domenica 9 luglio 2017

"Dora Pal" di Ida Travi. La postfazione di Alessandra Pigliaru

L'editore Moretti&Vitali ha pubblicato Dora Pal. La terra, nuovo libro di poesia di Ida Travi. Ricordo in questa breve introduzione che per lo stesso editore Ida Travi ha pubblicato importanti contributi saggistici quali L'aspetto orale della poesia (2000) e Poetica del basso continuo. La scrittura, la voce, le immagini (2015). Per gentile concessione dell'editore si pubblica la Postfazione di Alessandra Pigliaru a questo nuovo libro. Ringrazio in particolar modo Alessandra Pigliaru e Angela Melgrati.


Postfazione
di Alessandra Pigliaru


«Datemi retta, quel che vi dico | non potete capirlo di schiena, devo | parlarvi nel petto, e allora | nel petto fiorirà la rosa». È all’altezza del petto e quindi del respiro che Dora Pal parla. Da petto a petto, significa che il tempo del fiorire è tornato a raccontare di sé e che non gli si può voltare le spalle. Lo si farebbe con la storia e con una parola che sistema gli elementi, dalle stagioni alle cose del mondo, in un ordine comprensibile. Non stupisce che in quel petto alberghi una rosa perché i fiori, l’erba, gli alberi con i rami che misurano il cielo fanno parte da sempre della poetica di Ida Travi. E sono un omaggio alla poetica della magnificenza del minuscolo che da Emily Dickinson ad Amelia Rosselli hanno rappresentato uno dei modi di contrattare con la gratitudine per il circostante.
Questo ultimo lavoro che prende il nome della sua protagonista, Dora Pal, chiude la quarta sequenza in versi dedicata ai Tolki, abitanti della terra di Zard e scampati a qualche naufragio o evento catastrofico non ben identificabile. Ancora adesso, siamo dinanzi a un piccolo nucleo di uomini, donne e bambini. Non si tratta tuttavia di altri centri, lo scenario che descrive Travi è stato composto in una å precisa che dal casolare rosso delle origini arriva alla casetta degli attrezzi, alla struttura diroccata e ora a una tettoia che sta davanti a una cucina; anche gli oggetti da lavoro permangono, così come il tragitto della crescita dei vari bambini che si incontrano, prima della nominazione e ora mentre spingono un carretto, fa parte di un unico pensiero. È infatti l’occhio poetico che da , passando per Il mio nome è Inna e Katrin, ha deciso quale parte del creato illuminare. Come fosse una telecamera, lo sguardo di Ida Travi è la porzione registica a cui l’autrice intende farci accedere. Non un millimetro di più di quella inquadratura, anche se accanto si sente il sospiro di Inna, l’incedere di Katrin, il prodigio del pettine, la torsione dell’anello e il grembiule mutato in scialle. Sono soggettività in movimento che premono, tutti e tutte, davanti alla porta di un futuro a venire ma rimangono fuori dalla vista, sia del verso che della lettura. Meglio non sovrapporsi, pur sapendosi prossimi. ogni cosa ha il suo tempo e ogni faccenda il suo momento sotto il sole.
Il futuro, di cui i Tolki si sono fatti portatori, è adesso. Dora Pal e la sua famiglia-tribù conoscono il significato di ciò che sarà da venire e che, in verità, è già avvenuto: «E se non mi credete, a me che cosa importa | cosa m’importa? Io sono Dora Pal, | sono Dora, io!». Dora Pal è la terra, sia minuscola che maiuscola. Quella che viene calpestata, sia dal nostro passo errante che dall’assalto famelico del profitto. È la terra in cui gravitano viventi meno arroganti degli umani e da cui, ciò nonostante, perseveriamo a non imparare quasi niente. È tuttavia anche la terra su cui ci si inginocchia, che si tocca quando l’elemento del “basso continuo” non la perde di vista. Serve ma al modo dell’inutilità irriducibile, viene compianta e presto ricollocata nell’alveo di un augurio.
Dora Pal non possiede nessun vaso, non ha ricevuto nessuna punizione divina per espiare colpe non sue bensì un tempo, forse, ha avuto il nome rovesciato. Non è un caso che nell’etimo di “dora” stia il significato di “dono”, e invece di “pan” (tutto) abbia preferito un suono più dolce, “pal”, che non la renda rintracciabile. La Dora Pal di Ida Travi ha quindi poco da spartire con la mitica Pandora anche se entrambe hanno potuto maneggiare la speranza e la prima ha capito che l’unico modo di portarla nel mondo è saperla predicare. Pandora risiede nel tragitto menzognero di una storia che attribuisce responsabilità a chi non le ha avute. A questo proposito, il piano di immanenza, Ur, che avevamo già conosciuto, ora si esplicita per ciò che è: «Chi ha paura di Ur? || Nessuno ha paura di Ur? || Ur sta sopra ogni cosa || Vuole mangiarvi in testa || State attenti, state attenti!».
Il tono di Dora Pal è sapienziale, i “piccoli nomi” sono allora il simbolo di zoe, il timbro del nascituro non può determinare semplicemente il bios ma qualcosa di più: «Io chiamo i pulcini | e mi viene da piangere || Ma perché, che male c’è | se mi viene così da piangere?». I mali del mondo sono già tutti scappati di mano, è chiaro come non vi sia nessun cruccio a farsi commuovere da chi è piccolo.
Capelli d’argento, Dora Pal compare torreggiante sopra il «sacco-altare» di farina, elemento cruciale nella poetica di Ida Travi che, se non torna neppure una volta in Katrin, risente di numerose iterazioni ne Il mio nome è Inna. Ma anche ne L’aspetto orale della poesia, come nell’ultimo Poetica del basso continuo. «Dovresti saperlo: la farina | non è come la neve, va nel forno || Tu prendi la farina – così – | ci metti l’acqua e poi… nel forno! || Tu non conosci la storia, Vre || Dell’acqua, del mulino non sai niente | non t’hanno insegnato niente, niente». Una «conoscenzafarina», l’ha chiamata la stessa poeta. La mano di chi scrive è la mano che  «si è ritratta dalla farina così come dal sangue». C’è dell’altro, più profondo della semplicità: in chiusura di questo straordinario lavoro sulle personagge e sui personaggi, unico nel panorama italiano se pensiamo che Travi è riuscita a farne una genealogia critica e simbolica, si avverte lo stringere dell’essenziale; di qualcosa che è di là da lievitare. In Dora Pal farina e polvere sono infatti aspetti della medesima trasformazione. Se la prima è la possibilità di impastare la parola, riparandola al caldo di un forno – a differenza della neve che sarà pur candida ma non sa moltiplicarsi –, la seconda è il monito di una parola che, se non curata, può morire ma per altre ragioni. La polvere in questo senso è sia ontologica che terrestre. ontologica perché chiarisce la natura del pulviscolo che si solleva mentre Dora, Vre, Zet e Kiv si incrociano, non proviene dalla terra ma dalla friabilità di una consistenza relazionale fra loro che esiste da sempre. Allo stesso modo la polvere è terrestre perché le relazioni – quando sono incarnate – hanno il passo della stratificazione storica. La polvere del cimitero, allora, delle tombe di chi ha preceduto una progenie ancora tutta da definire, è il deposito del tempo che non riesce a rigenerarsi.
È che gli enti convocati da Travi sono il contrappunto degli eventi, di quello “scalpitare” che nei lavori precedenti mancava e che qui invece è introdotto dal fischio (del vento come del merlo nero) quando dichiara tempesta: «Eravamo alla stessa altezza la foglia ed io | e sotto il fondamento cantava la tempesta». Del resto è proprio da quella tempesta che si scompigliano le ipostasi, che si sa avvertire il tremore di ciò che sarà. «oltre la porta bianca, oltre | il cespuglio nero… | fino alla coda del cane | fino alla macchina da cucire | Il bambino era per terra | ti ricordi? il rocchetto era per terra | ti ricordi? E le mani per terra | anche loro, anche loro… || L’anima degli animali | entra e esce con le sue ali, Zet | lo dice la parola stessa». Ulteriori riferimenti psicoanalitici di rocchetti, fili e bambini che si attrezzano a far scomparire le madri qui non hanno udienza. Più del rocchetto, ci insegna Ida Travi, è importante il filo. E se esso è ciò che consente al bambino di tirare il carretto, viene ricordato a quel bambino che sta crescendo che un giorno dovrà renderlo. Ancora di più, nel caso di Dora Pal, la corda che tiene al ventre, è il legame. Se allora il rocchetto giunge a essere sostituito dal carretto, significa che il “gioco” di Kiv, prima o poi, non potrà che essere quello di guardare dentro a ciò che trascina: «Tu parla come fanno le radici | lo sai come fanno le radici? || Salgono su dalla terra come se fossero morte | e poi all’improvviso ti danno il fiore, il fiore».
La terra ha la benedizione nell’occhio chiuso del bambino, quell’arco mosso di parole corte, come i Tolki insegnano a ripetere, sono pescate chissà da quale cassetto della memoria onirica. La terra sia benedetta, ci ammonisce Dora Pal, nello scricchiolio dei nomi impronunciabili: «Date retta a quel che dice la vecchia || Se dico –  porta il sasso, porta il sasso | se dico – porta il fuoco, porta il fuoco || Dovete farlo e basta, una non diventa così | per niente, una lo sa se è giusto || E non state qui a discutere, nessuno | può parlare per un altro: è la legge». L’unico tribunale plausibile è quello che segue la legge del cuore, senza criterio: «– essere del mondo cosa vuoi? – || Volevo essere nel petto di qualcuno | volevo sventolare nel petto di qualcuno».
La rivolta possibile appare essere in questo modo quella di sentire, di esercitarsi finalmente a sentire e non solo a pensare, cercando di sanare la scissione immedicabile su cui il canone occidentale ha immaginato fondarsi. Ecco perché i cavalli, uno bianco e uno nero di riferimento platonico, vengono salutati da Ida Travi non nel conflitto di uno sull’altro ma nella assoluta convivenza di entrambi. La terra si regge nelle mani di queste due istanze o forse l’anima è già in salvo? «Come battere un pugno sul tavolo | e alzarsi di colpo gridando: amore!». Tuttavia, è l’anima o il corpo? «Voi, piccole forme d’insetto, voi | esseri vulnerabili nelle chiome». Gli esseri del mondo di cosa si circondano se non di amore? Di cosa reclamano necessità se non di attenzione? Dora Pal è la prima antenata, la regina della parola impastata di lavoro, è la signora che tutto fa muovere, che nella grandezza immensa del cielo intuisce l’importanza del catino. Ma è anche colei che al vuoto della fede (intesa come anello e allusione al vincolo coniugale) oppone la circolarità della parola, del verso che ha detto quanto sia complesso mettere al mondo immagini, linguaggi, parole e opere. E che pur tuttavia si prepara a una nuova gestazione. Non nell’ottica dell’eterno ritorno dell’identico ma seguendo il solco secondo cui nessun essere è del mondo se non nasce già e sempre in relazione. Il commiato dai Tolki non è mai stato più doloroso, eppure ci auguriamo che restando nei pressi di una parola così autentica ne sentiremo ancora parlare. 


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