lunedì 3 aprile 2017

"Poesia contemporanea. Tredicesimo quaderno italiano" di Marcos y Marcos. Intervista agli autori

Librobreve intervista #76

Come nel caso dei precedenti due "Quaderni", l'undicesimo nel 2012 e il dodicesimo nel 2015, di seguito potete leggere un'intervista collettiva agli autori antologizzati in "Quaderni italiani di poesia contemporanea", pubblicazione periodica curata da Franco Buffoni e da diversi anni edita da Marcos y Marcos. Le domande rivolte agli autori di questo "Tredicesimo quaderno italiano" sono le medesime delle passate interviste apparse sulle pagine di cui poco sopra trovate i link.

Ringrazio gli autori Agostino Cornali, Claudia Crocco, Antonio Lanza, Franca Mancinelli, Daniele Orso, Stefano Pini e Jacopo Ramonda. Le prefazioni alle loro raccolte autonome sono di Antonella Anedda, Milo De Angelis, Umberto Fiori, Massimo Gezzi, Fabio Pusterla, Flavio Santi e Niccolò Scaffai.

Per quanto riguarda le presentazioni del volume, ricordo che la prossima sarà a Bergamo alla Fiera dei Librai il 15 aprile (con un'introduzione di Mario Santagostini). Si segnala già ora la presentazione del 24 maggio a Milano presso "Spazio Poesia" nella quale interverranno Franco Buffoni e Massimo Gezzi.


Agostino Cornali

LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
AC: L’idea del bene di Mario Santagostini, un libro che ho faticato molto a procurarmi.

LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
Ho iniziato a leggere poesia quand’ero abbastanza piccolo, ben prima di studiarla a scuola, e grazie ad alcune antologie del Novecento che mi sono capitate per caso tra le mani. Perciò le prime letture sono quelle di alcuni “classici” italiani del secolo scorso, Montale e Luzi in particolare. Per quel periodo tra gli stranieri devo citare almeno Borges, Pessoa e qualcosa di Rimbaud. Ma il più importante di tutti penso sia stato, fin dall’inizio, Leopardi. Poi ho conosciuto Sereni, Fortini e tra i viventi Pusterla, Santagostini, De Angelis, Magrelli. Un autore straniero che oggi leggo spesso è Charles Simic.

LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
AC: Poiché è stata la lingua che per tanti anni ho prima studiato e poi insegnato, sarei curioso di leggere un mio testo tradotto in latino. Tra le lingue moderne, visto il prestigio della letteratura che in quella lingua si è espressa, direi il francese.

LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
AC: Sceglierò un riferimento cinematografico: la corsa verso il mare del ribelle Antoine Doinel nella scena finale de I quattrocento colpi di Truffaut.
“Un tempo qui era tutto un bosco,                                                Gazzaniga
erano selve spaventose e scure”

recita una voce smarrita di cantore,
di custode delle ombre
che a quest'ora s’affollano nei corridoi.

“Adesso attraversiamo gallerie, sottopassaggi, tunnel
il fiume con denti d’acciaio
scava ancora il suo letto,
non trova pace

i nostri figli scendono da corriere azzurre
s’accalcano davanti
alle porte ancora chiuse

non dicono nulla, sono senza fiato
ma con gli occhi cercano qualcuno,
cercano te”


Claudia Crocco

LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
CC: Carlo Bordini, I costruttori di vulcani. È un libro del 2010, ma per motivi personali ho avuto una sorta di blocco verso quel libro, e l’ho letto solo da poco.

LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
CC: In prosa o in poesia? In prosa, la prima cosa seria che ho letto è stata I malavoglia di Verga, in quarta ginnasio; la prima cosa seria che mi ha lasciato il segno è stata Scuola di nudo di Walter Siti, all’università; il romanzo che ha avuto più importanza per quello che poi ho scritto nel XIII Quaderno è I detective selvaggi di Roberto Bolaño. In poesia è più facile. Il primo libro serio, al liceo: i Canti di Leopardi; i libri che hanno lasciato il segno, tutti all’università: gli Strumenti umani di Vittorio Sereni, Somiglianze di Milo De Angelis e Umana gloria di Mario Benedetti. Nel periodo in cui stavo scrivendo Il libro dei volti, però, per me stavano diventando importanti anche le prose di Alessandro Broggi (Avventure minime) e la raccolta The Complete Poems di Philip Larkin; ah, e poi rileggevo per la prima volta da persona adulta I mondi di Guido Mazzoni.

LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
CC: In inglese, perché è quella che conosco meglio.

LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
È come riguardare, da trentenni, le puntate di Dawsons’ Creek o di Piccoli problemi di cuore.
Ma sono anche una studiosa (il mio lavoro sulla poesia è per me più importante di quello per il quale mi intervistate qui), dunque devo conoscere bene la metrica. Io non ho mai avuto un buon orecchio metrico, non sono di quelli che riconoscono endecasillabi e settenari al primo ascolto: al contrario, a un certo punto mi è servito migliorare le mie conoscenze metriche e farle passare da decenti e molto buone. Ci ho lavorato moltissimo, e, alla fine di un dottorato, credo di essere in grado di prevedere cose tipo che Joey e Pacey finiranno insieme. Ma non dureranno.


VETRINA


Il vetro rivela in fretta passando
due persone ferme una gelateria
affollata anche d’inverno soli
l’uno di fronte all’altra, per caso.

La paletta azzurra lui la avvicina
piena alle labbra di lei, la crema nelle pieghe
del rossetto sfumato. Gli sorride,
ha meno freddo, per caso incrociano gli occhi.
Non si conoscono ancora non sanno
di essere meno estranei ora in uno sguardo.


Antonio Lanza

LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
AL: Mi perdonerà, ma ne intendo citare tre: un libro ancora inedito, ma di cui sentirete parlare Krankenhaus di Luigi Carotenuto; uno di una delle migliori poetesse italiane, Maria Attanasio, Blu della cancellazione; e un libro di uno dei più significativi poeti europei, Zbigniew Herbert, L’epilogo della tempesta.

LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
AL: Le primissime letture, quelle del Liceo e dei primi anni dell’Università, non posso che definirle superficiali, scolastiche, disordinate, ma bulimiche. Una telefonata della poetessa calatina Maria Attanasio, generosa di consigli e suggerimenti, cambiò le cose, e la direzione stessa delle mie letture: Milo De Angelis, Maurizio Cucchi: mi aprì insomma alla contemporaneità. Tema dell’addio su un autobus a Catania, tornando a casa; e poi, curiosamente, il Sereni di Stella variabile, prima ancora che Gli strumenti umani mi costringesse a letture continue, innamorate. E ancora il Ripellino di Sinfonietta letto ad alta voce sotto un cipresso a Etnapolis, i dialoghi di Nel magma di Luzi, il Larkin metropolitano di Finestre alte, il Bertolucci arioso di Viaggio d’inverno, il Pusterla di Argéman. E inoltre, il dialogo incessante con i miei conterranei, i vivi e i morti: Nino De Vita di Fosse Chiti, l’impervio e vulcanico Angelo Scandurra; il dimenticato ma robusto Fiore Torrisi, e i classici Stefano D’Arrigo, Lucio Piccolo, Bartolo Cattafi. Tra i miei coetanei infine (anche loro, attraverso il farsi dei loro versi e la loro presenza, “lasciano il segno”): Vincenzo Galvagno, Fernando Lena, Maria Grazia Insinga, Pietro Russo, Patrizia Sardisco. Ma nell’educazione di un poeta non ci sono solo gli altri poeti, così mi piacerebbe almeno citare le corpose suite e i concept album dei Pink Floyd, che mi hanno insegnato il respiro lungo e la progettualità dell’ispirazione.

LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
AL: In inglese. 

LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
AL: L’annegata a cui il poeta pratica un’assistenza respiratoria d’urgenza. E tenta di salvarla, salvandosi.


Voci dagli altoparlanti

III

E il divieto, cifra
del padre, parla a Etnapolis con voce
maschile: vietato entrare negli ascensori
con il carrello, vietato fumare,
vietato parcheggiare in un posto
riservato ai disabili.
                                Ma al di qua di questi
deboli steccati, la messe di auguri
di piacevole permanenza, di buoni
acquisti, di felice anno nuovo è
voce accogliente di donna perché alla donna
compete la sfera degli affetti,
i doveri di casa, le calde
mani sul viso.


Franca Mancinelli

Foto di Dino Ignani
LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
FM: Un libro di prose scoperto qualche anno fa, che ha una forza di irradiazione molto intesa, Autoritratto al radiatore di Cristian Bobin (Gallimard 1997; AnimaMundi edizioni 2012). Un potente condensato di poesia, di capacità di esporsi nudi a ciò che ogni giorno porta, tra finestre di vuoto, raggi di luce, piccole presenze che abitano lo spazio come fiori recisi. È un libro che affronta una perdita, celebrando la vita, i suoi gesti quotidiani, il suo splendente mistero.

LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
FM: Sul mio corpo-tavoletta di argilla sono incise parole. Mi piace sentirle affondare nel petto, a bocca cucita, sigillata in quel silenzio da cui affiorano voci, scie di altre bocche. Questo accadeva nella mia  prima adolescenza, quando il mio corpo era immerso per metà nell’acqua come quello di un anfibio. L’acqua è la possibilità di un’altra vita nella vita di ogni giorno. Questa stessa valenza ha per me la parola, quando puoi immergerti, sprofondare nella sua materia. È forse impossibile riconoscerne i segni, sembra di portarli da sempre, come un’impronta avvolta attorno a un punto invisibile. A ogni modo i miei primi torrenti e pozze d’acqua sono stati i libri di Cesare Pavese, Fernando Pessoa, Rainer Maria Rilke, Dostoevkij.

LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
FM: L’anno scorso, in questo stesso mese, per un progetto di scrittura ho frequentato un reparto di pediatria  dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna. Mi sono trovata a giocare con un bambino che non sapeva ancora leggere. Quando ha visto il mio taccuino, ha iniziato a tracciare nelle pagine bianche linee seghettate e taglienti. Io ne leggevo ad alta voce il suono, decretandone alla fine la lingua: è giapponese! Una linea più dolce, come dune mosse dal vento, era l’arabo. Una linea ondulata il mare. Una linea che si avvolgeva e tornava su stessa, un uccellino che saltella. Forse in quest’unica aperta lingua dell’infanzia mi piacerebbe tornare, immergere la forma della mie parole, riplasmarla come in un fango primordiale.
Amo la possibilità di sostare in questa soglia dove siamo finalmente liberi dalla necessità di comprendere. Per questo mi piace immergermi nel suono di lingue sconosciute, di cui non posso intuire il significato. È la possibilità di arretrare, di defilarsi da ogni vincolo di comunicazione, in quello spazio muto, di pura percezione, dove le parole trascorrono sospese, nel loro mistero, come grandi nuvole.

LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
FM: Per i versi del mio primo libro, Mala kruna, la metrica è stata una di quelle sottili reti metalliche che avvolgono i crinali dei monti soggetti a frane. Conteneva e arginava la mia incertezza. Dopo avere avvolto e riavvolto a lungo i versi in me, finivo per ricorrere a una istintiva e alquanto approssimata verifica del conto delle sillabe, picchiettando nell’aria con i polpastrelli, come su una tastiera invisibile. Se risultava un endecasillabo, o anche un novenario o un settenario, finivo per affidare le parole al foglio e riconoscerle. Questo è stato soprattutto per i primi testi. Poi, già dalle ultime sezioni di Mala kruna, è sempre stato il ritmo, più della metrica, che ho cercato. Il ritmo è una legge che precede ogni forma e significato. È un cordone che ci riconnette al primo pulsare del mondo. Con Pasta madre l’ho sentito all’interno di quella stessa lingua che ricevevo in dono e a mia volta donavo, perché si compisse nell’altro, in uno spazio di accoglienza e di ascolto. Con i frammenti che sono nati dopo, Tasche finte, l’ho lasciato sciogliere oltre la fine del verso. La lingua, come un muscolo che si era istintivamente contratto, ora mi chiedeva di distendersi.         


da Pasta madre (Nino Aragno, 2013)


darò semplici baci di sutura                                       
verserò saliva a ogni giuntura
sarò sbucciata e dolce ai denti.
Ogni mattino ti coglierò un pugno
di fiori dal selciato.

Per te avrò aghi sempreverdi
e sboccerò ogni inverno per bruciarmi.


Daniele Orso

LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
DO: Dall’interno della specie di Andrea de Alberti. Non proprio tra gli ultimi ma sicuramente hanno lasciato il segno anche Simon Armitage, Paul Durcan, Yari Bernasconi.

LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
DO: Domanda difficile... Del novecento italiano direi il gruppo di Officina (Fortini e Pasolini sono ovvi, ma anche Roversi e Leonetti), corretto in qualche modo dalla scuola milanese (Sereni l'ho amato molto, e poi Raboni). Come tutti gli anti-novecentisti ho una sterminata ammirazione per Caproni... Infine Giudici che sento sempre più vicino... Ma tanti altri: D'Elia, secondo me ingiustamente un po’ trascurato, Benedetti... Tra i dialettali, Giacomini... E non cito i maestri riconosciuti (Auden, Heaney, Mandelstam, Brecht...). Ma l’alfabeto l’ho imparato su Saba e Montale. Come tutti. E poi taccio per ritegno alcuni che hanno a che fare in qualche modo coi Quaderni... Se però devo proprio dirne uno tra i primi libri di poesia letti, direi l’antologia del ‘900 di Mengaldo.

LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
DO: In tedesco. Non lo parlo ma mi affascina. La lingua che nel bene e nel male ha segnato il ‘900. E poi di Brecht, di Enzensberger, di Bernhard...

LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
DO: Un bel paio di scarponi. Per quanto vecchi e usurati, sai che se vuoi affrontare le montagne, anche se possono sembrare scomodi o pesanti, sono uno strumento che ti aiuta a superare le asperità. Puoi anche sperimentare nuovi modi per salire le montagne, lasciar perdere qualsiasi sentiero, o tracciarne di nuovi, ma i riferimenti sono sempre quegli scarponi e i sentieri già segnati.


*

Tu che godi delle spighe già mature
Ricorda che per farle così gialle
C’è fatica e sudore sulla schiena
E la linfa si è seccata al calore

Dell’estate e alle ore ferme sotto
Al sole e al tremore dell’aria che bolle.
Talvolta molto scarso è il grano.
Talvolta bruciato è il raccolto.

Non puoi dire quanto saranno
I tuoi sforzi compensati. Non questo
È il punto. Non c’è merito né danno.

C’è solo un atto da fare. Fallo.
Niente bravo o applauso finale.
Fieno per le bestie, nel fienile strame.


Stefano Pini

LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
SP: La pietra di OsipMandel’stam, nell’edizione del Saggiatore: una steppa che non lascia scampo, una scoperta tardiva ma importante.

LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
SP: Tra le prime: Le illuminazioni di Rimbaud, incontrate per caso quando ancora ero troppo piccolo per capirci qualcosa, e il Leopardi scolastico, forse il primo ricordo di lettura poetica consapevole. A lasciare continuamente il segno, sempre, sono invece Vittorio Sereni, Milo De Angelis e Mario Benedetti.

LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
SP: Innanzitutto in inglese: per affezione, conoscenza diretta della lingua e un certo immaginario condiviso. Poi in portoghese, di cui mi piacciono il suono e la malcelata malinconia.

LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
SP: La descriverei come una marea, con il suo ritmo, le sue noie, il suo fascino, la sua scientificità. La si può assecondare, ci si può adattare e anche proteggere dalla marea, ma non la si può ignorare.


Treviglio, via Deledda


L’età mette ordine nei cassetti
le primavere ancora rosa, come le scale
del santuario che sta lì da secoli
e nessuno più teme, nell’orbita del paese.
Si crede in una specie, un conforto
per le ossa azzimate e il suono di un figlio,
le ore contate che fanno un padre.
Si prova qualcosa, a dire che non è la fine.


Jacopo Ramonda

LB: Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
JR: Via provinciale di Giampiero Neri.

LB: Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
JR: I primissimi a colpirmi, durante il liceo, sono stati Lee Masters, Bukowski ed Eliot. Ma i poeti che hanno veramente lasciato il segno li ho letti più tardi, quando ho deciso di mollare con la musica per provare a scrivere seriamente (per seriamente intendo quotidianamente). Si tratta per lo più di contemporanei: Giampiero Neri, Tiziano Rossi, Umberto Fiori, Andrea Inglese, Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Guido Mazzoni, Alessandra Carnaroli, Francesca Genti, Raymond Carver, Russell Edson, Charles Simic, Mark Strand, Simon Armitage, Billy Collins e altri ancora che mi piacerebbe citare, ma direi che si tratta di un elenco già troppo lungo.

LB: In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
JR: In inglese, la lingua di molti miei miti musicali e letterari.

LB: Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
JR: Non so se posso rispondere a questa domanda, dato che scrivo prose brevi.
Istintivamente, mi viene in mente l'immagine di una città lontana, lasciata alle spalle, per trasferirsi in un'altra nazione, con varie affinità e aspetti in comune con la precedente, ma anche con regole, usi e costumi differenti.


Una lunghissima rincorsa (cut-up n. 157)


Mentre ti aspetto seduto su una panchina, mi lascio catturare dal modo in cui uno sciame d’api si spinge avanti, contorcendosi e aggrovigliandosi in un intreccio di orbite ellittiche. L’avanzata del sistema è una conseguenza delle derive dei suoi componenti, che sembrano rincorrersi tra loro.

Nell’illusione che il numero dei passi sia proporzionale alla distanza coperta, procediamo lungo un percorso a spirale, in cui scopriamo quello che vogliamo dire nell’atto di dirlo, tra errori, dimostrazioni di coraggio e ripensamenti. La capacità di coordinare i movimenti, e avanzare in posizione eretta, è un meccanismo che pare studiato apposta per permetterci di affrontare la lunghissima rincorsa che ci aspetta. Inseguendoci a vicenda, in nome di una particolare forma di contorsionismo che riconosciamo come amore, creiamo un groviglio difficilmente districabile d’interdipendenza, speranze, aspettative disattese o mantenute, e interpretazioni equivoche simili a stelle cadenti. Un’illusione ottica, originata da uno sciame di meteore che si rincorrono invano lungo orbite parallele, sulla traiettoria della Terra, finendo per esserne travolte e sgretolandosi nel contatto con l’atmosfera.



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