Il a tendance à croire qu'elle ne peut plus être révélée, comme au temps de Balzac, par les personnages que lui propose l'imagination de l'auteur. Il leur préfère le "fait vrai". Le romancier, en revanche, est persuadé qu'un penchant naturel pousse le lecteur à trouver, dans un roman, des "types", des caractères, au lieu de s'intéresser surtout à cette matière psychologique anonyme sur laquelle se concentrent aujourd'hui les recherches de l'auteur. Aussi celui-ci s'acharne-t-il à supprimer les points de repère, à "dépersonnaliser" ses héros." Il genio del sospetto, risalente a Stendhal, passa per Jacques Tournier e le sue considerazioni su un pubblico che teme che l'autore cerchi di "fargliela" e la conclamata nuova centralità del "fatterello vero" (le "fait vrai") a dispetto di un'opera di immaginazione messa al bando. Il saggio si conclude con queste parole:
Il sospetto, che sta distruggendo il personaggio e tutto l’armamentario desueto che ne assicurava la potenza, è una di quelle reazioni patologiche con cui un organismo si difende e trova un nuovo equilibrio. Obbliga il romanziere ad assolvere quello che è, come dice Philip Toynbee ricordando la lezione di Flaubert, «il suo compito più profondo: scoprire il nuovo», e gli impedisce di commettere «il crimine più grave: ripetere le scoperte dei suoi predecessori». (pag. 82)
I quattro saggi contenuti nel volume, con le loro disamine sui personaggi, su autori precisi (spicca l'amore per Henry Green), sul succitato "fatterello vero", sul patto autore-personaggi, sulle mode del tempo (ad esempio il romanzo americano, ma tutto il libro è un buon termometro anche dei "sentimenti" interni al mondo della letteratura e alla fama di quei tempi), fanno da base d'appoggio a un discorso che palleggia continuamente tra i due semicampi di autore e lettore e che oggi, più che rassomigliare a un approdo, pare porsi dinnanzi a noi e a alle nostre riflessioni sul romanzo con le sembianze del punto di partenza per le riflessioni che possiamo ancora fare. Ad esempio pone senza quasi volerlo più di qualche domanda alla confessione, intesa come genere letterario, e si potrebbe proprio ripartire dalle riflessioni di María Zambrano a riguardo. Ma è solo uno dei possibili tragitti che si possono intraprendere in un'era del sospetto ancor più radicalizzata e cinica.


Spesso la letteratura francese ci ha abituati ai luoghi comuni e alla loro analisi. Da una loro contestazione e da molteplici riflessioni sulle logiche che governano i personaggi dei romanzi si può dire che era partita anche Nathalie Sarraute, approdata ai terreni vaghi della "sottoconversazione" (cui è dedicato qui uno dei saggi più interessanti, "Conversazione e sotto-conversazione"), fatta di movimentazioni disarticolate e non sicure, interrotte. La pluralità della vita, l'intensità di vita (per dirla con Gide) e il flusso vitale sono rimasti costantemente al centro di qualsiasi speculazione teorica e creativa. Oggi che la parola "romanzo" è una etichetta accostata al titolo di un libro in libreria ci dimentichiamo della mole di riflessioni che si è scaraventata su questo sconosciuto per qualche decennio. Tuttavia, ogni volta che si affronta una riflessione teorica sul romanzo si ha l'impressione di affrontare qualcosa che ci riguarda da vicino. Non so se dimenticarsi di tutte queste riflessioni sia necessariamente sbagliato: è un'opzione, fra altre possibili. Probabilmente basterebbe iniziare a scegliere alcuni dei contributi più originali e significativi sul tema e questo di Nathalie Sarraute mi pare uno.

giovedì 16 giugno 2016

"Piovono occhi morti": l'introduzione alla parte dedicata alla poesia straniera

Concludo la miniserie di post dedicata agli interventi letti in occasione di "Piovono occhi morti", la serata sulla poesia della Prima guerra mondiale dello scorso 9 giugno a Ca' dei Ricchi a Treviso. Quello che segue è il mio intervento, che precedeva una serie di letture in lingua straniera e traduzione da Georg Trakl, Peter Baum, Guillaume Apollinaire (al quale dobbiamo il titolo della serata), Pierre Reverdy, Siegfried Sassoon, Wilfred Owen, Ernest Hemingway, Anna Achmatova, Osip E. Mandel’štam, Miloš Crnjanski, Pastuškin (Andrei Budal), Jaroslav Kolman Cassius e, a chiusura, Giacomo Noventa.

Georg Trakl
Nella prima parte avete ascoltato alcune poesie di Giuseppe Ungaretti. In questo secondo tempo ascolterete poesie in lingua straniera e traduzione e alcune di queste sono le celeberrime poesie dei War Poets inglesi (Siegfried Sassoon e Wildred Owen). La poesia non fa quasi mai molto dibattere, tuttavia nel nostro paese di recente si è innescata una piccola discussione e polarizzazione attorno a questi due nuclei che potrebbero apparire emblematici: Ungaretti da un lato, i War Poets dall’altro. Sintetizzando si potrebbe dire che il succo del discorso, svoltosi anche nel sito di Wu Ming Foundation, era circa questo: laddove la poesia dei War Poets denuncia la propaganda bellica, la disumanizzazione e mostra una certa comprensibile e giusta empatia con il nemico, in Ungaretti il nemico semplicemente non c’è – Ungaretti “uomo di pena” è tutto rivolto al sé – rimane ineffabile. In Ungaretti scatta il lirismo, l’attaccamento alla vita nei momenti di massima disumanizzazione e ne esce un pianto paragonato a una pietra del Carso. 

A me questa discussione, prescindibile ma significativa, è parsa viziata, sterile e quindi inutile: la classica esca gettata nella rete, nei social network e nel dibattito per polarizzare, per semplificare, per arrivare poi a parlare dei legami di Ungaretti con il regime fascista. E poi si sa che i dualismi affascinano sempre, anche nel mondo dello sport ad esempio, dove sono creati ad arte dalla stampa per vendere di più. Insomma, rischiamo di farci male, anche perché in Italia con le macerie delle categorie di destra e sinistra da un bel po’ leggiamo persino il colore del latte. E dovremmo anche aprire una parentesi sul modo in cui il regime ha “impacchettato” la memoria della Prima guerra mondiale, e poi un’altra parentesi sulla quasi rimozione della Grande guerra in epoca post-resistenziale e repubblicana: insomma, ce n’è abbastanza per un saggio di 800 pagine senza nemmeno la garanzia di un qualche successo. Questo serva però per ribadire che necessariamente qualsiasi discorso parte e ritorna alla politica, perché troppo spesso ci dimentichiamo che qualsiasi guerra si dichiara per questioni dettate da un’agenda politica. Così fu anche per la Prima guerra mondiale, ovviamente, sebbene la lettura politica abbia da tempo lasciato la scena ad altre letture e tematizzazioni. Questo fatto è inspiegabile e inaccettabile e anche in questo quinquennio del centenario spesso la politica non si tocca, perché è scomodo riparlarne nell’Europa di oggi. Tornando a noi, non è vero che solo i War Poets (che fra l’altro ebbero pure incoraggiamenti alla scrittura da parte del governo di Londra) scrissero poesie per la collettività e di alto impatto culturale mentre Ungaretti le scrisse per sé. La guerra è primariamente una straordinaria esperienza collettiva e personale al contempo e rappresenta questo genere di esperienza ibrida per antonomasia e al massimo livello (in questo assomiglia molto alla poesia). La guerra è esperienza del compagno, del nemico e di molti gruppi, ma è anche un primo imprevedibile laboratorio di solitudine dell’uomo contemporaneo (lo percepiremo bene in alcune poesie che seguiranno). Questo schiacciamento di appartenenza e solitudine ha nella scrittura poetica una delle manifestazioni più nuove. Per chiudere questo passaggio aggiungerei che se una serata come questa saprà fornire qualche antidoto contro facili semplificazioni o “spezie” del dibattito, come curatori del programma potremmo essere soddisfatti. Più di tutto ci interessa offrirvi delle poesie scritte da chi la guerra l’ha vissuta realmente.

In questa seconda parte ascolteremo dunque alcune poesie in lingua straniera e in traduzione. La scelta multilinguistica potrà apparire bizzarra, visto che alcune sono lingue davvero poco conosciute qui. Di questo aspetto multilinguistico ne ha già accennato Marco Scarpa nel suo intervento, e dirò solo che la chiave multilinguistica ci è parsa uno dei pochi strumenti che avevamo a disposizione per restituire una spazialità alla lettura, proprio attraverso la variazione linguistica. Colgo lo spunto per soffermarmi sui concetti di spazio e tempo: questi gangli fondamentali della nostra vita cambieranno irrimediabilmente col conflitto, sia per la prima grande presa visione della vastità della guerra, contrapposta spesso all’esiguità degli spostamenti dei fronti, sia per quella progressiva familiarità con un tempo nuovo. Un esempio? Gli assalti e le uscite dalla trincea, precise al secondo, abitueranno ancor più alla sincronia e alla sincronizzazione, realtà (o forse irrealtà?) con la quale il mondo attuale fa sempre più i conti, fino ad arrivare a quella sincronia esagerata e irreale nonché alla mancanza di un senso del luogo nella quale ci hanno spinto i mezzi di comunicazione digitale (letti oggi i finali delle poesie di Ungaretti sembrano tag di georeferenziazione). Si tratta in realtà di un cambiamento nella percezione di tempo e spazio che trova impulso già alla fine del Diciannovesimo secolo e si completa proprio con la Prima guerra mondiale. Lo ha brillantemente mostrato Stephen Kern in un suo studio intitolato Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento. Il multilinguismo di questa serata è una questione di spazio quindi, di suono e di sostanza, ma anche una scelta scenica e di regia, per portarci altrove rimanendo fermi. 

Ascolteremo quindi poesie dal tedesco, francese, inglese, russo, serbo, sloveno, ceco e poi ci sarà un finale con una “lingua straniera” a sorpresa. Come sappiamo la guerra significò un’esplosione trasversale della scrittura, non solo poetica, narrativa o memorialistica (pensate ad esempio a un libro molto bello come il diario di Don Minzoni, cappellano militare lungo la linea del Piave). Le lettere e le cartoline costringeranno centinaia di migliaia di persone allo sforzo della scrittura ed è qui che ravvisiamo, nel caso del nostro paese, le prime manifestazioni di ciò che è stato studiato come “italiano popolare”. Questa sera abbiamo deciso di affrontare il versante poetico della scrittura che sgorgò abbondante dalle trincee o anche dai ripensamenti di quell’esperienza a guerra conclusa. Come è evidente c’è un portato di testimonianza eccezionale che proviene dalla letteratura mondiale di quegli anni, ma nei singoli testi c’è altresì un invito a tener alta la guardia contro le semplificazioni, a saper cogliere le differenze e le distinzioni che vanno necessariamente colte, per poter continuare a leggere un corpus di poesie che è ovviamente molto più ampio e sfaccettato di quanto possiamo offrire qui ora. Incominciamo con una poesia del poeta austriaco Georg Trakl intitolata Gródek, comune della Galizia, vicino al confine tra Polonia e Ucraina, tristemente noto come una delle prime carneficine del ’14. Di lì a poco, dopo aver assistito una novantina di feriti gravi, Trakl si suicidò all’ospedale di Cracovia, all’età di 27 anni. Overdose di cocaina. Ben prima della guerra, nel 1911, aveva scritto in Menschheit (“Umanità”) questi versi che leggiamo nella traduzione di Ida Porena:


Umanità schierata davanti a gole fiammeggianti,
un rullo di tamburo, buie fronti di guerrieri,
passi per la nebbia di sangue, stridio di ferro nero,
disperazione, notte in cervelli tetri.
Qui l’ombra di Eva, caccia e rosso oro.
Nube che luce trapassa, ultima cena.
Mite silenzio sta nel pane e vino
e in dodici si sono radunati.
Sotto gli ulivi a notte gridano nel sonno.
San Tommaso affonda la mano nella piaga.

Era appunto il 1911, in piena “belle époque”, e il suo sismografo era già più che ricettivo, in anticipo su tutto. Buon ascolto.

mercoledì 15 giugno 2016

"Piovono occhi morti": l'intervento di Matteo Giancotti

Di seguito l'intervento scritto e letto da Matteo Giancotti in occasione della serata dedicata alla poesia della Prima guerra mondiale dello scorso 9 giugno a Treviso intitolata "Piovono occhi morti". Questo testo precedeva la lettura di poesie di Piero Jahier, Camillo Sbarbaro, Clemente Rebora, Massimo Bontempelli, Ardengo Soffici, Sergio Solmi e Giuseppe Ungaretti. La selezione dei testi si è basata su un lavoro di riferimento per il tema quale è l'antologia curata da Andrea Cortellessa Le notti chiare erano tutte un'alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale (Bruno Mondadori, 1998).

Massimo Bontempelli
Quando scoppia la guerra, nell’estate del 1914, l’Italia si dichiara neutrale, ma gli intellettuali italiani non hanno intenzione di stare a guardare. Sentono che l’aria è satura di violenza e, coi loro scritti, agiscono da acceleratori della crisi. Non parliamo solo dei futuristi, che non vedevano l’ora di tirare qualche bomba, ma anche di persone più “civili” come Renato Serra e Piero Jahier. Per vari motivi, di natura diversa, psicologica o politica, molti sentono di non poter mancare l’appuntamento con un fatto epocale, con una occasione che non si ripresenterà mai più: il primo testo che leggeremo, di Piero Jahier, parla proprio dell’impossibilità di stare a guardare in un momento come quello.

C’è chi come Camillo Sbarbaro va in guerra pur di allontanarsi da casa, pur di interrompere per un po’ i circuiti ossessivi della vita cittadina: ufficio-osteria-bordello. A Sbarbaro la vita borghese sembrava un manicomio. Ma, una volta al fronte, la vita militare gli si rivela subito altrettanto folle. Pur di fuggire a quella specie di manicomio diffuso che è la zona di guerra, i soldati cercano di procurarsi una qualunque malattia: mutilazioni, otiti, ernie, ferite di ogni tipo. Di autolesionismo, e dello stupore di trovarsi al fronte, Sbarbaro parla in una delle poesie in prosa che chiamava Trucioli: istantanea memorabile, tanto realistica quanto visionaria, con la quale ci affacciamo alla guerra.  

Anche un poeta come Clemente Rebora, che non era certo un guerrafondaio, si trova, nel 1914, più vicino agli interventisti che ai neutralisti. Come uomo, è in crisi da sempre, ma in quel momento, anche per motivi sentimentali, la sua vita è arrivata a un punto di non ritorno; e se la vita è già una guerra, a quel punto tanto vale andare a «rompersi il capo» al fronte. Come altri, che erano stati interventisti, Rebora si accorge però immediatamente, una volta vestita l’uniforme, che la guerra vista da vicino è orrenda oltre ogni immaginazione. Rebora è capace di sentire con incredibile forza di penetrazione il dolore degli altri più che il suo. Una madre che si separa dal figlio in partenza per il fronte, con uno straziante addio alla stazione, in mezzo a tante chiacchiere indifferenti della gente che non conosce il dolore, dice molto di cosa la guerra produca nelle vite normali, fuori dalle speculazioni intellettuali. Col testo di Rebora, che si intitola In orario perfetto ed è ambientato in una stazione ferroviaria lontana dal fronte, entriamo a tutti gli effetti nel fenomeno emotivo della guerra.
Nel testo seguente, che è sempre di Rebora e si intitola Perdono?, vediamo in quale stato la violenza della guerra possa ridurre il corpo di un soldato; un soldato che è forse lo stesso da cui si separava quella donna alla stazione. Un soldato il cui corpo, un tempo, era stato quello di un bambino innocente che faceva pipì. In questa prosa lirica violentissima i veri temi dominanti sono l’innocenza perduta, e il legame creaturale tra figlio e madre.
Al fronte, assistere allo spettacolo quotidiano della mutilazione e della decomposizione rafforza in certe anime spietate il gusto di vivere e di sentirsi vivi; il gusto di sentirsi tutti i pezzi del corpo ancora attaccati addosso, come nella poesia Voluttà di Massimo Bontempelli. L’incredulità di sopravvivere, minuto dopo minuto, al disastro, ha fatto sì che ad alcuni i giorni di guerra sembrassero i più belli della vita. Per chi era portato ad assaporare il rischio, ogni istante al fronte, vissuto come se fosse l’ultimo, era di per sé una condizione euforizzante, miracolosa. Ogni istante di vita in più, per chi era cieco al dolore degli altri, poteva dare piccoli delirii di onnipotenza: è di questo che parla la poesia di Ardengo Soffici intitolata Sul Kobilek. Questa poesia parla di un’illusoria bellezza del momento, di un momento di fraternità cameratesca che ha la parvenza dell’eternità.
Prima che l’Italia entrasse in guerra, gli interventisti scalmanati, come Papini, pensavano che un bagno di sangue fosse necessario per rigenerare una civiltà stanca. Il loro ragionamento era semplice, oggi diremmo semplicistico, se non criminale, e prevedeva una regressione alla barbarie. Bisognava, secondo Papini e i futuristi, spargere la morte a manciate, per resuscitare la vita. I futuristi sono costretti a mostrare di pensarla così anche a guerra in corso. Sono un movimento compatto, rispondono tutti alle direttive del loro capo, Filippo Tommaso Marinetti, uno che la guerra la “glorifica” fin dal 1909. Una volta in guerra, i futuristi la guerra devono farsela piacere. Forse per questo c’è sempre qualcosa di artefatto e di forzato nelle poesie futuriste sulla guerra: il loro inno alla morte suscitatrice di vita non è mai troppo inquietante perché in fondo fa parte del programma.
Inquietanti sono piuttosto le poesie di Massimo Bontempelli, che non è un futurista della prima ora ma un classicista convertito al futurismo, oltretutto in età matura. Di Bontempelli leggiamo altri due testi, oltre a Voluttà, che abbiamo già letto. Una poesia si intitola Vita; e qui il titolo può sembrare paradossale ma purtroppo non lo è: Bontempelli vuole davvero dirci che le armi per lui sono vita, e che la morte serve a rinnovare la vita. In una parola, vuole dirci che la morte è vita. Ma perché dargli la parola, oggi?
Se cancelliamo la prospettiva aberrante di quelli che hanno ucciso con piacere, di quelli che hanno assaporato la voluttà del pericolo e della morte, rischiamo di non capire perché si sia potuto scatenare un enorme macello durato quasi cinque anni. Purtroppo non erano pochi, quelli che provavano il piacere perverso di uccidere. 
Un’altra poesia di Bontempelli è Armonia. Parla dell’ansia di cui si soffre sotto il bombardamento, e dello sforzo di autocontrollo necessario per resistere alla follia. Parla della distrazione che bisogna procurarsi, pensando intensamente a una cosa qualunque lontana dalla guerra, fosse anche il negozio del fiorista che sta all’angolo del corso. Bontempelli si costringe a pensare, mentre è in guerra, alla vita civile.
Nel testo che abbiamo preso da Sergio Solmi, intitolato Ricordi del 1918, succede invece il contrario. Qui la guerra è finita, la vita civile è ricominciata da tempo. Ma basta un niente, basta la traccia di un odore, perché il cervello ricrei, con una precisione impressionante, il ricordo della guerra. L’esperienza della guerra ha scavato solchi profondi nel cervello dei combattenti, tracce nascoste che continueranno a riattivarsi fino all’ultimo giorno della vita del reduce.
E così abbiamo cominciato a inoltrarci nel territorio incerto, senza date, della guerra dopo la guerra, della guerra che non finisce.
Per quelli che l’hanno fatta la guerra è stata un evento separatore. Ha separato, in molti casi per la prima e unica volta, i soldati dai luoghi d’origine e dalle loro famiglie. Ha separato, nella vita di ognuno, un prima da un poi. Di quelli che erano partiti, molti non sono tornati; alcuni tornano irreparabilmente menomati nel corpo; altri ancora tornano apparentemente integri ma in realtà con qualcosa di rotto dentro, con una frattura psichica che impedisce loro il ritorno al normale tempo di pace. Di questo parlano gli ultimi due testi di Clemente Rebora, che rappresenta uno dei casi più noti tra quelli dei molti soldati perduti nel calvario tra ospedali militari e manicomi, dove si tentava di “guarire”, con metodi rozzi e spesso inumani, le malattie psichiche causate dai traumi della guerra.
Anche se la guerra è lontana, o finita, le percezioni di questi reduci continuano a essere distorte, a essere percezioni “da prima linea”. Lo si avverte nettamente nella prosa lirica di Rebora intitolata Rintocco. Non ci si sente più al sicuro nemmeno in casa, lontani dalla guerra. La casa non è più accogliente, può trasformarsi da un momento all’altro in una spelonca, in una grotta, da cui riemerge l’incubo primitivo della trincea. Le luci zampillano disordinatamente, il tempo crolla, gli affetti sono irrecuperabili.
Non per caso un’altra poesia di Rebora si intitola Tempo. E’ il tempo della guerra, che si è come inceppato, si è esteso all’infinito; e l’equilibrio psichico del reduce è sempre sul punto di crollare. E’ questo l’uomo che si fa carico della vera memoria della guerra. Altri provano a rivivere, a dimenticare. Il poeta-testimone non guarisce dal trauma. Ha visto troppa morte, troppo orrore, e non si concede di dimenticare. Ha il dovere di ricordare. Dunque ha il dovere di non guarire.
Che dire infine di Ungaretti? La sua fama universale ha reso quasi impronunciabili le sue poesie più note. Quel suo fortunatissimo libro, intitolato Il Porto Sepolto, pubblicato a guerra in corso, nel 1916, è forse il primo fenomeno pop della letteratura italiana. Con pochi magri versi Ungaretti ha condensato l’atmosfera di un’intera epoca, ha dato una vera forma alla maturità delle avanguardie, ha trovato per la sua poesia una voce indimenticabile, di impressionante efficacia comunicativa. Dietro il fenomeno Ungaretti, c’è una straordinaria vicenda di ricerca interiore, uno scavo ininterrotto che collega il buco della trincea con le cavità del Carso e con una lunga serie di buie gallerie dell’anima.
Al fronte, Ungaretti coglie l’occasione della guerra per scavare in solitudine dentro se stesso. Ungaretti non dice no alla guerra, perché è troppo concentrato a dire di sì alla poesia: la sua.
Chi dice veramente no alla guerra è Sbarbaro, che arriva al punto di cancellare la guerra dal paesaggio, per fare emergere dal quadro dell’Altipiano di Asiago soltanto la sovrastante forza della natura.  Il “truciolo” 34 è l’ultimo testo della parte italiana.

martedì 14 giugno 2016

"Piovono occhi morti": l'intervento di Marco Scarpa

Inauguro una miniserie di tre post nella quale pubblicherò gli interventi che sono stati letti in occasione di "Piovono occhi morti", la serata dedicata alla poesia della Grande guerra dello scorso 9 giugno a Ca' dei Ricchi a Treviso. Incomincio con l'intervento introduttivo di Marco Scarpa. Seguirà l'intervento di Matteo Giancotti sui poeti italiani e quello con il quale ho introdotto la lettura dai poeti stranieri.

Ospedale da campo di Visco (Udine)
La prima guerra mondiale è passata alla storia come la Grande guerra e, di fatto, l’hanno anche ribattezzata la prima guerra mondiale industriale per l’utilizzo circa le nuove armi e le nuove tecnologie annesse. Potremmo innanzitutto rilevare che è una guerra svoltasi per lo più in Europa ma dalle conseguenze mondiali e tuttora in atto. Ci furono la caduta dell’impero Austroungarico e di quello Ottomano nonché i cambiamenti epocali in Russia con l’aprirsi al comunismo dopo l’impero zarista. Ci furono importanti cambiamenti nelle politiche coloniali ma soprattutto ci furono una quantità di morti che aiutano bene a definire questa guerra come un massacro senza senso. Dieci milioni di morti a causa della guerra che porta in dote pure la Spagnola, una epidemia che alcuni fonti dicono abbia fatto cinquanta milioni di morti. Queste sono alcune cifre. Numeri che sicuramente esplicitano l’idiozia del conflitto ma che non restituiscono il complesso di umanità dentro a quegli anni. Ci ha provato la letteratura a raccontare cosa sia stato quell’insieme di eventi e il portato psicofisico che ne è derivato.  Ma non è solo per questo che la letteratura ha un peso, non è solo il suo lascito a essere importante. Fondamentale è anche ricordare come a fomentare lo scoppio del conflitto non fossero solo cause politiche e economiche ma pure la volontà di una parte degli intellettuali e letterati che vedevano nella guerra una occasione da non perdere assolutamente. Si può dire insomma che la cultura ha avuto un ruolo emblematico nello sviluppo di un clima già instabile, spingendo grazie alle avanguardie artistiche (Futurismo in primis) e grazie alle riviste a ai giornali dell’epoca, verso un senso alto della guerra, una giustizia delle stragi, connaturata a una certa bellezza della violenza.

Noi oggi vogliamo focalizzarci soprattutto sulla poesia e vorrei citare Saba che scrisse come la guerra creò due tipologie di personaggi: i poeti che fecero la guerra come soldati e i soldati che la guerra fece poeti. I primi sono soprattutto intellettuali che, chi con la foga bellica, chi con la speranza di una esperienza esaltante, chi nella stupefatta follia, si sono addentrati nel conflitto come ad esempio Marinetti, Ungaretti, Rebora, Sbarbaro e i secondi, meno noti dei primi, magari non inseriti in correnti letterarie come ad esempio Giulio Barni.

Questo per quanto riguarda gli italiani ma il panorama europeo accomunava gli animi, per lo meno all’inizio. Si andava al fronte spinti dagli stati secondo i quali si sarebbe tornati presto vincitori e la guerra non sarebbe durata a lungo. Alcuni stati, come l’Inghilterra, contribuivano a fomentare la scrittura di guerra e così abbiamo notizia di circa 2225 soldati poeti inglesi che hanno preso parte al conflitto. Ma non solo. Pure Francia e Germania hanno moltissimi esempi di scrittori soldati. Noi abbiamo voluto scegliere poesie dalla maggior parte degli stati coinvolti di cui ci fosse arrivata memoria letteraria, non parametrando la quantità di testi scelta rispetto a quelli a disposizione. E abbiamo scelto di farli leggere in lingua originale e poi in traduzione per farvi sentire il reale suono e ritmo di quei versi dandovi poi anche il significato. Ma perché la poesia?

La poesia, come vedrete, oltre al valore artistico e letterario, riesce a restituire vividamente i momenti di quegli anni, con immagini memorabili, istantanee crude, storie immerse in pochi fotogrammi. Non tenta la narrazione ma scarnifica, a volte maggiormente della prosa, quel delirio, quella follia, quel dolore, quelle ripercussioni. Oltre a ciò fornisce una moltitudine di punti di vista in quanto, come prima accennato, i modi di vedere e interpretare la guerra erano molto differenti. I poeti erano ottimi cronisti di guerra ante litteram. Hanno raccontato il fronte, le trincee, gli ospedali e spesso con precisione puntualizzando luoghi e date dei loro scritti. E grazie anche a queste attenzioni questi testi sono memoria collettiva al di là dei loro versi emblematici. Le connotazioni, alcune le sentirete, sono poi le più varie. Chi scrive di una guerra necessaria per andare oltre la stanca Europa, chi sottolinea lo spirito di aggregazione dei commilitoni o di identità personale, chi giudica quel gran bailamme come una enorme festa, chi ne estrapola la follia, le responsabilità, chi elabora i lutti personali o di un popolo, chi si focalizza sul dolore degli attimi e chi elabora il lascito emotivo/psicologico che accompagna i reduci al termine del conflitto.

Potremmo evincere di trovarci di fronte a un insieme di voci che erano spinti alla guerra da diversi fattori e stimoli ma che erano accomunati da una insoddisfazione e/o da una ribellione verso quegli anni. E molte di queste voci, una volta al fronte, hanno poi compreso con più realismo lo strazio e la demenza del conflitto denunciando il mito di una guerra da molti all’inizio celebrata e da molti stimata come nobile e giusta.
Dunque la letteratura e dunque la poesia. E la sua rilevanza. Non (solo) la sua bellezza ma pure la sua efficacia nel fornire una visione ampia di una massa di eventi e di sguardi disparati. Oggi, come ieri, fondamentali come monito e memoria.

Fonti:

Le notti chiare erano tutte un'alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale, a cura di Andrea Cortellessa (Bruno Mondadori, 1998)

La guerra d'Europa 1914-1918 raccontata dai poeti, a cura di Andrea Amerio e Maria Pace Ottieri (Nottetempo, 2014)

sabato 11 giugno 2016

"Trittico del distacco" di Pasquale Di Palmo

Una poesia da #59


Trittico del distacco (Passigli, pp. 88, euro 12,50, con una nota di Giancarlo Pontiggia e una di Maurizio Casagrande) è la quinta raccolta del veneziano del Lido Pasquale Di Palmo. Segue infatti l'esordio di vent'anni fa con Quaderno del vento (Stamperia dell'Arancio, 1996), Horror Lucis (Edizioni dell'Erba, 1997), il bel Ritorno a Sovana (Edizioni L'Obliquo, 2003) e Marine e altri sortilegi (Il Ponte del Sale, 2006). "Trittico" perché il volume è composto da tre sezioni: "Addio a Mirco" (di cui quattro testi erano già usciti nella plaquette omonima illustrata da Pablo Echaurren per Il Ponte del Sale), "Centro Alzheimer" (aperta e chiusa da un componimento in dialetto e dedicata all'ultimo periodo in vita del padre) e "I panneggi della pietà", interessante sezione di prose sorta davanti una fotografia dei genitori del poeta nel giorno del loro matrimonio nella chiesa di San Francesco della Vigna a Venezia, con la madre incinta dello stesso Di Palmo, percorso attraverso il quale l'autore sperimenta le proprie capacità di sdoppiamento, straniamento e di allontanamento.

Facile dire che è una poesia sulla memoria e la sua assenza (si riprenda anche il titolo della seconda sezione). Facile dire che il distacco è quello dal padre (anche se si contano plurimi distacchi nei componimenti, persino da luoghi schiacciati a tenaglia in una topologia ricreata da Di Palmo lungo tutto il libro, precisa, reale e immaginifica al contempo, anche quando tratteggia un cimitero che sorge tra l'Agenzia delle Entrate e l'imbocco della tangenziale). Facile dirlo, ma è così. La differenza sta nel come far intendere questa vita che qui si raduna, contraendosi e dilatandosi nelle scelte messe in opera dall'autore (che vorrei ricordare è un fine francesista, curatore di volumi di Artaud, Corbière, Daumal, Michaux e Radiguet tra gli altri, nonché di I begli occhi del ladro, quel volume straordinario che Il Ponte del Sale dedicò anni fa alla poesia di Beppe Salvia). 

Il testo che propongo appartiene alla prima sezione e non necessariamente è rappresentativo del tono di tutto il libro. L'ho scelto perché racchiude alcuni degli elementi che ho inserito in questa breve nota e che sono costanti nel libro: un dialogo con la morte e le religioni e gli dèi, la centralità della fotografia, le molte persone e le molte facce; forse solo l'aspetto topologico, così pressante in questo libro, non è altrettanto ben rappresentato da questo componimento che ho scelto. Penso possa costituire un invito a leggere un breve libro che in realtà ne contiene almeno tre diversi tra loro e tenuti assieme dalle cerniere del trittico.




Xolótl


Per anni mi sono chiesto perché
appaia un cane nero
in quell’immagine che tanto stride
con i ritratti a mezzobusto
di quelli che ci sono e non ci sono.

Forse Xolótl, il dio-cane, ti accompagna,
avido di lusinghe e di carezze,
lungo il sentiero arioso che conduce
dove – ma non per noi –
farnetica la luce.

Per gli egizi Anubi
per i cinesi T’ien-k’uan
Cerbero per i greci
per i germani Garm:

è risaputo che gli antichi associassero
alla morte il simbolo del cane.

Ma tua madre ha scelto quella foto
solo perché ti immagina sereno
in un giardino anonimo
mentre accarezzi il cane 
che per sempre custodirà il tuo sonno.

mercoledì 8 giugno 2016

A Ca' dei Ricchi l'appuntamento con "Piovono occhi morti. La poesia della Grande guerra"

Data l'incertezza meteorologica su Treviso e non solo, la certezza è il cambio di sede per l'appuntamento segnalato qualche giorno fa.


Giovedì 9 giugno, ore 20.45
Chiostro di Santa Caterina 

Ca' dei Ricchi, Via Barberia 25, Treviso
Piovono occhi morti.
La poesia della Grande guerra

Conferenza con Marco Scarpa, Matteo Giancotti, Alberto Cellotto 
e letture in lingua italiana, in lingue straniere e traduzione

Con l'occasione ringraziamo anche qui i lettori che renderanno possibile questa serata:

Paola Bellin
Nicoletta Bidoia
Andrea Breda Minello

Antonella Carrer
Alessandra Conte
Stefania Conte
Eva Dankova
Jill Fowler
Martino Pablo Oro
Massimo Valli
Ana Vasic 


Inoltre un ringraziamento particolare ad Annalisa Cosentino per i consigli sulla poesia ceca e a Michele Obit per la poesia slovena.

Ricordiamo sul tema anche queste antologie di riferimento:

- Le notti chiare erano tutte un'alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale a cura di Andrea Cortellessa (Bruno Mondadori)

- La guerra d’Europa 1914-1918 raccontata dai poeti a cura di Maria Pace Ottieri e Andrea Amerio (Nottetempo)

Secondo appuntamento organizzato da TRA - Treviso Ricerca Arte con l'Assessorato alla Cultura del comune di Treviso e dedicato alla Grande guerra. Serata dedicata alla poesia di guerra, nazionale e internazionale. Marco Scarpa contestualizzerà letteratura e poesia europea nel periodo storico del primo conflitto mondiale. Matteo Giancotti concentrerà il proprio intervento su poesia e prosa di quegli anni in Italia. Alberto Cellotto proporrà un allargamento ai testi dei principali poeti europei o americani che hanno scritto sulla guerra. Seguiranno letture in italiano e lingue straniere con traduzione (qui si scarica il programma completo della rassegna).

martedì 7 giugno 2016

"Ornitorinco in cinque passi" di Lorenzo Mari. Uno scritto di Giusi Montali

Pubblico di seguito una nota critica sul libro di poesie Ornitorinco in cinque passi di Lorenzo Mari (Prufrock Spa, 2016, pp. 60, euro 10) scritta per Librobreve da Giusi Montali, che ringrazio.

Sul limine della raccolta ornitorinco in cinque passi di Lorenzo Mari due citazioni illuminano i testi che seguiranno: la prima di Franco Fortini, l'altra di Miguel García Argüez. La citazione di Fortini («[…] L'uno che in sé si separa e contraddice, e tu fissalo; | finché non sia più uno. E poi torni a esserlo, e ti porti via») rivela il programma della raccolta: enfatizzare le discrasie presenti nel proprio io per meglio delinearle, materializzarle in una concreta dualità affinché possano essere dapprima comprese e poi sintetizzate in un'immagine di sé risolutiva - ma non certo pacificata. Questa scissione dell'io che cerca di assumere nuova forma si esprime attraverso la metafora dell'ornitorinco, piccolo mammifero che, per le sue caratteristiche peculiari, complica le consuete classificazioni tassonomiche: il becco e le zampe d'anatra, il corpo un singolare incrocio tra il castoro e la lontra (o meglio, secondo la raccolta, un animale duale in bilico «fra papera e coniglio»). L'ornitorinco diviene così l'emblema di ciò che è irriducibile e palesa la fallacia delle consuete classificazioni, rivelandosi quindi come una forma di resistenza all'omologazione. Ma l'ornitorinco è anche, come testimonia la citazione di Miguel Garcia Argüez, all'origine di tutte le catastrofi e di tutte le ferite («de todas las catástrofes» e «de todas las cosas que me hieren»). La dualità dell'ornitorinco inoltre sta anche negli effetti del veleno presente sulle sue unghie: strumento sia di avvelenamento che di guarigione.

Il piccolo «manuale d'istruzioni» in versi che ci troviamo in mano - uso questo termine senza alcun intento spregiativo, ma facendo riferimento allo scopo della raccolta, ovvero trasformare il soggetto (e forse anche il lettore) in cinque passi, o in cinque sezioni, in un ornitorinco secondo le valenze metaforiche alle quali si è accennato prima - traccia un percorso che indica al lettore come superare le contraddizioni dell'essere singolo scindendosi in due per poter trovare un modo di convivenza, un punto di equilibrio che possa permettere di racchiudere nuovamente in sé le due anime. E che si tratti di un manuale di istruzioni è comprovato dalla ricorrenza nei testi di imperativi, congiuntivi esortativi e dall'utilizzo dell'infinito con valore prescrittivo. Inoltre, la complessità perseguita, contrariamente a quanto vorrebbe l'omologazione della società, non deve essere superata, bensì tutelata, salvaguardata e si rivela essere un atto di opposizione al sistema dominante.

La figura dell'ornitorinco viene invocata dal soggetto («Ornitorinco, gìrati»; «Ornitorinco, svìtati») durante «la nevicata del secolo» che, a causa della sua eccezionalità, induce ad affrontare un bilancio di ciò che è stato dell'impero, ovvero di una realtà di presunta magnificenza che è crollata su se stessa («Non resta quasi niente | della campagna, della città, | degli archi altissimi, a tutto sesto, | dell'impero»). E il riferimento al dato meteorologico è rintracciabile lungo tutta la raccolta: l'evento naturale nella sua eccezionalità permette una sospensione dell'ordine precostituito, insinuando la possibilità di crearne un altro. Sicuramente la nevicata è correlata a una situazione personale di inquietudine, di ipocondria che impone al soggetto un'analisi minuziosa delle proprie anomalie per lo più legate al senso della vista (esoftalmo; miodesopsie), a quello dell'udito (otorragia, labirintite), all'atto respiratorio (emottisi; broncospasmo), a un generico acutizzarsi delle sensazioni di dolore (iperalgia) e a un senso di ipocondria più o meno accentuato che sfocia in forme di angoscia («un'ipocondria scambiata per ipertensione»; «mi faccio tutto ipocondriaco | fino al rantolo»; «lasciare, per contro, una certa dose di soprannumero, quanto all'ansia»; «l'ipocondria | che vola»; «a discapito di soggetti già precedentemente ansiosi»; «Hanno risolto invocando ipocondrie: nausea, vertigine»). Il soggetto stigmatizza sul suo corpo le catastrofi sociali ed economiche, e ripartendo dal suo io malato cerca di attuare una guarigione che può avvenire soltanto attraverso l'accettazione della propria contraddittorietà: vagheggiare un'ideologia pressoché estinta ed essere consapevoli di appartenere, per coordinate geografiche e storiche, a una società capitalista in crisi che ha precipitato l'umanità in una palude («noi andavamo, per andare || (andavamo, andavamo) || ma fuor di ogni dubbio | noi si andava a male»). Ma attraverso la metamorfosi in ornitorinco matura nel soggetto la convinzione di una via d'uscita: l'animale si fa infatti portatore di un messaggio di speranza («Sì che se ne esce - | lo dice di una crisi che non è affatto distinzione, | parola che accende, resta sempre uguale - | c'è sempre una via di uscita»; «Perciò lascia. Un messaggio, || innanzitutto, preso nel becco, ovvero | infitto nelle orecchie, che svelto | procede tra le granaglie e ripete: sì | che se ne esce»).

Del resto, appare chiaro nella raccolta che ciò che importa è opporsi senza dar peso all'inevitabile fallimento della propria ribellione: anzi, ribellarsi nella perdita è la vittoria estrema come già disse Victor Hugo di Cambronne («fulminare con una tale parola il nemico che vi annienta, vuol dire vincere»). E così è anche per il soggetto che con veemenza esprime la sua opposizione al capitalismo: «Cambronnando ripetutamente, cambronnando velocemente, cambronnando al soldo (come sempre): merda, merda, merda».

Dicevamo di questa raccolta come di un manuale di istruzioni per divenire ornitorinco, ma non è la sola sua funzione: è anche un manuale di resistenza sotterranea, interiore, celata ma diffusa che si esplica anche, o forse soprattutto, nella scrittura, in particolare nella scrittura in versi (autentica forma di resistenza se si considera che a detta di alcuni non gode di buona salute o è morta, e a detta di tanti non esiste nemmeno): «Passano sempre carta e penna, | tra le grate, a ogni ora. Affinché | tu dica, io dica: nessuno si fermi | tra le quattro mura – senza pane». Resistenza sotterranea, nascosta, covata intimamente, come se la rivoluzione potesse ormai solo avvenire nello spazio interiore, celandola accuratamente da occhi indiscreti: «non rifletto nulla dall'esterno, | poi mi tuffo. Qui dentro è la storia, || dicono, se fuori nevica: | è sotto la coltre - in albo vitro - || che lottano le classi (oppure, poco oltre, | nell'angolo cieco che proprio non vedi)». La scrittura è però anche cura, tentativo di guarirsi da sé («La parola è ispirata, | in corpo, a sanare il debito, alla cura»). Lo stesso ornitorinco è una cura, o meglio farmaco in senso etimologico, che istilla tramite i suoi artigli: gli effetti non sono gravi perché determinano un acuirsi della sensibilità agli stimoli dolorifici che, come la poesia stessa, ricordano al soggetto la propria dimensione interiore e la propria sofferenza, sottraendolo a uno stato di apatico torpore («non uccide, ma causa iperalgia, | come tutti gli spilli del mondo || che attraversano tutte le poesie del mondo | e si infilano anche negli organi molli -»). L'ornitorinco quindi risvegliando il soggetto e la società dal suo sonno destabilizza il sistema costituito e rende possibili alcune forme di lotta. E, per inciso, non è la prima volta che la poesia italiana ricorre ad animali bini per manifestare la sua opposizione al capitalismo: già lo aveva fatto Elio Pagliarani con i coniglipolli della Merce esclusa. Mentre il Magrelli dei Disturbi del sistema binario nella sezione dedicata all'Individuo anatra-lepre aveva immaginato un animale duale come simbolo della doppiezza, cedendo a una visione estremamente pessimista dell'uomo (la lepre è consapevole della sua cattiveria, mentre l'anatra, convinta di essere buona, non è poi così diversa dalla sanguinaria lepre). Altri animali compaiono infine nel testo: un solitario airone che «si scambia di posto» con l'ipocondria e richiama L'airone di Antonio Porta che osservava «quello che è rimasto, | quello che resiste, | là sotto, […] sotto le montagne di macerie, | dentro i crateri delle bombe, | sotto le colline d'immondizia» (Antonio Porta, L'airone, 4, in Id., Tutte le poesie, a cura di Niva Lorenzini, Milano, Garzanti, 2009, p. 558). Molto più numerosi invece - una vera e propria invasione - sono i topi e le api che sembrano ricordare agli uomini la possibilità o l'aspirazione a una società più giusta («attende dalle api una forma | di ritorno, un'invasione che cancella | e feconda») e la capacità di sopravvivere nelle condizioni più disagiate. L'ornitorinco nella sua dualità sembra provocare delle reazioni che conducono a un processo di raddoppiamento e di contrapposizione; così, nella raccolta tutto diviene duale: la poesia lascia il posto ad alcuni testi in prosa ma, essendo tutto in perenne metamorfosi, due di essi si chiudono con due versi, cedendo il passo nuovamente alla poesia (cfr. «conto a mente...», p. 19 e «Prima che partiamo», p. 45); il tondo si alterna al corsivo; il genere maschile si confonde con quello femminile («lui - forse lei, per dimorfismo - | rinasce dall'acqua al fango all'aria, || lei – forse lui - | crede ancora, fermamente, nella dialettica.»). Così, duale è il continuo oscillare da un io a un tu, dall'io a una terza persona singolare (che solitamente è l'ornitorinco stesso), dal noi al loro. Infine, altre dualità sono disseminate nella raccolta anche se meno evidenti: quella tra la superficie e ciò che è sotterraneo, quella tra interiorità ed esteriorità. E il percorso della raccolta porta a una progressiva ostensione di ciò che prima era celato e conduce il soggetto dall'ambiente angusto della sua cella («Che io mi sia costruito | una cella, quattro mura, || un nido di altri topi») al mondo esterno («uscii, lei con me, ma non dissi nulla, | lui con me - || perché la mattina era bella»), e in questa fuoriuscita da sé si verifica anche il passaggio dalla propria lingua madre a un'altra («presi a cantare in un'altra lingua»).

E possiamo concludere che se Lorenzo Mari ha scritto per resistere, la lettura di questa raccolta è uno strenuo, generoso, bellissimo atto di resistenza.

Giusi Montali