martedì 7 giugno 2016

"Ornitorinco in cinque passi" di Lorenzo Mari. Uno scritto di Giusi Montali

Pubblico di seguito una nota critica sul libro di poesie Ornitorinco in cinque passi di Lorenzo Mari (Prufrock Spa, 2016, pp. 60, euro 10) scritta per Librobreve da Giusi Montali, che ringrazio.

Sul limine della raccolta ornitorinco in cinque passi di Lorenzo Mari due citazioni illuminano i testi che seguiranno: la prima di Franco Fortini, l'altra di Miguel García Argüez. La citazione di Fortini («[…] L'uno che in sé si separa e contraddice, e tu fissalo; | finché non sia più uno. E poi torni a esserlo, e ti porti via») rivela il programma della raccolta: enfatizzare le discrasie presenti nel proprio io per meglio delinearle, materializzarle in una concreta dualità affinché possano essere dapprima comprese e poi sintetizzate in un'immagine di sé risolutiva - ma non certo pacificata. Questa scissione dell'io che cerca di assumere nuova forma si esprime attraverso la metafora dell'ornitorinco, piccolo mammifero che, per le sue caratteristiche peculiari, complica le consuete classificazioni tassonomiche: il becco e le zampe d'anatra, il corpo un singolare incrocio tra il castoro e la lontra (o meglio, secondo la raccolta, un animale duale in bilico «fra papera e coniglio»). L'ornitorinco diviene così l'emblema di ciò che è irriducibile e palesa la fallacia delle consuete classificazioni, rivelandosi quindi come una forma di resistenza all'omologazione. Ma l'ornitorinco è anche, come testimonia la citazione di Miguel Garcia Argüez, all'origine di tutte le catastrofi e di tutte le ferite («de todas las catástrofes» e «de todas las cosas que me hieren»). La dualità dell'ornitorinco inoltre sta anche negli effetti del veleno presente sulle sue unghie: strumento sia di avvelenamento che di guarigione.

Il piccolo «manuale d'istruzioni» in versi che ci troviamo in mano - uso questo termine senza alcun intento spregiativo, ma facendo riferimento allo scopo della raccolta, ovvero trasformare il soggetto (e forse anche il lettore) in cinque passi, o in cinque sezioni, in un ornitorinco secondo le valenze metaforiche alle quali si è accennato prima - traccia un percorso che indica al lettore come superare le contraddizioni dell'essere singolo scindendosi in due per poter trovare un modo di convivenza, un punto di equilibrio che possa permettere di racchiudere nuovamente in sé le due anime. E che si tratti di un manuale di istruzioni è comprovato dalla ricorrenza nei testi di imperativi, congiuntivi esortativi e dall'utilizzo dell'infinito con valore prescrittivo. Inoltre, la complessità perseguita, contrariamente a quanto vorrebbe l'omologazione della società, non deve essere superata, bensì tutelata, salvaguardata e si rivela essere un atto di opposizione al sistema dominante.

La figura dell'ornitorinco viene invocata dal soggetto («Ornitorinco, gìrati»; «Ornitorinco, svìtati») durante «la nevicata del secolo» che, a causa della sua eccezionalità, induce ad affrontare un bilancio di ciò che è stato dell'impero, ovvero di una realtà di presunta magnificenza che è crollata su se stessa («Non resta quasi niente | della campagna, della città, | degli archi altissimi, a tutto sesto, | dell'impero»). E il riferimento al dato meteorologico è rintracciabile lungo tutta la raccolta: l'evento naturale nella sua eccezionalità permette una sospensione dell'ordine precostituito, insinuando la possibilità di crearne un altro. Sicuramente la nevicata è correlata a una situazione personale di inquietudine, di ipocondria che impone al soggetto un'analisi minuziosa delle proprie anomalie per lo più legate al senso della vista (esoftalmo; miodesopsie), a quello dell'udito (otorragia, labirintite), all'atto respiratorio (emottisi; broncospasmo), a un generico acutizzarsi delle sensazioni di dolore (iperalgia) e a un senso di ipocondria più o meno accentuato che sfocia in forme di angoscia («un'ipocondria scambiata per ipertensione»; «mi faccio tutto ipocondriaco | fino al rantolo»; «lasciare, per contro, una certa dose di soprannumero, quanto all'ansia»; «l'ipocondria | che vola»; «a discapito di soggetti già precedentemente ansiosi»; «Hanno risolto invocando ipocondrie: nausea, vertigine»). Il soggetto stigmatizza sul suo corpo le catastrofi sociali ed economiche, e ripartendo dal suo io malato cerca di attuare una guarigione che può avvenire soltanto attraverso l'accettazione della propria contraddittorietà: vagheggiare un'ideologia pressoché estinta ed essere consapevoli di appartenere, per coordinate geografiche e storiche, a una società capitalista in crisi che ha precipitato l'umanità in una palude («noi andavamo, per andare || (andavamo, andavamo) || ma fuor di ogni dubbio | noi si andava a male»). Ma attraverso la metamorfosi in ornitorinco matura nel soggetto la convinzione di una via d'uscita: l'animale si fa infatti portatore di un messaggio di speranza («Sì che se ne esce - | lo dice di una crisi che non è affatto distinzione, | parola che accende, resta sempre uguale - | c'è sempre una via di uscita»; «Perciò lascia. Un messaggio, || innanzitutto, preso nel becco, ovvero | infitto nelle orecchie, che svelto | procede tra le granaglie e ripete: sì | che se ne esce»).

Del resto, appare chiaro nella raccolta che ciò che importa è opporsi senza dar peso all'inevitabile fallimento della propria ribellione: anzi, ribellarsi nella perdita è la vittoria estrema come già disse Victor Hugo di Cambronne («fulminare con una tale parola il nemico che vi annienta, vuol dire vincere»). E così è anche per il soggetto che con veemenza esprime la sua opposizione al capitalismo: «Cambronnando ripetutamente, cambronnando velocemente, cambronnando al soldo (come sempre): merda, merda, merda».

Dicevamo di questa raccolta come di un manuale di istruzioni per divenire ornitorinco, ma non è la sola sua funzione: è anche un manuale di resistenza sotterranea, interiore, celata ma diffusa che si esplica anche, o forse soprattutto, nella scrittura, in particolare nella scrittura in versi (autentica forma di resistenza se si considera che a detta di alcuni non gode di buona salute o è morta, e a detta di tanti non esiste nemmeno): «Passano sempre carta e penna, | tra le grate, a ogni ora. Affinché | tu dica, io dica: nessuno si fermi | tra le quattro mura – senza pane». Resistenza sotterranea, nascosta, covata intimamente, come se la rivoluzione potesse ormai solo avvenire nello spazio interiore, celandola accuratamente da occhi indiscreti: «non rifletto nulla dall'esterno, | poi mi tuffo. Qui dentro è la storia, || dicono, se fuori nevica: | è sotto la coltre - in albo vitro - || che lottano le classi (oppure, poco oltre, | nell'angolo cieco che proprio non vedi)». La scrittura è però anche cura, tentativo di guarirsi da sé («La parola è ispirata, | in corpo, a sanare il debito, alla cura»). Lo stesso ornitorinco è una cura, o meglio farmaco in senso etimologico, che istilla tramite i suoi artigli: gli effetti non sono gravi perché determinano un acuirsi della sensibilità agli stimoli dolorifici che, come la poesia stessa, ricordano al soggetto la propria dimensione interiore e la propria sofferenza, sottraendolo a uno stato di apatico torpore («non uccide, ma causa iperalgia, | come tutti gli spilli del mondo || che attraversano tutte le poesie del mondo | e si infilano anche negli organi molli -»). L'ornitorinco quindi risvegliando il soggetto e la società dal suo sonno destabilizza il sistema costituito e rende possibili alcune forme di lotta. E, per inciso, non è la prima volta che la poesia italiana ricorre ad animali bini per manifestare la sua opposizione al capitalismo: già lo aveva fatto Elio Pagliarani con i coniglipolli della Merce esclusa. Mentre il Magrelli dei Disturbi del sistema binario nella sezione dedicata all'Individuo anatra-lepre aveva immaginato un animale duale come simbolo della doppiezza, cedendo a una visione estremamente pessimista dell'uomo (la lepre è consapevole della sua cattiveria, mentre l'anatra, convinta di essere buona, non è poi così diversa dalla sanguinaria lepre). Altri animali compaiono infine nel testo: un solitario airone che «si scambia di posto» con l'ipocondria e richiama L'airone di Antonio Porta che osservava «quello che è rimasto, | quello che resiste, | là sotto, […] sotto le montagne di macerie, | dentro i crateri delle bombe, | sotto le colline d'immondizia» (Antonio Porta, L'airone, 4, in Id., Tutte le poesie, a cura di Niva Lorenzini, Milano, Garzanti, 2009, p. 558). Molto più numerosi invece - una vera e propria invasione - sono i topi e le api che sembrano ricordare agli uomini la possibilità o l'aspirazione a una società più giusta («attende dalle api una forma | di ritorno, un'invasione che cancella | e feconda») e la capacità di sopravvivere nelle condizioni più disagiate. L'ornitorinco nella sua dualità sembra provocare delle reazioni che conducono a un processo di raddoppiamento e di contrapposizione; così, nella raccolta tutto diviene duale: la poesia lascia il posto ad alcuni testi in prosa ma, essendo tutto in perenne metamorfosi, due di essi si chiudono con due versi, cedendo il passo nuovamente alla poesia (cfr. «conto a mente...», p. 19 e «Prima che partiamo», p. 45); il tondo si alterna al corsivo; il genere maschile si confonde con quello femminile («lui - forse lei, per dimorfismo - | rinasce dall'acqua al fango all'aria, || lei – forse lui - | crede ancora, fermamente, nella dialettica.»). Così, duale è il continuo oscillare da un io a un tu, dall'io a una terza persona singolare (che solitamente è l'ornitorinco stesso), dal noi al loro. Infine, altre dualità sono disseminate nella raccolta anche se meno evidenti: quella tra la superficie e ciò che è sotterraneo, quella tra interiorità ed esteriorità. E il percorso della raccolta porta a una progressiva ostensione di ciò che prima era celato e conduce il soggetto dall'ambiente angusto della sua cella («Che io mi sia costruito | una cella, quattro mura, || un nido di altri topi») al mondo esterno («uscii, lei con me, ma non dissi nulla, | lui con me - || perché la mattina era bella»), e in questa fuoriuscita da sé si verifica anche il passaggio dalla propria lingua madre a un'altra («presi a cantare in un'altra lingua»).

E possiamo concludere che se Lorenzo Mari ha scritto per resistere, la lettura di questa raccolta è uno strenuo, generoso, bellissimo atto di resistenza.

Giusi Montali

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