venerdì 17 febbraio 2017

7x7 con Cristina Alziati: "Come non piangenti" in una lettura di Alessandra Conte (prima puntata)


7x7 è una rubrica articolata in regolari uscite metrico-stilistiche nell'arco di sette venerdì e dedicate ad un libro. Come non piangenti è il libro di poesia di Cristina Alziati, pubblicato da Marcos y Marcos nel 2011 nella collana Gli Alianti, per il quale è stata scelta l'immagine emblema del Vergesslicher Engel di Paul Klee. Le analisi sono tratte da un più ampio studio di Alessandra Conte, dedicato a Cnp nel 2014.

Come non piangenti è il titolo del libro di Cristina Alziati, ed è anche la traduzione di un frammento derivato da un passo escatologico della prima lettera di Paolo ai Corinzi. Se scopriamo che il passo stabilisce una connessione con l'epitome poetica e autobiografica che è l'ultimo testo dell'ultima raccolta testamentaria di Fortini, ciò ha valore di traccia memoriale, e dà il la ad un'opera corale dalla natura profondamente dialettica e intimamente dialogica. Il libro è tessuto fitto. Alcune voci sono dichiarate come maestre e riferimenti - Cardenal, Hillesum, Luxemburg - ma tra i rami degli alberi (non casuali, ancora), in controluce, ne sono presenti anche altri, musicali e cinematografici, a intrecciare l'ordito testuale, oltre a quelli più ampi di natura biblica e letteraria. Ne risulta un atteggiamento interessante che circolarmente torna a un imperativo sotteso, scrivi. Ma la scrittrice può definirsi per negazione, senza sedersi a tavolino con progetti precisi, e si scopre che il valore della scrittura sta nell'ascoltare il mondo, che è anche non scrivere.


Presto, dai vetri aperti stamattina
un baccano di uccelli s’è levato. Folli,
che fate, ho domandato alle chiome
ossidate nel giardino, è novembre.
Sbrigatevi, andate. Lasciate ch’io qui
resti ancora a chiamare per nome ogni cosa,
il grido la piazza l’arrotino, a ripetere
il fosforo, il fosforo, il cargo, è mattina.
Il mendicante anche se giura
non verrà creduto. Lasciateci.
Che qui resti ancora a guardare, e altri
attraverso il deserto dei rami
tralucano, alberi.

Una mattina di novembre caratterizza la poesia d’esordio del libro, evocata con stamattina, in un hic et nunc dichiarati, e che il soggetto lega al desiderio di poter restare ancora a ripetere, nonostante tutto, a ricordare gli avvenimenti del passato riprendendo una narrazione: ripetere in quanto ricordare, ridiscendere nel dolore. Il mese di novembre è evocato lapidario al termine del quarto verso, chiuso con punto fermo, e porta con sé suggestioni autunnali – la fine, la morte apparente della natura. 
L’enunciazione dell’esordio pone un dubbio: si tratta di un avverbio di tempo o di un’interiezione? E’ comunque un deciso battere e levare, una premessa successivamente precisata dal punto di vista spaziale: si tratta di un luogo chiuso e delimitato – una stanza / corpo – che affaccia su di un altro luogo tradizionalmente concluso, un giardino. L’apertura è dunque minima, ma basta uno spiraglio per esserne feriti. I primi due versi infatti suonano come una raffica – d’armi o di un improvviso vento – che porta alle orecchie l’irrompere di uccelli cinguettanti o che, fortinianamente, si contendono («uccelli che al mattino tutto chiuso, tutto muto / sull’altissima magnolia si contendono»)[1]:

pREsTo, dai vETRi apERTi sTamaTTina
un baCCano di uCCelli s’è levato.

In particolare, l’apertura, che sembra generare fastidio – richiamando un’altra apertura, quella della «pelle in frantumi» a p. 31 – è evidente nei suoni allitteranti /r/ /t/ /e/ che ricorrono variamente combinati nell’immagine che si precisa nei vetri aperti, come vetri vibranti per detonazione o già infranti. La sineddoche svela l’estrema delicatezza e sensibilità del soggetto, esposto alle sensazioni auditive come una pellicola fotografica alla luce che imprime. Gli uccelli sono genericamente uccelli, produttori di baccano evocato e gonfiato nelle geminate. L’asprezza sensoriale dell’esordio, causata da una protezione che viene ad interrompersi, viene ammansita però da elementi tratti dal registro aulico, come s’è levato, o l’apostrofe allitterante alle chiome ossidate «Folli, / che fate», che operano uno scarto rispetto alla medietà del linguaggio. Il bisillabo Folli ricorre evidenziato dalla posizione a fine del secondo verso, dopo un punto fermo e incorniciato da lieve pausa di virgola, come aggiunta gnomica all’endecasillabo individuato dal segno d’interpunzione. L’apostrofe introduce e compendia il tratto sentenzioso e “leggermente alto” (espressione di Fabio Pusterla in quarta di copertina) che si riscontrerà poi nell’arco del libro; segna lo scarto improvviso verso l’alto, attua la funzione conativa del linguaggio e orienta il discorso sulla seconda persona, individuata nelle chiome ossidate. Esse richiamano «l’ossido molle del fogliame» (p. 37, vv.15-16) – forse da impressioni insinuatesi da Brecht, per contiguità tra l’elemento del rame e l’ossido («Di prim’ora / gli abeti son di rame»)[2], e per analogia figurale con segno negativo, svettante verso l’alto, da Fortini («L’ossido lede le antenne sui tetti»)[3] – già cupe fronde in A compimento, il primo libro dell’autrice. L’ossido indicherebbe, al di là dell’immediato rimando ai colori e al deteriorarsi, relativi al tempo autunnale e alla sua valenza simbolica, l’«ossido sulla luce»[4] – l’ultima espressione che conclude A compimento – il male nella storia[5]. Nell’arco dei primi due periodi traspare, anche attraverso la figura dell’albero, la dichiarata influenza di Franco Fortini per toni e figure.
Il seguito, al verso 5, prolunga il tono appena introdotto e ne intensifica l’eleganza, producendo formalmente, e dal punto di vista retorico, un distacco dalla porzione di testo precedente. Il procedimento è leggibile anche come un cambio campo cinematografico rispetto alla dinamica esterno / interno (cioè giardino / casa-corpo).
La sequenza degli imperativi progressivamente cadenzati al v.5 («SbrigATEvi, andATE. LasciATE») produce il distacco dagli ascoltatori e introduce con pathos oratorio il tema della scrittura, inteso come restare «anCora a CHiamare per nome ogni Cosa», ricorrente nel libro («Ciascuna delle cose che non viene nominata / è per sempre perduta», p. 15, vv.1-2) e raccordato al tempo e ad uno spazio lontano, collegato però all’hic et nunc, proprio a questa mattina, dove in elencazione asindetica si susseguono «il grido la piazza l’arrotino», parte del tutto, l’ogni cosa da nominare – e quindi da ricordare – echi distanti dal giardino del qui ed ora, “cose di paese”, a cui si aggiunge la serie con ripetizione «il fosforo, il fosforo, il cargo», dove il lessico della guerra tecnologica indica “cose dell’altro mondo”, che traspaiono e si ripropongono come scie luminose nella tagliente luce crepuscolare dell’autunno. La mattina è il momento in cui tutto ricomincia, assieme ad ogni guerra, personale e della storia. L’iterazione, da figura di parola, si plasma come frammento di notizia giornalistica e di cronaca, citazione e traccia di memoria, prima spia della fisionomia del tessuto del libro, vivo nell’inserzione di voci e citazioni, e rivelatore di una natura profondamente dialettica e dialogica. Il tono ottativo tra i versi 5-6 e al verso 11 («ch’io qui / resti»; «Che qui resti») si coniuga all’augurio sintatticamente e lessicalmente  elaborato – attraverso la figura dell’iperbato e del latinismo – di poter restare a guardare, e che siano altri gli alberi a trasparire nella luminosità, ossia l’alterità, ciò che deve essere costruito come bene e che è inscritto nel male[6]: «e altri / attraverso il deserto dei rami / tralucano alberi».



[1] FRANCO FORTINI, Se volessi un’altra volta…, cit., p. 9.
[2] BERTOLD BRECHT, Abeti, in Poesie e canzoni, a cura di Ruth Leiser e Franco Fortini. Prefazione di Franco Fortini, Torino, Einaudi, 1962.
[3] FRANCO FORTINI, Ancora la posizione, in Questo muro, Milano, Mondadori («Lo Specchio») 1973.
[4] CRISTINA ALZIATI, In ciascuno dei giorni, in A compimento, San Cesario di Lecce, Manni, 2005.
[5] Incontro Testo, “Incontrotesto – Incontro con Cristina Alziati”, cit., p. 12.
[6] Ibidem.

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