martedì 30 maggio 2017

Tradurre in italiano Emily Anthes, Daniel Arsand, Bernard-Henri Lévy, Lilian Thuram e altri. Intervista a Sara Prencipe

Librobreve intervista #79

Io sono vivo e tu non mi senti di Daniel Arsand (da poco uscito per Codice Edizioni) è il suo ultimo lavoro di traduzione. Ringrazio Sara Prencipe per l'intervista che segue.


LB: Iniziamo con l’inizio: come sono stati i tuoi inizi, i primi contatti e il primo lavoro?
R: Dopo la specializzazione post-laurea alla Scuola dell’Agenzia TuttoEuropa di Torino ho contattato la casa editrice francese di un romanzo che avevo studiato all’università, e quando mi hanno risposto che in Italia era ancora inedito ho cominciato a mandare prove di traduzione e schede di lettura a case editrici con un catalogo compatibile con quel libro. Dopo quasi un anno, durante il quale ho lavorato in uno studio editoriale, mi ha risposto una piccola casa editrice, che ha accettato la mia proposta e mi ha affidato la traduzione.

LB: Hai mai rifiutato una proposta di traduzione? Se sì perché? E se no, quali potrebbero essere i motivi principali che ti spingono a un rifiuto?
R: Sì, mi è capitato raramente, ma è successo. Ho rifiutato perché le tariffe che mi proponevano erano molto basse e il tempo a disposizione ridicolo.

LB: Ci sono dei traduttori, conosciuti di persona o anche no, ai quali guardi con particolare ammirazione e gratitudine?
R: Sicuramente penso con affetto e ammirazione a Maurizia Balmelli, che è stata la mia insegnante alla scuola di specializzazione di Torino. A lei devo la mia prima prova di traduzione e un po’ di consigli preziosi.

LB: In un seminario, Franca Cavagnoli suggeriva ai giovani traduttori di considerare i classici che stanno per uscire dai diritti in vista delle future edizioni elettroniche di opere sempreverdi. Cosa pensi? Si tratta di un consiglio interessante considerando tutte le traduzioni "che invecchiano", dall’altro lato è difficile al giorno d’oggi tradurre molto senza un obbiettivo e un accordo editoriale. Ti è capitato di tradurre opere abbastanza lunghe senza un contratto o senza uno scopo a breve-medio termine?
R: No, non mi è mai capitato di tradurre un testo lungo senza uno scopo editoriale o un contratto, e in questo momento non lo farei per ragioni pratiche, legate proprio alla necessità di fare un lavoro che sia riconosciuto come tale e che mi permetta di mantenermi.
Del resto è verissimo che le traduzioni invecchiano ed è una necessità concreta poter rileggere i classici e i grandi libri anche a distanza di molti anni in una lingua che non percepiamo come “aliena”. Però la ritraduzione è un lavoro, ed è un lavoro complicato e impegnativo, tra l’altro.

Jean Cocteau
LB: Al di là dei pensieri rivolti alla domanda precedente, c’è un libro che desideri fortemente tradurre "a prescindere"?
R: Dall’inglese mi piacerebbe tantissimo tradurre Stephen King perché lo adoro da quando ero ragazza e alcuni suoi libri mi hanno letteralmente accompagnata per anni. Dal francese vorrei da sempre tradurre Jean Cocteau, di cui ho letto quasi tutto ai tempi dell’università e che amo moltissimo, tra le altre cose, per la scrittura pulita ed elegante.

LB: Hai tradotto anche per il teatro. Ci sono delle specificità proprie della traduzione per il teatro, almeno per quanto concerne la tua esperienza?
R: Quando ho tradotto per il teatro ho sempre letto ad alta voce la mia traduzione, anche molte volte. Sentire la parola che prendeva forma nella sua concretezza mi è servito per capire se quello che scrivevo era adatto o no a essere recitato. Per quanto riguarda i libri di saggistica e narrativa l’approccio invece è diverso: cerco di farmi un’idea il più possibile precisa del testo e della voce dell’autore (che in realtà poi scopro solo a mano a mano che procedo con la traduzione) e mi affido moltissimo alle riletture che faccio prima di consegnare, quando davvero so com’è fatto il testo e che ritmo ha la lingua.

LB: Nelle cotraduzioni come ti trovi? Cosa si può fare per farle andare bene sin da subito, secondo te? 
R: Ho sempre avuto la fortuna di tradurre con persone che conosco e a cui voglio anche molto bene, quindi dal punto di vista umano è stato facile. Questo non significa che sia sempre scontato trovare subito la stessa direzione o concordare su tutto. Ma al di là del fatto di conoscersi o meno, credo che per tradurre bene con qualcun altro sia necessaria l’arte del compromesso e del dialogo. Accettare che l’eventuale rilettura dell’altro limi le nostre asperità ed essere consapevoli che possiamo fare altrettanto. Il confronto è la base di tutto, anche solo perché bisogna avere un’idea assolutamente precisa di come rendere certi nomi o espressioni e di conseguenza rispettare l’uniformità e la coerenza della lingua.

LB: E logicamente, in barba a un principio di contemporaneità e simultaneità con l’attualità editoriale chiudiamo con la fine, ovvero con l’ultima tua traduzione pubblicata, che se non erro rimane Io sono vivo e tu non mi senti di Daniel Arsand (Codice Edizioni). Ci saluti dandoci una microrecensione di questo libro? 
R: Quello di Arsand è un libro a cui sono legata perché è delicato e terribile, pieno di grazia per la scrittura veloce e sofferta. È la storia, commovente e lacerante, di un ragazzo che torna a casa, a Lipsia, dopo l’esperienza tragica del campo di concentramento di Buchenwald, dove è stato rinchiuso perché omosessuale. Lungo quasi tutto il romanzo aleggia un senso di perdita assoluta, la sensazione schiacciante di un’esistenza senza redenzione che solo alla fine della storia, e solo in parte, viene riscattata.


(Rinvio al sito di Sara Prencipe qui).

lunedì 29 maggio 2017

da "Смяна на огледалата (Cambio degli specchi)" di Aksinia Mihaylova

Una poesia da #64


Aksinia Mihaylova è nata il 13 aprile 1963 nel nord-est della Bulgaria. Dopo il Liceo di lingua francese si è laureata all’Università degli Studi di Sofia “San Clemente di Ocrida”, facoltà di lingue slave. Nel 1990 è la co-fondatrice della rivista letteraria “Ah, Maria” dove collabora anche in prima persona come redattrice. Autrice di sei raccolte di poesia apparse in bulgaro. Considerata una della maggiori poete bulgare, è stata tradotta e pubblicata in 15 lingue. Sue poesie sono presenti in diverse antologie e diverse riviste letterarie cartacee e on line in Francia, Belgio, Canada, USA, Italia, Spagna, Moldavia, Romania, Slovacchia, Serbia, Croazia, Macedonia, Slovenia, Lituania, Lettonia, Turchia, Grecia, Egitto, Cina, Australia e Giappone.
Ha pubblicato i seguenti libri di poesia in Bulgaria: Тревите на съня (Le erbe del sogno) София, Български писател, 1994; Луна в празен вагон (Luna in un vagone vuoto) София: ФБЛ Аквариум Средиземноморие, 2004; Три сезона / Trois Saisons (Tre stagioni), libro bilingue in bulgaro e francese, издателство ЛЦР, 2005; Най-ниската част на небето (La parte più bassa del cielo) София: ФБЛ, 2008; Разкопчаване на тялото (Sbottonare il corpo). Пловдив, Жанет 45, 2011 (Premio nazionale di poesia Hristo Fotev, 2012 e Premio nazionale di letteratura Miloch Ziapkov, 2012); Смяна на огледалата (Cambio degli specchi). Пловдив, Жанет 45, 2015.

È autrice della raccolta di poesia scritta in francese Ciel à perdre (Gallimard, Collection Blanche, 2014; 73° Prix Apoollinaire) e due raccolte di poesia tradotte e pubblicate in slovacco Domptage, LIC, Bratislava (2007) e in arabo En attendant le vent, Cairo, (2013).
In qualità di traduttrice ha trasposto in bulgaro una trentina di opere. Tra gli autori tradotti si possono menzionare George Battaille, Pierre Bourgeade, Vénus Khoury-Ghata, Liliane Wouters, Guy Goffette, Sylvie Germain, Anise Koltz, Linda Maria Baros, Rose-Marie François, Jean-Claude Villain, Lambert Schlechter, Anne Wiazemsky, Alexis Jenni e altri. Nel 1992 è stata tra i fondatori del movimento Cap à l’Est, che riunisce poeti dell’Europa centrale ed orientale, sotto la direzione del “Théâtre Molière – Maison de la poésie” di Parigi.

È stata curatrice e tradutrice di un’antologia della poesia lettonе, pubblicata in bulgaro (2008) e di un’antologia della poesia lituanа (2007). Ha partecipato a numerosi festival e eventi di poesia e ricevuto svariati premi in Bulgaria e all’estero per le sue poesie e le sue traduzioni tra cui emerge il premio francese Guillaume Apollinaire 2014 per il suo libro scritto in francese Ciel à perdre (Gallimard, 2014).



QUANDO SONO PRESA DAI DUBBI


Qualsiasi cosa tu scriva,

non esprimerai mai il senso,
perché all'inizio non era il verbo,
ma la gioia dei corpi.

Poi è venuta la stagione della tenera fame.


L'orizzonte è imbiancato e gli uccelli hanno assalito il grano.

Le piccole fiere delle parole che ci lanciavamo
mordevano, sempre più accanite, il nostro
futuro comune e ho capito
che solo i miei sensi possono esprimere
tutte le sfumature di tristezza
di cui è intrisa la tua lingua.

È allora che ti ho perso

in fondo a una poesia.

Ora, con il silenzio nel cuore,

osservo il ventre liscio della luna d'agosto
tremare nella tazza di porcellana
ma tu non puoi entrare in questo paesaggio
perché dalle spalle in su
sei un vero e proprio inverno.

Così rimango nella mia realtà:

ti restituisco le parole
e trattengo la mia gioia.



(Traduzione di Emilia Mirazchiyska e Francesco Tomada)


da Смяна на огледалата (Cambio degli specchi), Жанет 45, 2015



venerdì 26 maggio 2017

Le lettere di Gustav Mahler a compositori, direttori d'orchestra e intendenti teatrali raccolte in "Caro collega" da Il Saggiatore

Musicali pretesti #14

Di tanto in tanto, una notizia su un libro e un brano da ascoltare, al libro collegato.

Tanti tanti anni fa girava per casa un volume verde di Giuseppe Pugliese intitolato Gustav Mahler ...il mio tempo verrà. Lo prendevo in mano spesso, lo sfogliavo e non lo leggevo mai. Del resto, come ho scritto, questo accadeva tanti tanti anni fa. In pochi casi il primo contatto con la musica di un compositore è passata prima per un libro, una copertina, quel ritratto austero del compositore e direttore d'orchestra con gli occhiali. Un volume con un titolo analogo è stato riproposto nel 2010 da Il Saggiatore, Gustav Mahler: Il mio tempo verrà. La sua musica raccontata da critici, scrittori e interpreti 1901-2010 (a cura di Gastón Fournier-Facio, pp. 832, euro 45). Il Saggiatore, va detto, è una casa editrice che mostra le maggiori e più belle attenzioni a quello che resta dell'editoria musicale all'interno dei cataloghi di varia, in più generi musicali e stando ben lontana da certe infatuazioni di altre case editrici. Di recente la stessa casa editrice, per la cura di Franz Willnauer e la traduzione di Silvia Albesano, ha mandato in libreria un altro volume mahleriano, leggermente meno corposo di quello ricordato poco sopra, intitolato Caro collega. Lettere a compositori, direttori d'orchestra, intendenti teatrali (pp. 436, euro 42). Il libro si colloca in un solco più grande che è quello della grande tradizione dell'epistolografia mahleriana, un fiume che ha più rivoli (si pensi alle lettere alla moglie Alma Maria Schindler o al carteggio con Richard Strauss). Com'è normale e giusto che sia, in un epistolario così ricco si potranno trovare le lettere ai "colleghi" compositori, ma anche le non meno interessanti lettere che documentano le travagliate vicende organizzative che un compositore sempre deve affrontare. Del resto, per diventare grandi, c'è poco da fare, tocca lavorare sodo e non basta, oggi meno che mai, star davanti a un computer e fare tutta quelle serie di cose che un computer o altri dispositivi consentono di fare (certo, si può "lavorare al computer", anche in ambito artistico, ma non basta). Il libro offre quindi a un lettore di oggi anche un peculiare e saporito motivo di interesse, perché ci mette davanti gli affanni e le attività di un musicista-imprenditore. Si può leggere qua e là, in alcune sue parti, come un testo che evoca e forse anticipa i nostri affanni promozionali ai tempi del promuovi te stesso in campo culturale e artistico (i nostri mezzi sono gratuiti o quasi e purtroppo certi effetti della gratuità si notano). E, poiché siamo tutti qui a provare a fare la fantomatica promozione, non è male gettare uno sguardo attento sullo stile di condotta di un artista come Mahler, proprio in quello che oggi considereremmo il lato promozionale della sua vicenda (sia chiaro che non uso la parola "promozione" in senso dispregiativo, perché è necessaria, ora come allora, il problema è semmai il come farla).

Per l'ascolto pretestuoso vado a parare sul pezzo che segue, il quale risale davvero agli albori della carriera di compositore di Mahler, che nacque nel 1860 e morì nel 1911. Siamo nel 1876, Mahler è un giovanissimo studente di conservatorio e Il Quartetto con pianoforte in la minore rimane ancora oggi la sua prima opera nota (incompiuta).




"Ad ovest qualcosa si muove". La rassegna tra i quartieri di Monigo, Santa Bona, San Liberale, San Paolo e San Pelajo di Treviso

"Ad Ovest qualcosa si muove" è una rassegna di concerti, spettacoli teatrali, eventi di poesia, danza, movimento e sport in luoghi significativi dei quartieri ovest della Città di Treviso. All’aperto tra gli alberi e sotto le stelle, nei parchi e nelle aree verdi, nei giardini di Ville e di case solidali, nel bosco del respiro. Da un'idea nata dal progetto quartieri Ovest “Scenari e Idee per il nostro quartiere” promosso dall'Assessorato alla Partecipazione del Comune di Treviso in collaborazione con il Dipartimento di prevenzione dell'AULSS 2 – Distretto Treviso.

Un programma di note, parole e movimento tra il verde dei quartieri Monigo, Santa Bona, San Liberale, San Paolo, San Pelajo si svilupperà tra maggio e settembre 2017.




Il pieghevole completo di questa rassegna 
è scaricabile come PDF a questo link.


Per quanto riguarda la parte la parte del programma con le letture di poesia, curata da Andrea Breda Minello, segnalo le serate del 15 e 22 giugno:

Giovedì 15 giugno 2017, ore 21
Bosco del respiro
Il bosco poetico: la poesia tra natura e bellezza
Letture di Maddalena Bergamin, Alberto Cellotto, Roberto Cescon, Isabella Panfido, Francesco Targhetta e Antonio Turolo

Giovedì 22 giugno 2017, ore 21
Bosco del respiro
Il bosco poetico: la poesia tra natura e bellezza
Letture di Simone Maria Bonin, Giovanna Frene, Laura Liberale, Luca Rizzatello e Giovanni Turra

mercoledì 24 maggio 2017

"Neurobiologia del tempo" di Arnaldo Benini. Possiamo prendere congedo dal tempo?

Che cosa c'era prima del Big Bang? Domanda legittima per il nostro cervello che produce il tempo assieme ai concetti di prima (e dopo). Ma se pensiamo che dal Big Bang è iniziata anche la "storia" del tempo così come lo conosciamo (o tentiamo di conoscere) la domanda comincia a vacillare o quantomeno a proiettare una luce diversa su quel qualcosa che per Kant era un a priori dell'esperienza assieme allo spazio (e a livello neuronale abbiamo scoperto che c'è prossimità tra quanto è deputato alla percezione del tempo e quanto è deputato alla percezione spaziale). Chiedersi cosa c'era prima del Big Bang è allora chiedersi cosa c'era prima della nascita del concetto di prima. Tutto cambia e il tempo stesso evolve, muta. Il tempo di oggi non è quello di una volta, verrebbe da dire, e tanto meno quello dei primi minuti dell'universo. Inoltre, allargando lo sguardo, il quadro cosmologico e fisico, semplificando drasticamente, risulta circa il seguente e chi legge libri di divulgazione lo sa: per il tempo non è un gran periodo all'interno della fisica moderna e non certo da oggi. La fisica quantistica pare abbia intrapreso un lungo percorso, a tratti convincente e persuasivo anche per chi la frequenta da esterno, volto a espungere il tempo dalla trama della realtà. In termini simili si esprime un fisico e divulgatore di successo come Carlo Rovelli. Non tutta la comunità dei fisici però concorda e chi ha anche solo preso in mano i libri del fisico statunitense Lee Smolin lo sa, perché Smolin pone un assunto di fondo che coincide con quanto ricaviamo dalla lettura del libro di Arnaldo Benini Neurobiologia del tempo (Raffaello Cortina, pp. 120, euro 14): non è possibile né opportuno prendere congedo dal tempo. La nostra domanda di partenza potrebbe allora essere anche un'altra: fino a quando saremo in grado di sostenere una teoria come quella del Big Bang e cosa succederà alla conoscenza umana, anch'essa risiedente nel cervello degli uomini, se questa teoria sarà abbandonata? Naturalmente non è questo il punto focale del libro di Benini, ma questo passaggio e la piccola provocazione in esso contenuta serviva a riportare lo sguardo sul cervello e sui risultati delle neuroscienze cognitive che Benini sintetizza con efficacia. Il suo percorso è diventato un libro scritto con una prosa che alterna significativamente il rimando alla letteratura scientifica e il riferimento alla nostra esperienza comune e diffusa del tempo e delle sue bizzarrie. Per fare un solo esempio, al di là di discorsi che si possono fare sull'inquinamento luminoso di uno stadio, nelle gare di atletica si usa tuttora per la partenza uno stimolo sonoro e non visivo, poiché reagiamo in minor tempo a potenti stimoli sonori. Così Usain Bolt si trova già proiettato in gara prima ancora di averne coscienza.

Arnaldo Benini, che è professore emerito di Neurochirurgia e neurologia presso l’Università di Zurigo, non è nuovo a simili affondi saggistici e ha scritto un libro breve e chiaro sul tempo e sul contributo neurobiologico alla comprensione di questo quid che da sempre chiama a raduno le intelligenze di filosofi, letterati, fisici e neuroscienziati. Per stare alla "nostra" letteratura, un campo caro anche a Benini e da sempre irretita e sedotta dal tempo, non è da escludere che la nozione di "temps perdu" usata da Proust per titolare La recherche fosse entrata nel suo radar grazie alla familiarità di certi studi del padre medico, in particolare con quelli di Herman von Helmholtz, che a metà del XIX secolo, studiando l'elettricità animale, scoprì il "tempo perduto" tra un evento e la sua coscienza (è infatti illusione la simultaneità tra evento e sua percezione e oggi si parla infatti generalmente di "tempo compresso", insomma, siamo sempre in ritardo e il presente stesso è presente ricordato)Attraverso capitoli brevi e ben calibrati Benini si mette al servizio di un lettore disponibile a percorrere le diverse immaginazioni attorno al tempo. In queste pagine il neurochirurgo passa attraverso realtà e illusione del tempo, le sue certezze e il suo enigma (come nel celebre adagio agostiniano sul tempo), la distinzione tra GT (tempo oggettivo, government time) dei fusi orari e degli orologi, manufatti dell'uomo, e PT tempo personale (personal time) nel quale "detta legge" l'affettività che fa vivere il tempo a ciascuno in modo diverso. Benini affronta anche in un capitolo dedicato la centralità del tempo negli studi sul linguaggio e sulla musica e non mancherà di interessare linguisti e musicologi. Efficace risulta in chiusura la rassegna della letteratura scientifica nei casi di lesioni o glioblastomi e molto belli sono i capitoli dedicati al mondo animale e al senso del tempo che permane anche nel caso di non-coscienza dato dal sonno.

Per tornare al quesito del titolo, secondo l'autore "non è possibile né opportuno prendere congedo dal tempo", neanche a seguito delle pressioni del mondo fisico. Pare paradossale il contesto contemporaneo, dove se da un lato troviamo la scienza fisica che prova, nel suo studio delle relazioni tra corpi e particelle, a spingere fuori il tempo, dall'altro riscopriamo continuamente i sensi del tempo per provare a sentire e capire qualcosa che sta dentro la natura (natura tout court, non natura umana). Ogni scienza, nel tempo (tocca dirlo), tende a creare una curiosa sovrapposizione con gli strumenti concettuali di cui si è servita per studiare il proprio oggetto e un senso quasi felice di profonda incompletezza, che non è da intendersi come rinuncia (tanto meno rinuncia dell'avventura scientifica) inizia finalmente ad abitare in noi. Potrebbe essere un nuovo scenario assai fecondo. Aspettiamo. Per Richard Feynman, fisico, il tempo è quello che succede quando non succede niente.

sabato 20 maggio 2017

"L'antagonista" di Edoardo Zambelli

Gioca bene la carta del proprio esordio Edoardo Zambelli ne L’antagonista (Laurana, pp. 222, euro 15), costruendo un romanzo che corre su due linee che convergono verso un comune punto di fuga. Qui la fiction (quella che possiamo chiamare la "vicenda principale") e la meta-fiction (le pagine del romanzo che il protagonista anonimo sta scrivendo, finzione nella finzione) si intervallano creando un inedito gioco di specchi, retto sempre con attenzione e controllo in ogni fase della narrazione, in una prosa che si distingue per come lascia precipitare l'incerto dentro la certezza di un nugolo fitto di descrizioni, fino all’allucinato e allucinante epilogo. Quanto avremo letto fino allora si sarà srotolato davanti a noi come un giallo a tappe, costellato di geometriche e inquietanti coincidenze. Evitando di avvitare l’analisi attorno a un protagonista (ma si usa questa parola con le pinze in un romanzo che si intitola così!) e alla sua vita di trentenne-quarantenne inetto e inadatto dalla vita sfasciata - tema di cui ipotizziamo gli operatori editoriali non sentano la mancanza, dopo i tentativi promozionali della spenta “generazione TQ" - Zambelli ha costruito un viaggio in prima persona che continuamente rimanda agli altri, al prossimo, alle entrate/uscite delle persone e dei luoghi nella vita di tutti.

Chi si racconta ha da poco concluso una relazione di matrimonio e decide di ritirarsi a Torre dell’Orso, un paesello marino della Puglia, per scrivere un romanzo e questa è una delle due rotaie su cui effettivamente scorre il testo, oltre alla vicenda principale. Qui, provando a ricomporre una vita routinaria fatta di passeggiate e scrittura, farà la casuale scoperta, da un quotidiano locale, della morte per suicidio di Erika, persona-movente di tutto il viaggio che intraprenderà e di tutte le anime che si accalcheranno nelle pagine di questo libro. Erika era stata la sua ragazza molti anni prima, all’epoca dell’università nel mantovano. Proprio per questo l’uomo che narra la vicenda principale con una prosa lontanissima dall’ipotassi (e forse all’inizio bisogna un po’ fare l’orecchio alla frammentazione) si reca a Gonzaga per starci qualche giorno. Inizia dalla tomba dove trova un biglietto con su scritto soltanto "perdonami", parla con il parroco senza ricavare granché, ritrova l’agonizzante Giovanni gestore del negozio di dischi dove aveva lavorato, un parente di Erika e Grazia, la donna attraente che ha preso in gestione l’albergo in cui si ferma per qualche notte. Sono tutte persone che scopriremo essere legate alla vita e al destino tragico di Erika. Ad un certo punto la narrazione prende la strada di Roma e lasciamo al lettore anche la curiosità di scoprire quale Roma dipinga Zambelli, perché qui sta una delle parti più riuscite del suo lavoro. A Roma i nodi vengono al pettine grazie all’incontro con un impresario teatrale che aveva preso in consegna Erika e il suo sogno di recitazione e veniamo rinviati infine a un fotografo che era diventato il compagno di Erika e che l'aveva uccisa senza ucciderla, mortificandola in uno stupro di gruppo da lui immortalato in una foto. Sono spesso le foto a orientare i vettori del racconto di Zambelli, fino alla foto dello stupro e al suo bruciare. E piove molto nelle pagine, il cielo si riapre ma torna immancabilmente a piovere e fa freddo. I due sensi più corteggiati dalla scrittura, vista e udito, mi pare abbiano trovato in questo esordio una riuscitissima staffetta.

Edmond Jabès ha scritto che "non siamo fatti per pensare gli inizi. Sono gli inizi che, successivamente, ci pensano". A rincorrere il mistero di una fine Zambelli ha scritto soprattutto un libro molto bello sugli inizi delle relazioni e sulla loro permanenza. Il viaggio si compie in avanti nel tempo, ma in realtà diventa un viaggio di ricostruzione, flashback, indagine e memoria. L'impressione è che comunque non ci sia niente di più fuorviante dell'espressione "fare i conti con il proprio passato". Senza esagerare nel dipanare una trama sostanzialmente lineare ma ricca di colpi di scena “a ritroso”, va detto che questo libro ricolloca la scrittura in quel percorso radicalmente disturbante che da sempre le appartiene e che è folle chiederle di dimenticare per inseguire un mercato che sembra più a suo agio nei libri "onesti" dei buoni, edificanti sentimenti e scenette. Giulio Mozzi, che per questo libro ha scritto la bandella, ha affermato che L'antagonista è “un romanzo sul desiderio di essere uccisi”. Questo desiderio può riguardare sia la vicenda principale di Erika sia quella inventata, ovvero l’ulteriore invenzione dentro l’invenzione, la storia che lo scrittore sta scrivendo e che intervalla, spesso con capitoli più brevi, quella che per comodità abbiamo definito “vicenda principale”. Tra l’altro a Zambelli è riuscito anche di non scrivere l’ennesimo romanzo poco interessante con al centro le vicende di uno scrittore: non vi è quasi nulla di autoreferenziale, ma quello che vale è la relazione tra le persone che comporranno questo mosaico di un pavimento curvo e irregolare, dove malcerti si cammina tutti, il come si diventa solo comparsa nella vita di qualcuno, il come si resta nei sentimenti e nel ricordo. Senza rinviare a idiozie come ad esempio "il fuoco sacro dell'arte" o altre menate del genere, anzi, lasciando percepire il distacco profondo da queste (almeno mi è parso si percepisca nettamente ciò nell'incontro tra il protagonista e l'impresario teatrale), Zambelli ha infine instillato il dubbio di un rinnovato valore simbolico attivato da qualsiasi opera di finzione. In effetti lui a volte fa economia e ogni cosa che rientra nello spettro di registrazione della sua sonda sembra poi per forza destinata ad avere un ruolo fondamentale nella ricerca attorno al mistero di Erika. In tempi di realismo o neorealismo questa economia di elementi e questo ruolo di tutto ciò che precipitava nella pagina aveva un valore ben preciso e diverso, forse poco interessante. Oggi è diventata altro. Ma che cosa precisamente? Simbolo e basta? Non lo so.

martedì 16 maggio 2017

"La casa di Bernarda Alba" di Federico García Lorca. Settant'anni fa la prima in Italia

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #35


Dopo aver ricordato (qui) l'enigmatica e inesauribile opera Il pubblico, torno brevemente sul teatro di García Lorca, corpo di testi che nel tempo appare parte tra le più feconde e durature del suo lascito di scrittore. Nel 1936, a 38 anni, qualche mese prima di essere fucilato a Viznar dai falangisti, Lorca scrisse La casa di Bernarda Alba, una "tragedia in tre atti" che fece a malapena in tempo a leggere ad alcuni amici. Il titolo ci cala già nella scena unica, ovvero la casa della dispotica Bernarda Alba, uno spazio deliberatamente chiuso, apparentemente ermetico ma con ampie falle. Tra queste spesse mura Bernarda, dopo la morte del marito, ha deciso di allargarsi ed espandersi, e qui ha sostanzialmente sprangato nel silenzio del lutto la vecchia madre e le cinque figlie. Solo la figlia maggiore, che ha ereditato dal padre, potrà avere rapporti con gli uomini e in particolar modo con Pepe il romano, il più bello del paese, un personaggio che Lorca ha l'accortezza di non mandare mai in scena, lasciando questa tragedia nell'alveo di un gineceo sofferente ad alta pressione e creando un gioco interni/esterni in assenza di esterni. Pepe, che è solamente interessato all'eredità della sorella maggiore, ha in realtà una storia con la sorella minore, Adele. Questa finirà per impiccarsi quando Bernarda finge di aver ucciso l'uomo che, a causa della frequentazione con la figlia più piccola, è divenuto la causa dei mali della famiglia e potenziale minaccia dell'onore.

Dramma della segregazione (non solo quella della gioventù delle figlie, ma anche quella della madre anziana e di una serva), dell'intrico soffocante delle convenzioni nella Spagna rurale (siamo in Andalusia), del senso dell'onore, dell'abbandono e della convergenza verso uno stesso uomo da parte di più sorelle, finanche esempio all'apice di una certa gelosia raggiunta "intra moenia", La casa di Bernarda Alba è parimenti un dramma semplice, un "documentario fotografico" nella parole del suo autore, che lascia all'esecuzione scenica il rinnovarsi del guardare che reinventa, ogni volta, il prodigio stesso del teatro. Nelle voci femminili che si rincorrono e creano lo spazio chiuso e concluso della casa, Lorca ha alluso - qui più che altrove - ai drammi della pazzia e della ribellione che hanno occupato i palchi del teatro coevo, facendo emergere, più di mille discorsi, alcune riflessioni cruciali per chi si occupa di storia delle donne e femminismo (e trovo strano che non vi sia il suo nome tra quelli che si ricordano maggiormente). Continuiamo a viaggiare sparati tra le convenzioni e il teatro, che è convenzione tra le convenzioni (come il linguaggio, del resto), è ancora una volta qui a farci guardare dentro queste meccaniche convenzionali rattrappite e così poco celesti.

La casa di Bernarda Alba, la cui prima mondiale si registra soltanto l'8 marzo 1945 al Teatro Avenida di Buones Aires con l'attrice spagnola naturalizzata uruguaiana Margarita Xirgu, è disponibile all'interno della collana "Collezione di teatro" di Einaudi sin dal 1965 (pp. 67, euro 10, traduzione dell'ispanista Vittorio Bodini). In Italia la prima fu esattamente settant'anni fa, il 17 maggio 1947, al Teatro Nuovo di Milano, per la regia di Vito Pandolfi e con Wanda Capodaglio. In chiusura, è facile riconoscere che ha sicuramente più senso recensire una messa in scena di un'opera teatrale che un libro che ne contenga il testo in traduzione. Eppure nel gran discorso e metadiscorso fantasmagorico che riguarda i nostri magici libri - e nel quale anche un blog come questo è impelagato - è bene che ritornino protagonisti anche i libri del teatro: spesso nascondono più tesori della narrativa o della poesia, solo per far il nome di due generi, e funzionano meglio come attivatori di impressionanti scene mentali che possono o meno aver trovato un riscontro in una data regia e messa in scena dell'opera. Provare per credere. 

sabato 13 maggio 2017

da "L’anno di Giorgia" di Mila Lambovska (nella traduzione di Emilia Mirazchiyska)

Una poesia da #63


Foto: Tonya Atanakova


Mi chiamerò Zinaida 

Sarò nata in Sibiria.
Raccoglierò Matricaria camomilla nei miei sogni 
e sognerò cose sognate ma  di poca importanza 
Come mi bacerai, bacerai, bacerai
poi mi dici: “Te la cavi bene”.
La seconda guerra mondiale non sarà cominciata.
Saremo passato, presente e futuro nello stesso tempo.
Anche la terza non sarà cominciata.
Ma sapremo che arriverà e ci ameremo
con  accanimento.
Proviamo a fare  cinque, sei, sette, otto
bambini barbuti
in un albergo inventato
in Shambala dov’è estate eterna.
Prima di fucilarci diranno
che l’avevano osservato durante tutto il tempo
ma gentilmente hanno aspettato la fine dell’inverno siberiano.


Così tanto mi pesa il vento

Come una balena che giace sul mio sonno
come una pioggia in cui io affogo
e poi vengo a galla su una costa sconosciuta
Come una balena che provoca la catastrofe di una nave
Come inchiostro che si è sparso sul parquet 
di una vecchia casa borghese
Come una balena scappata dall’oceano
E la governante non sapeva
che fare con il bebè illegittimo
Mi aveva nascosto tra i cespugli di rose
dicono che avessi pianto
Come una balena durante una tempesta, abbandonata
ficcata nella sabbia, che se sapesse il bulgaro
avrebbe gridato salvatemi, sono un principe incantato
sono vento
e peso così tanto
che ormai non ce la farà e si sveglierà...



Mila Lambovska
Le sue raccolte di poesie uscite in Bulgaria sono Ode per Ghizu-Bazu, pubblicata nel 1996 in poche copie con lo pseudonimo Mila Kirovaz, lilà (2007) e Tango con tigre (2013) edite dalla casa editrice bulgara Janet 45 e l'ultima raccolta L’anno di Giorgia (Scalino, 2016) da cui sono tratti i testi sopra.


mercoledì 10 maggio 2017

"Essere Corpo. La Prima guerra mondiale tra letteratura e storia": presentazioni a Torino e a Genova del volume curato da Tancredi Artico

Leggere una grande guerra #25

"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).




COMUNICATO STAMPA

IL RUOLO TESTIMONIALE DEL CORPO 
NELLA GRANDE GUERRA: 
PRESENTAZIONE DEL VOLUME ESSERE CORPO


Orari: 
Giovedì 11 maggio ore 18.00, presso la Libreria Trebisonda, Via Sant’Anselmo 22, Torino. Ingresso libero.

Lunedì 15 maggio ore 16.30, presso la Biblioteca Civica Berio, Via del Seminario 13, Genova. Ingresso libero.

Infoline: www.iodeposito.org; www.bsidewar.org

A Torino e Genova lo start up del B#SIDE WAR FESTIVAL, rassegna artistica e culturale ideata e promossa da IoDeposito Ong, inizia con la presentazione del volume Essere Corpo – la Prima guerra mondiale tra letteratura e storia, edito per Lint nel 2016 a cura di Tancredi Artico. Oltre alla presentazione generale dei progetti di ricerca internazionali di IoDeposito, le due città ospiteranno infatti giovedì 11 e lunedì 15 maggio un incontro dedicato alla raccolta di saggi sul ruolo del corpo e del suo immaginario nella Prima Guerra mondiale. Gli appuntamenti appartengono al nutrito programma della terza edizione del Festival, che prevede numerosi eventi nazionali ed internazionali quali mostre d’arte e installazioni artistiche, performing, conferenze, progetti di ricerca e pubblicazioni.

Esito editoriale del complesso progetto di ricerca internazionale "Il corpo delle umane memorie", Essere Corpo si compone di sedici contributi saggistici di oltre venticinque ricercatori e professori universitari provenienti da otto paesi. In una panoramica approfondita e trasversale, il volume si propone di  mettere a fuoco il tema del ruolo del corpo nell'arco di ciò che si può considerare la fonte dei conflitti novecenteschi e attuali: la Grande Guerra. La prospettiva di analisi è incentrata sul valore originale della testimonianza e sul linguaggio universale del corpo, slegata pertanto dall'approccio unicamente storicistico. A tracciare il composito quadro, concorrono difatti pagine di letteratura e saggistica di storia contemporanea, così come di storia dell'arte, diaristica di guerra e di sociologia della comunicazione. Essere Corpo, che gode del patrocinio dell’Università degli Studi di Trento, della Struttura di Missione della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Segretario Generale del Consiglio d’Europa, si configura dunque come un attraversamento poliedrico del 'quinquennio di sangue', crudo ma sincero. E proprio da questo imprinting di ricerca il volume trae la propria forza critica, mettendo insieme una disamina corale che mira a restituire allo studio delle guerre (mondiali, ma non solo) la propria dimensione costitutivamente umana.

A coronare il percorso di ricerca è infine la copertina, l'opera Glue Zebra di Paolo Patelli, che non solo esemplifica la scelta di evitare un rigido approccio storico-matematico ma contestualizza il libro nella contemporaneità, attraverso una rilettura moderna e sfaccettata di un’esperienza di dolore. «Una ricapitolazione necessaria» spiega Tancredi Artico, italianista in forza all'Università degli studi di Padova e curatore dell'opera «che nasce dall'esigenza di indagare i conflitti bellici in virtù di una visione poliprospettica, attingendo al multiforme ventaglio d'analisi offerto dalle espressioni artistiche, memorialistiche, e dai documenti diretti e indiretti». Finanziato dalla Regione Friuli Venezia Giulia e insignita del massimo riconoscimento da parte dell’UNESCO, Essere Corpo ritorna sulla Prima Guerra Mondiale con documenti e testimonianze d'eccezione la cui validità scientifica si fa risorsa stimolante, e non limite che si arena su date e resoconti di conquiste, permettendo così al lettore di non dimenticare che la guerra è stata fatta da uomini, contro uomini.

Il curatore Tancredi Artico e alcuni collaboratori presenteranno Essere Corpo

-a TORINO, giovedì 11 maggio alle ore 18.00, presso la Libreria Trebisonda, Via Sant’Anselmo, 22 (TO);

-a GENOVA, Lunedì 15 maggio alle ore 16.30, presso la Biblioteca Civica Berio, Via del Seminario, 13 (GE).


Contatti
Link dell'evento:  
http://www.bsidewar.org/it/prossimi-eventi/corpo-ruolo-del-corpo-del-suo-immaginario-nella-guerra-libreria-trebisonda ; http://www.bsidewar.org/en/highlights/corpo-ruolo-del-corpo-del-suo-immaginario-nelle-guerre-ieri-oggi/
Web: www.iodeposito.org; www.bsidewar.org
Direzione: info@iodeposito.org

Ufficio stampa: daniela.madonna@iodeposito.org

martedì 9 maggio 2017

Genesi e storia della «trilogia» di Andrea Zanzotto nel libro di Francesco Venturi. Una recensione di Eloisa Morra

La seguente recensione di Eloisa Morra al libro Genesi e storia della “trilogia” di Andrea Zanzotto di Francesco Venturi (Edizioni ETS, pp. 265, euro 26) è apparsa, in forma leggermente accorciata, nel numero di maggio 2017 de "L'indice dei libri del mese". Ringrazio l'autrice per aver concesso di riproporla qui. Nella recensione troverete il riferimento alla querelle Zanzotto-Fortini. Su questa e anche sul carteggio tra i due poeti sarebbe opportuno si tornasse quanto prima (per ora un volume di riferimento resta questo numero della rivista "L'ospite ingrato" con il contributo di Velio Abati).

A più di cinque anni dalla morte di Andrea Zanzotto (1921-2011) rimane ancora molto da chiarire sul modus operandi di un autore la cui difficile opera — da Dietro il paesaggio (’51) fino all’ultima raccolta, Conglomerati, pubblicata due anni prima della morte — ha spesso sfidato, superandoli, i confini del “poetabile”, ma ha anche dato adito a interpretazioni talvolta più attente ad allinearsi a questo o quel principio teorico che a confrontarsi con i testi. Imprescindibile viatico e chiave d’accesso all’ardua poesia del veneto restava finora il “Meridiano” delle Poesie e prose scelte (1999), che conteneva un commento a ogni singola poesia ad opera di Stefano Dal Bianco. Ma, precisava Dal Bianco in quella sede, «le strade sono ancora aperte e nessuno ha avuto l’ardire di mettere ordine nelle carte dell’autore».

Il libro di Francesco Venturi intraprende per la prima volta organicamente questa via con un’approfondita analisi filologica e critica dei manoscritti e carte autografe custoditi oggi al Centro Manoscritti dell’Università di Pavia. Ne emerge il ritratto d’un autore che, oltre a rivelarsi tormentato correttore dei suoi testi (come già si poteva arguire da alcune dichiarazioni: «io non sono mai stato affezionato al concetto di definitività del testo poetico. Pronunciare il ne varietur mi turba»), vede il moltiplicarsi delle varianti e dei potenziali percorsi poetici da percorrere come «sensazione quasi persecutoria per colui che scrive»: «Nel mio modesto caso prevale una volontà, a un certo punto diventa impellente, di troncare: basta, stop, non si varia più, che il testo sia pure “meno” riuscito non importa».

L’importante studio di Venturi mostra per la prima volta “come Zanzotto lavorava”, mettendo in campo una critique génétique che si rivela alquanto efficace sia per la comprensione dei tortuosi sentieri dell’invenzione sia per illuminare il testo ultimo. Venturi focalizza l’attenzione sul frutto della piena maturità del poeta, la “trilogia” o “pseudo-trilogia” formata da tre raccolte molto dissimili per temi e stile — il Galateo in Bosco (’78), Fosfeni (’83) e Idioma (’86) —, ma che Zanzotto dice composte nello stesso arco di tempo e definisce alquanto misteriosamente «tre rami non contigui di uno stesso stesso albero». La stessa dicitura di “trilogia” e “pseudo-trilogia” costituisce da sempre un enigma per i lettori di Zanzotto: come interpretare questa definizione? In che tempi e modi le tre raccolte si sono formate, e come si è sviluppato nell’arco di un decennio un ambizioso progetto che si indovina essere inizialmente unitario? Quali le segrete connessioni tra tre libri così diversi — l’uno sprofondamento nel bosco del Montello, l’altro salita a Nord verso le abbaglianti dolomiti, l’ultimo ritorno nei luoghi familiari di Pieve di Soligo?

Per rispondere al primo quesito Venturi rintraccia da un lato elementi che possano connettere (pur in maniera intermittente) le singole raccolte alle cantiche dantesche, dall’altro richiama l’immagine del ‘rizoma’ impiegata da Deleuze e Guattari nel ’76. Fornisce poi risposte precise e intelligenti interpretazioni critiche sulla modalità di formazione del corpus ricostruendo la cronologia interna delle liriche, operazione facilitata dalla puntigliosa abitudine di Zanzotto di apporre date precise sulle sue carte e sintetizzata efficacemente nel libro in numerose tavole. Impossibile dare conto di tutte le novità emerse da questa preziosa ricognizione dei segreti del laboratorio del poeta, ma Venturi arriva a mostrare la contiguità temporale tra gli ardui testi metafisici di Fosfeni, i manieristici sonetti del Galateo e le umili poesie in dialetto trevigiano di Idioma, e a individuare nel biennio 1976-77 il periodo di massimo fervore creativo per il poeta. Ci viene poi mostrato come testi notevoli della “trilogia” risalgano già a diversi anni prima e si riconnettano alle raccolte precedenti: è il caso di Rivolgersi agli ossari… del Galateo, camminata tra gli ossari della prima guerra mondiale, già scritta nel 1965 e strettamente connessa con La Beltà (1968); o della splendida Verso il 25 aprile di Idioma, che affronta il trauma della Resistenza e il senso di colpa per la rimozione della storia nelle prime raccolte ermetiche, risalente ai primi anni Settanta e originariamente destinata alla raccolta Pasque (‘73).

Ciò che emerge sono una miniera di dati inediti, indispensabili per i futuri studi e commenti ai singoli testi. Di particolare interesse risultano, oltre ai capitoli in cui vengono rintracciate le fonti filosofiche e poetiche che hanno alimentato la trilogia (Derrida e Heidegger da un lato, Rimbaud e Celan dall’altro), le sezioni sul rapporto con il cinema di Federico Fellini e sulla querelle con Fortini del ’75-’78. In generale, vengono delineati con maggior chiarezza i referenti dei componimenti – oggetti, luoghi e eventi reali –, spesso oscurati dal turbinio del significante della poesia zanzottiana, ma sempre sotterraneamente presenti. Alla base sta la convinzione della lucidità intellettuale di un acuto interprete del nostro tempo, la cui poesia è sempre sorretta da un strenua volontà di comunicazione. A chiarirlo è la poesia che dà il titolo a Idioma, Alto, altro linguaggio fuori Idioma?, attraverso cui Zanzotto rispondeva a suo modo alla questione del “grande stile e lirica moderna” posta nell’83 da Gian Luigi Beccaria: «Ma che m’interessa ormai degli idiomi? / Ma sì, invece, di qualche piccola poesia, che non vorrebbe saperne ma pur vive e muore in essi».


Eloisa Morra


domenica 7 maggio 2017

"Il libro dell'ospitalità" di Edmond Jabès: ogni libro si scrive nella trasparenza di un addio

Leggere Il libro dell'ospitalità di Edmond Jabès (Il Cairo, 1912 - Parigi, 1991), riproposto a distanza di 25 anni dalla prima edizione italiana sempre da Raffaello Cortina Editore (pp. 120, euro 11, a cura di Antonio Prete) vuol dire fare esperienza di un libro e di una scrittura che sanno di essere scrittura e libro. L'affermazione è volutamente tautologica, ma servirà da sponda, per continuare a interrogarci su questi due cardini del nostro percorso attraverso il deserto della pagina. Tutto accade attorno a scrittura e libro, pur nella consapevolezza che nella traduzione, nel caso di Jabès, si può perdere molto del valore fonico della prosa (fu poeta a stretto contatto con i surrealisti e il suo caso costituisce una riprova di quanti e quali furono gli innesti e gemmazioni di quel gruppo). Tornando al nostro ragionamento iniziale, non tutte le scritture sanno di esserlo, o meglio, alcune fanno finta di non essere scrittura. Una lettera, uno statuto, un verbale, un libro di saggi  o persino un libro di poesie sanno di essere scrittura. Un libro di fiction finge due volte, perché quasi sempre finge a sé stesso persino del suo status di essere scrittura, oltre alla fiction primaria che riguarda la sua storia. Qui può inserirsi una differenza e distinzione tra narrazione e scrittura, ma per il momento non possiamo affrontarla. Il testo di una lettera, di un saggio, di una recensione, di una poesia sa di essere testo e sa di essere quello. Tale consapevolezza appare invece interdetta a quella cosa che comunemente chiamiamo narrativa. Ne Il libro dell'ospitalità i temi primari del poeta francese si radunano come foglie governate da un mulinello di vento: l'esodo e l'esilio (lasciò l'Egitto per Parigi nel 1957, a causa della crisi del canale di Suez del 1956), il deserto e la solitudine, lo straniero e il profugo precipitano nei pensieri brevi in cui, per l'appunto, la vita si trova ad assomigliare alla scrittura e la scrittura al libro. Nel suo poscritto Antonio Prete ricorda che la lunga tradizione dell'ermeneutica negativa, passaggio obbligato per chi affronta Jabès, la quale ha origine nell'assenza del Nome di Dio dalle lettere nascoste e disperse per il mondo, è sottratta da Jabès
al peso del suo simbolismo, alla mistica della lettera, ma anche al puro significante; ne fa, invece, uno spazio immaginale, dove la parola affronta il vuoto; il vocabolo - questa soglia silenziosa della lingua - muove verso il dire, la sabbia guarda da una distanza infinita il cielo dei significati. 
Il libro dell'ospitalità si svolge al cospetto di una scrittura che tocca i limiti e rimbalza su alcuni dei temi che la nostra epoca ci sbatte in faccia ogni giorno attraverso i media ma che in realtà sono temi vecchi quanto l'umanità, solo più infernale è diventato il tratto nel quale li accogliamo e ne dibattiamo: sofferenza e dolore, ospitalità appunto e estraneità, nomadismo e una certa angoscia dell'abitare. In Jabès si ravvisa persino angoscia di abitare certe forme di scrittura note e la varietà di frammenti e tessere collocate da Jabès nella propria opera ne dà testimonianza (del resto difficile è dire quale scrittura prevalga in Jabès, se quella poetica o quella filosofica, essendo lui stesso un esempio ormai classico di come le due si sono compenetrate). Poiché abbiamo chiamato più volte in causa la scrittura, ecco un breve saggio:
- Quale immagine ti suggerisce il pensiero? - domandò il discepolo al maestro. 
- Forse quella d'un astro divorato dai propri fuochi, un astro che si distingue per l'intensità dei suoi bagliori.
"Il tempo del pensiero è sempre e soltanto il tempo d'un progressivo acclimatarsi alla morte: scalfittura d'un epitaffio", diceva.
E aggiungeva: "Si muore dinanzi alla parola che non dice altro che la nostra morte".
Dicevamo della centralità dell'essere libro. Tutta la produzione di Jabès si incardina attorno alla consapevolezza e vera "promessa incerta" del libro, inevitabilmente legata al destino dell'ebreo, quasi inteso come destino di scrittore per antonomasia. Sono tanti i libri consegnateci dall'autore, molti dei quali tradotti in italiano. Quello corposo "delle interrogazioni" (Bompiani), "dei margini", "della spartizione", "delle somiglianze" (Marietti), "della sovversione non sospetta" (SE), "del dialogo" (Manni), "della condivisione" (Raffaello Cortina). E questo libro postumo, scritto nella trasparenza di un addio, a me pare come il libro impossibile da recensire, per cui mi limito a evidenziare la riproposizione di questa pubblicazione, invitando all'esperienza di lettura di pagine che tornano a interrogarci sui molti misteri dell'ospitalità (problemi centrali, sin da Adamo ed Eva) e sul miracolo dell'universo ("Il miracolo dell'universo è che non c'è miracolo. E noi non siamo capaci di provarlo.")

giovedì 4 maggio 2017

"Avanguardia diffusa. Luoghi di sperimentazione artistica in Italia 1967-1970" di Alessandra Acocella

Avanguardia diffusa. Luoghi di sperimentazione artistica in Italia 1967-1970 di Alessandra Acocella (Fondazione Passaré-Quodlibet, pp. 248, euro 24, cura di Luca Pietro Nicoletti) è un libro con un oggetto e uno scopo circoscritti per bene: l’autrice, che ha condotto studi sui rapporti tra arte e spazio pubblico, sulla storia delle mostre e che è tra i fondatori della rivista digitale "Senzacornice", ha passato in rassegna diverse situazioni e luoghi periferici del sistema dell’arte italiano in cui, negli ultimi anni Sessanta, si sono registrate e si dà testimonianza di esperienze di sperimentazione e avanguardia dell’arte performativa. La scansione dei capitoli è pertanto geografica, legata alle diverse realtà scandagliate. Il lettore si troverà all’interno di un itinerario ben strutturato che comincia nell'Appennino modenese, a Fiumalbo, con la poesia visiva di “Parole sui muri”, un’iniziativa dove incontriamo tra gli altri Claudio Parmiggiani e Adriano Spatola (si veda anche qui, nel bel sito del progetto di Ricerca "Verba Picta. Interrelazione tra testo e immagine nel patrimonio artistico e letterario della seconda metà del Novecento" e il volume Parole sui muri. L'estate delle avanguardie a Fiumalbo di Eugenio Gazzola uscito per Diabasis). Si prosegue nel viaggio toccando, tra altre, le esperienze di sperimentazione ad Anfo sul Lago d’Idro, Caorle, San Benedetto del Tronto, Varese, Como o Zafferana Etnea, dove si registra la conclusione del volume con uno dei casi meno riusciti e più discussi. Interessanti, al di fuori dei soliti solchi del pettegolezzo letterario, sono i collegamenti della situazione performativa di Zafferana Etnea in unione con le polemiche che riguardarono il premio letterario dedicato a Vitaliano Brancati, che in quella località si provava a lanciare, polemiche e vicende che videro tra i loro protagonisti Elsa Morante, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini e Laura Betti.

Fiumalbo (MO), agosto 1967.
Da sinistra, Maurizio, Tiziano e Adriano Spatola,
Arrigo Lora Totino e Claudio Parmiggiani. (foto Luigi Ferro)
L'analisi del quadriennio si conclude all’altezza del 1970 e il momento si può leggere anche come una delle molte conseguenze della strage di Piazza Fontana del dicembre 1969, la quale mutò inevitabilmente anche il rapporto tra artisti e spazio pubblico avendo agito, ancor prima, sul rapporto tra persone e spazi pubblici. Tale relazione con gli spazi, urbani o extraurbani, oltre a essere sancita da tutto il filone della land art e prima ancora dall'architettura, arte pubblica per antonomasia, potrebbe considerarsi particolarmente vivacizzata anche dalla recente opera The Floating Piers di Christo sul Lago d’Iseo. Le costanti che ritornano nelle situazioni analizzate da Acocella sono quindi realtà periferiche, all’aperto (la migrazione dai posti chiusi all’aperto era in corso già da un po’), spesso collegate a precise volontà di rilancio turistico da parte delle amministrazioni locali attraverso “accadimenti e improvvisazioni ambientali”. In una parola: happening. Parte importante del volume è senza dubbio il ricco apparato di fotografie radunate dall'autrice, composto sia da foto d’artista ma anche da immagini ritrovate negli archivi delle pro loco. Il libro di Alessandra Acocella punta dritto a un vuoto nella produzione critica e teorica, concentrandosi su quella che, con il senno di poi, possiamo definire la breve stagione in cui artisti e curatori hanno provato a muoversi con modalità nuove e inedite nel tentacolare (e talvolta noioso, almeno oggigiorno, anche se remunerativo) sistema dell’arte contemporanea.

(Per chi lo desidera, alcune pagine del libro contenenti diverse fotografie si possono sfogliare qui.)